Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini

American Lies

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Ascesa e caduta della Enron

Collana:
Numero collana:
46
Pagine:
160
Codice ISBN:
9788881123827
Prezzo cartaceo:
€ 17,00
Codice ISBN ePub:
9788876252556
Prezzo eBook:
€ 4.99
Data pubblicazione:
29-11-2002

Per capire l’uragano che ha travolto l’economia USA e seppellito giganti del calibro di Arthur Andersen e Worldcom.

Denaro, petrolio, politica, interessi militari, lotte di potere, truffe, perfino una morte misteriosa. La parabola della Enron – da modello rivoluzionario d’impresa al crack più scandaloso nella storia dell’economia americana – è una vicenda che non tralascia nessuno degli ingredienti classici dei corporate thriller. Quella del fallimento della Enron – il primo e il più simbolico di tutti gli scandali finanziari che stanno mettendo in ginocchio la Borsa americana, da Worldcom a Xerox a Qwest – è una storia che coinvolge il presidente degli USA George W. Bush e il suo passato di imprenditore incerto e di lobbyista incallito, il potentissimo vicepresidente Dick Cheney e i suoi legami con il mondo del petrolio, gli interessi finanziari del principe degli speculatori George Soros e gli strani investimenti della famiglia Bin Laden in America. Ma è anche e soprattutto la storia di un gruppo di eroi tragici accecati dall’ambizione, dal desiderio di potere, dal delirio di onnipotenza. Attraverso un linguaggio semplice e diretto, che evita le trappole del gergo economico-finanziario senza trascurare i principali risvolti tecnici della vicenda, gli autori cercano di entrare nei meccanismi più o meno occulti che hanno condotto alla tragica capitolazione di uno dei maggiori colossi finanziari americani.

AMERICAN LIES – RECENSIONI

 

LIBERAZIONE
– 13/04/2003

 

La guerra giusta” ovvero: se la morte puzza di petrolio

 

Gli affari di Bush: dai finanziamenti della famiglia Bin Laden ai retroscena di una pericolosa speculazione finanziaria made in Usa

La guerra in Iraq puzza sempre più di petrolio. L’Iraq è la seconda potenza petrolifera, l’unico Paese in grado di sostituire l’Arabia Saudita come esportatore di greggio. Le compagnie sono già pronte, ovviamente quelle americane, perché qualsiasi governo che si insedierà a Bagdad sarà filoamericano.
Sullo sfondo del conflitto c’è dunque l’oro nero e la spartizione del mercato più ricco sul pianeta. Piccole e grandi compagnie petrolifere, speculatori e affaristi di Borsa alimentano la corsa alle riserve di greggio più ghiotte nel mondo. In tale contesto, l’Iraq, dopo l’Arabia Saudita, è il Paese che fa più gola. Da mesi, intellettuali, esperti di studi strategici, vignettisti, analisti di politica internazionale e i “tanto odiati” pacifisti, sostengono: tra le tante ragioni che hanno spinto gli Stati Uniti a voler combattere a tutti i costi questa guerra in Iraq, il petrolio ha un ruolo decisivo.

Di recente, il settimanale tedesco “Der Spiegel” ha offerto ai lettori una copertina emblematica. Raffigura la bandiera degli Stati Uniti. Al posto delle stelle appaiono tanti distributori di benzina. Titolo: “La guerra del petrolio”. All’interno trova spazio un’approfondita inchiesta a più voci sul tema.

Una cosa è certa: mentre il presidente degli Stati Uniti diffonde il messaggio (“New York Times”): «La guerra contro l’Iraq non solo è inevitabile ma è anche giusta», gli ultimi sviluppi del caso Iraq dicono altro. Non solo perché le armi di distruzione di massa e le mappe del terrorismo internazionale, in nome del quale è stata scatenata questa guerra, non sono state trovate nell’Iraq “liberato dai marines” (si fa sempre in tempo a importarle dagli States e a dislocarle opportunamente) ma Hans Blix, capo degli osservatori internazionali in Iraq, dopo aver riferito al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dichiarava all’Associated Press: «Siamo stati in Iraq più di due mesi, abbiamo girato il Paese in ricerche sempre più approfondite, abbiamo visitato già 125 siti e non abbiamo trovato prove di “pistole fumanti”».

Emerge una verità prima sussurrata per mesi, adesso documentata da atti ufficiali, testimonianze, pubblicazioni: all’ombra della Casa Bianca, esiste una commistione micidiale tra politica e affari, dollari e industria, arroganza e spregiudicatezza. Gli affari sono affari, anche per il presidente degli Stati Uniti. Prima l’Afghanistan e Osama bin Laden. Poi il Venezuela e Hugo Chavez. Adesso l’Iraq di Saddam Hussein e la Corea del Nord di Kim-Jong Il. La lista dei nemici di Gorge W, è lunga ma il denominatore che li accomuna, è sempre quello: il petrolio. Lo stesso volano dell’economia mondiale e della famiglia Bush. Dall’11 settembre del 2001 e dai fatti delle Torri Gemelle, un’ampia fetta di analisti e intellettuali di estrazione diversa, si sforza di documentare come l’ascesa economica del clan familiare dei Bush, sia stata direttamente proporzionale alla scalata politica. Un’ascesa in parallelo. Sinergica: crescono gli affari, lievita il consenso, si espande “l’impero”.

In tale contesto, tra le tante storiacce denunciate sul ruolo degli Stati Uniti e del loro presidente nell’economia globale, una mi pare fra le più significative: la caduta della Enron, il colosso dell’energia dai piedi d’argilla. In teoria, doveva rappresentare il modello vincente dell’impresa; in pratica, si è trasformato nel più grande crack della storia americana. Bilanci truccati. Riciclaggio di milioni di dollari. Corruzione. Tangenti. Morti sospette. E due nomi che ricorrono spesso: Bush padre e Bush figlio.

La carriera di quest’ultimo comincia col petrolio. In parte è una scelta obbligata. Il ragazzo cresce in Texas. Il padre si è stabilito qui nel 1947 e da qui inizia la scalata che quarant’anni dopo lo porterà alla Casa Bianca. Bush junior è un tipo molto ambizioso. Dopo gli studi (Andover, Yale, Harward) nel 1975 ritorna in Texas con un solo obiettivo: farsi conoscere nel mondo dell’industria. Tra regali di amici e parenti per il debutto in società, George W. accumula un capitale iniziale da investire pari a 300.000 dollari. Sarà il trampolino di lancio per una carriera folgorante, negli affari intanto. La prima società creata dal rampollo è la “Arbusto”. E’ un’impresa specializzata in rilevamenti petroliferi. In pochi mesi, conquisterà il monopolio assoluto nel campo e il fatturato schizzerà alle stelle.

C’è un’altra rivelazione sulla famiglia Bush denunciata in un libro scritto da due studiosi italiani, Alessandro Spaventa e Felice Saulini (“American lies. Ascesa e caduta della Enron”, Fazi editore). E’ a pag. 14 che emerge quella verità tante, troppe volte negata dalla Casa Bianca: «Grazie all’interesse di James Bath, compagno ai tempi della scuola e del servizio militare e agente della Cia ai tempi di suo padre, tra gli investitori (della Arbusto, ndr) compaiono anche due uomini d’affari sauditi (…) Si tratta di Khaled bin Mafouz e Salem bin Laden, fratello del famigerato Osama. Entrambi sono azionisti della Bank Of Credit and Commerce International (BCCI) (…) Mafouz, oltre ad essere uno degli uomini più ricchi del mondo, è anche marito di una sorella di Salem e Osama bin Laden ed è a capo di Relief e Blesse Relief, due organizzazioni arabe accusate di essere una copertura per la rete terroristica di Osama».

E’ solo l’inizio. Con un complesso stratagemma finanziario sul modello delle scatole cinesi, la “Arbusto” si trasforma successivamente nella “Bush Exploration Company”, poi nella “Spectrum 7”. In pratica, dal fallimento della prima società nasce la seconda, quindi la terza ma con gli stessi consigli d’amministrazione e una girandola di aumenti di capitale. Nel febbraio del 1984, George W. diventa presidente della “Spectrum 7”. Il suo onorario ammonta a 75.000 dollari l’anno, più 1,1 milioni di azioni, pari al 15% del valore della società. Da questo momento in poi, le sue mire (e i suoi interessi) si trasferiscono alla politica.

In una vignetta pubblicata recentemente da “The Nation”, si vede Bush travestito da Dracula che annusa l’aria in un deserto pieno di marines. Nella nuvoletta che rappresenta i suoi pensierini, c’è scritto: «Saddam, voglio succhiarti tutto il petrolio». Non è escluso che ci riesca. Agli ordini di Bush, in Iraq, per esaudire i suoi desideri, sono impegnati 220.000 militari, pronti a sacrificarsi. In nome del Dio dell’oro nero.

 

Alessandro De Nicola, IL SOLE 24 ORE
– 17/01/2003

 

Conflitti d’interesse, le quattro regole

 

 

“Immaginate di trovarvi in una festa da ballo in un country club. Un gruppo di vecchi tromboni e le loro mogli ciondolano svogliatamente al ritmo un po’ stanco di Guy Lombardo e della sua All Tuxedo Orchestra. Improvvisamente un giovane Elvis cade dall’alto attraverso il lucernario, dondolando i fianchi in abito di lamè e chitarra scintillante. La metà femminile della compagnia danzante sviene, l’altra metà si ferma, irritata o disgustata. Qualcuno invece decide che ciò che sta ascoltando gli piace: batte il piede, si cerca un partner e improvvisamente comincia a ballare al ritmo di una musica diversa. Nel grigio mondo delle utilità e delle aziende energetiche, la Enron è come l’”imbucato” Elvis”. Questa citazione da Fortune di aprile 2000, riportata nel divertente e un po’ ideologizzato libro di Spaventa e Saulini American Lies. Ascesa e caduta della Enron, rende bene il clima degli anni 90.

 

INTERNAZIONALE
– 10/01/2003

 

Il caso Enron

 

La parabola della Enron, da modello rivoluzionario d’impresa al crac piu’ scandaloso della storia americana : i retroscena politici ma soprattutto la tragica storia di un gruppo di uomini accecati dall’ambizione. Un saggio prezioso e documentatissimo, che si legge come un thriller.

 

Mattia Diletti, LE MONDE DIPLOMATIQUE
– 01/01/2003

 

American Lies

 

Lo scandalo Enron è venuto a galla ormai un anno fa e, se non vivessimo in uno stato di guerra permanente, ne avremmo sentito parlare molto molto di più. Il libro di Spaventa e Saulini aiuta nel migliore dei modi a mettere a fuoco la parabola Enron, evidenziando i tanti risvolti di questa vicenda che ha mostrato la crisi del modello della Corporate governance americana. Un modello vincente negli anni 90, che ha sconfitto quello giapponese e il “capitalismo renano”. Ma la crisi Enron ha fatto crollare uno dei pilastri fondamentali dell’economia, quello della fiducia. Quando il circolo virtuoso dell’autoregolazione del mercato sembrava funzionare le corporation presentavano i loro bilanci, le società di revisione li controllavano, quelli di rating giudicavano il valore dell’azienda, gli investitori investivano di conseguenza. Con la Enron si è scoperto che il meccanismo era falsato (e il vero problema in realtà non é il fallimento della Enron, ma la complicità della sua società di revisione dei conti, la Andersen), e che i nuovi profeti degli anni ’90 (i manager) potevano essere avidi di ciarlatani. E chi investiva, oggi non si fida più, aggravando l’attuale crisi economica.
Spaventa e Saulini mostrano anche altre questioni che il caso Enron ha fatto emergere: il significato della trasformazione delle corporation da produttori a “mercanti” (privilegiando il trading alle forme tradizionali di creazione di valore), il rapporto tra politica ed economia, il disastro del sistema pensionistico americano, che finanza le pensioni dei lavoratori con le azioni delle società che pagavano salari e stipendi (e chi lavorava alla Enron oggi è in guai seri). In sostanza comprendere il caso Enron è indispensabile per capire cosa sia accaduto all’economia Usa (e mondiale) negli anni 90, e anche per fare qualche previsione sul futuro prossimo

 

IL TIRRENO
– 28/12/2002

 

Il futuro della pace

 

Il crack più scandaloso nella storia dell’economia americana, una vicenda da classico corporate thriller. Il fallimento della Enron coinvolge il presidente Bush e il suo passato di imprenditore incerto e di lobbyista incallito, il potentissimo vice-presidente Dick Cheney e i suoi legami con il mondo del petrolio, gli interessi finanziari del principe degli speculatori George Soros e gli strani investimenti della famiglia Bin laden in America. Ma é anche e soprattutto la storia di un gruppo di eroi tragici accecati dall’ambizione

 

Francesco Neri, IL MANIFESTO
– 09/01/2003

 

La caduta della Enron Tower

 

Da Kenneth Lay a George W. Bush, protagonisti e soci negli affari sporchi e nei bilanci truccati della società energetica americana. «America Lies. Ascesa e caduta della Enron», ricostruzione del più grande crack del capitalismo Usa di Alessandro Spaventa e Fabrizio Saulini per Fazi

Politica e affari, denaro e industria, cinismo e spregiudicatezza: sono soltanto alcuni elementi di una storia che vede protagonisti banchieri, ministri, capi di stato, persino un futuro presidente degli Stati Uniti. Doveva essere il modello rivoluzionario dell’impresa statunitense e si è rivelato il più grande crack dell’economia americana. Lo scandalo Enron ha coinvolto George W. Bush e il suo passato di imprenditore e lobbista, il potentissimo vice Dick Cheney, uno dei maggiori speculatori al mondo George Soros, la famiglia bin Laden con i suoi investimenti in America. American Lies Ascesa e caduta della Enron di Alessandro Spaventa e Fabrizio Saulini (Fazi editore, pp. 185, 16,50 euro) è la cronaca precisa e documentata del maggior crollo finanziario del ventesimo secolo. Nello scenario descritto nel libro dai due giovani studiosi c’è l’imprenditore venuto su dal nulla Kenneth Lay che, dopo essersi guadagnato la fiducia dell’elite politico economica del Nebraska, diventa socio in affari di George W. Bush. C’è lo spavaldo manager Jeff Skilling, tra i primi a capire le grandi potenzialità offerte dalla liberalizzazione dei mercati del gas e dell’energia. C’è il mago della finanza Andrew Fastow in grado di assicurare alla corporation il flusso di denaro necessario per realizzare i progetti più ambiziosi. C’è Rebecca Mark, concorrente agguerrita di Skilling nella corsa al vertice di Enron, che intuisce la necessità di aprirsi alle nuove economie emergenti e che guiderà la Enron Development Corporation. E poi c’è persino una morte sospetta.
Kenneth Lay, giovane rampante col pallino della finanza ed ex sottosegretario dell’amministrazione Bush, mette in piedi un’azienda nata dalla fusione tra la Huston Natural Gas – di cui lo stesso Lay è il capo -, e la InterNorth, che è una delle maggiori aziende petrolifere del Texas. Dopo essere passato a lavorare per un’altra multinazionale del petrolio – la Humble Oil -, Lay si arruola in marina e poi va a lavorare al Pentagono. E qui il futuro leader della Enron diventa una figura influente negli ambienti vicini a Washington.
Nel 1971, terminata l’esperienza al Pentagono e concluso il dottorato in economia alla University of Huston, Kenneth Lay progetta di tornare alla Humble Oil. Ma un suo vecchio professore, Pinkey Walker, ha in mente altri programmi per lui. Da poco nominato dall’allora presidente Richard Nixon a capo della Commissione federale per la regolamentazione dell’energia, Walker propone a Lay di diventare il suo assistente. Il lavoro di Walker alla Commissione dura due anni. Successivamente Lay inizia a lavorare con la Florida Gas di Jack Bowen, uno dei più stimati manager degli Stati Uniti. Bowen affida a Lay il posto di vicepresidente e responsabile per le nuove attività energetiche e, due anni dopo, lo nomina presidente.
A poco più di trent’anni Kenneth (Kenny «Boy») Lay ha già trovato tre sponsor decisivi per la sua folgorante carriera costruita in quella zona grigia che si situa tra affari, politica e interessi militari: Pinkey Walker, accademico di solida fede repubblicana, capo di un’agenzia strategica come quella sulla regolamentazione energetica; Gus Kinnear, ammiraglio pluridecorato con molte conoscenze negli ambienti del Dipartimento della Difesa; Jack Bowen, uno dei maggiori rappresentanti del business petrolifero in America. Il quarto sponsor, quello più potente e cioè George W. Bush, lo troverà qualche anno più tardi. Del resto anche la carriera di Bush junior è cominciata proprio con il petrolio. Il padre si era stabilito in Texas, terra di petrolieri, nel 1947. Nel 1986 Kenneth Lay e George W. Bush diventano soci in affari: la Enron Oil Gas di Lay e la Spectrum 7 di George W. cominciano insieme a cercare petrolio nell’area di Belspec Fusselman Field.
I dirigenti della Enron tentano di conquistare il mercato americano e mondiale dell’energia con tutti i mezzi a disposizione, leciti e illeciti: denaro, frode, società fantasma, bilanci truccati. Speculano su un grande blackout in California, ricevono ingenti finanziamenti per un mega-progetto in India mai realizzato. Il 24 luglio 2002 una Commissione d’inchiesta rivela che nel 2000 alcuni dei più importanti istituti finanziari americani – tra cui JP Morgan e Citigroup -, avrebbero organizzato un complesso sistema di transazioni di cui la Enron si sarebbe servita per occultare il 40 per cento dei propri debiti. Volevano essere i leoni della finanza americana e invece molti manager della Enron, protagonisti del crack che è stato definito «l’11 settembre del capitalismo americano», nel migliore dei casi, sono stati costretti a dimettersi dalla società: Jeff Skilling, Michael Kopper ex braccio destro di Andrew Fastow, Kenneth Lay, l’ex ragazzo prodigio orgoglioso di essere un self made-man. Clifford Baxter, invece, verrà trovato morto nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 2002 a Sugar Land, vicino Houston. Per la polizia si è trattato di suicidio.
Il 9 gennaio 2002 il Dipartimento della giustizia degli Stati Uniti annuncia l’apertura di un’inchiesta penale sulla Enron. L’attività praticata con grande disinvoltura all’interno del gruppo è quella di insider trading: cioè sfruttamento di notizie riservate, relative al prezzo di titoli in borsa, per interessi personali ed è reato.
Il 2 settembre 2002 la grande E d’acciaio della Enron Tower viene battuta all’asta per 44.000 dollari. Il 2 ottobre Andrew Fastow viene arrestato con l’accusa di malversazioni nei confronti della Enron e dei suoi azionisti. Rischia fino a quarant’anni di reclusione.
Nel libro American lies ci sono tutti gli ingredienti di un romanzo giallo: quella descritta però non è finzione ma realtà.

 

Sabina Morandi, LIBERAZIONE
– 17/12/2002

 

Enron lo scandalo del secolo

 

Due nuovi libri illustrano il fallimento dell’azienda dell’energia americana

Se per riuscire a star dietro ai giochi di prestigio contabili che hanno portato al fallimento del secolo occorre una buona dose di attenzione, per riuscire anche solo a concepire il tipo di relazione che la Enron ha intessuto con la classe politica statunitense, nei suoi 15 anni di attività, bisogna salpare per un altro pianeta. E’ un pianeta dove ogni scelta di politica economica viene confezionata sugli interessi di un ristretto numero di manager d’oro, la cui capacità di tessere relazioni personali va oltre ogni appartenenza di partito ed è costruita a suon di finanziamenti elettorali, di utili suggerimenti sull’andamento delle azioni – da far fruttare nei giochi speculativi – fino a veri e propri ricatti. Se sia poi questo il succo della sbornia iper-liberista della deregulation globale è un sospetto di cui è difficile liberarsi, anche se probabilmente è un po’ troppo dietrologico ridurre il Consenso di Washington alle gesta di una banda di compagni di università, spesso imparentati fra loro, che fanno fortuna smantellando il sistema di garanzie e controlli costruito dopo la Grande Depressione. Certo che dopo la lettura dei due libri appena usciti dedicati alla Enron, riesce difficile riconoscere un minimo di dignità agli emuli della Thatcher e di Reagan.

I tanti fallimenti
Portata in palmo di mano dagli analisti economici mondiali, l’azienda d’oro di Houston era considerata l’incarnazione perfetta di quella finanziarizzazione dell’attività industriale che ha segnato il boom statunitense degli anni Novanta. Eppure, a ben vedere, fin dall’inizio la gallina dalle uova d’oro si è trovata alle prese con scandali finanziari che hanno rischiato di travolgerla. Ad appena due anni dalla fusione che diede vita alla Enron si era già aperto un buco di un miliardo di dollari che rischiava di travolgere la casa madre. La catastrofe non accadde semplicemente perché, nel ’90, entrano in scena i due personaggi chiave della finanza creativa Jeff Skilling e Andrew Fastow, che fanno del falso in bilancio la principale arma del nuovo corso.

Perché Enron è uno stile, quasi una religione, più che un’azienda, e per immergersi immediatamente nel clima non c’è niente di meglio dei dialoghi – invenzione letteraria su materiale d’archivio – con cui Alessandro Spaventa e Fabrizio Saulini iniziano il loro “American lies – Ascesa e caduta della Enron” (Fazi Editore, pp. 185, – euro 16,50). Ciò che rende florida la corporation non è affatto il successo commerciale quanto due elementi fondamentali che poco o nulla hanno a che fare con l’attività industriale. In primo luogo la capacità dei due loschi figuri di inventare un sistema – attraverso la creazione una serie infinita di società vuote – per fare sparire i debiti e nascondere agli investitori le reali condizioni dell’azienda. In secondo luogo, con conseguenze ben più gravi per la credibilità del sistema, l’intensa attività di corruzione condotta dal grande boss della Enron, Kenneth Lay, per ottenere privatizzazioni su misura smantellando al contempo ogni possibilità di controllo. Poco importa se Enron risulta incapace di mantenere le promesse della deregulation: nessuna riduzione delle tariffe, spesso nemmeno i profitti promessi – ma che importa, basta nascondere il fallimento dentro un’altra società fantasma – né l’aumento dell’efficienza che pure sarebbe stato possibile con il miglioramento della tecnologia – basti ricordare i disastrosi black out in California, una volta che la corporation mise le mani sul mercato energetico deregolamentato dal governatore Wilson nel ’96. Nemmeno è importante che la Banca del gas – altra invenzione Enron – sia stata un fallimento così come gli innumerevoli progetti internazionali.

La corporation ha continuato a procedere spedita col vento in poppa. A soffiare nelle vele alcuni personaggi importanti come i rampolli Bush, imprenditori fallimentari ma con un nome da spendere nelle telefonate ricattatorie dirette ai governanti delle provincie dell’impero: fra tutte, memorabile, quella a Rodolfo Terragno, ministro dei Lavori pubblici argentino, nella quale il figlio del vice-presidente promette buoni rapporti con la superpotenza in cambio della costruzione del gasdotto targato Enron. Era l’89 e Terragno rifiuta quello che, qualche mese dopo, accetterà Carlos Menem, grande amico di famiglia – famiglia Bush, s’intende.

La sartoria delle leggi
Se le truffe contabili dilapidano miliardi – secondo alcuni 4, secondo altri 17 miliardi di dollari – il lobbismo politico dilapida il capitale ben più importante di un sistema legislativo costruito sui ripensamenti degli anni Trenta e sui movimenti sociali degli anni Sessanta. In “La parabola Enron e la crisi di fiducia del mercato mondiale” (Feltrinelli, pp. 218, – euro 9,00) Nicola Borzi illustra alla perfezione il ciclo perverso innescato da Enron, e lo fa con la competenza derivata dal suo lavoro per il Sole 24 ore-on line dove si occupa di finanza.

Quando, ad esempio, Enron decide di buttarsi sulla benzina verde, nel 1994, imbocca una strada appositamente spianata dalla legge sui combustibili ecologici voluta dall’amico Bush senior. Alla signora Gramm, presidente della Commissione federale di controllo sulle materie prime nominata da Bush – e in seguito assunta dall’azienda – Enron deve l’esenzione dai controlli antifrode che l’hanno resa leader nelle transizioni speculative sulle materie prime, il business più redditizio fino all’avvento del commercio on-line. L’era Clinton segna l’inizio della strategia internazionale dell’azienda, sulla scia dell’impegno marcatamente imperiale dell’amministrazione democratica. Il 29 agosto 1993, il primo ministro russo Viktor Cernomyrdin firmò un contratto fra la società di stato russa Gazprom e la Enron, con la benedizione del presidente e del Fondo Monetario, e diede inizio al nuovo corso. L’espansione avrebbe portato la corporation di Houston in Europa, in Inghilterra e in Argentina, in India e in Italia. Scrive Nicola Borzi: «L’espansione sarebbe stata tentata, con esiti assai alterni, ovunque la diplomazia statunitense sarebbe stata inviata a portare la “pax americana” tanto cara alla visione del suo giovane presidente. Finché ci fossero state guerre o crisi internazionali, nelle quali Washington avrebbe potuto assumere il ruolo di mediatore, non sarebbero mancate opportunità d’affari per la Enron».

Dopo la caduta
Conoscendo l’intera storia della corporation viene da chiedersi com’è che Enron non sia fallita prima. A un certo punto, da qualche parte nella rete delle complicità – certamente la più grave è quella della famosissima società di revisione Andersen depositaria della correttezza di gestione – si è incrinata, l’ennesimo buco è venuto alla luce e il castello di carte è crollato. Restano, però, calcinacci estremamente ingombranti e le rovine di tutto un sistema di norme, fra cui la rigida separazione fra gestione del credito e partecipazione azionaria delle banche nelle imprese finanziarie voluta da Roosevelt negli anni Trenta, sistema smantellato per arricchire un branco di giocatori d’azzardo. La riforma delle regole del gioco – fra cui quella che consentiva agli azionisti di portare in giudizio chi aveva commesso frodi gestionali – ha lasciato un cadavere ben più ingombrante della pur grande corporation: la fiducia degli investitori nella “corporate governance”, nel rispetto delle regole da parte delle grandi aziende e dell’alta finanza senza le quali gli azionisti giustamente fuggono.

Dalla caduta di Enron è stato tutto un susseguirsi di misure volte a restaurare la fiducia dei mercati, misure che perfino il Financial Times non esita a definire di facciata. In nome della “social responsability” è tutto un civettare con i “cani da guardia”, le ong specializzate nella trasparenza e nel controllo, e con le Nazioni Unite che, ubbidienti, lanciano iniziative di monitoraggio etico. Ma troppo dovrà sudare Bush se il fango ha sporcato perfino le “Big 5”, le cinque società di revisione dei conti più famose del mondo che avrebbero dovuto impedire che i soldi dei grandi azionisti pubblici e privati così come dei piccoli risparmiatori venissero dilapidati in automobili e festini, come è invece è accaduto dalle parti di Houston nei quindici anni più gaudenti della storia cittadina.

 

 

AVVENIRE
– 04/12/2002

 

Tutte le bugie dello scandalo made in Enron

 

Le spregiudicate manovre in Borsa, le speculazioni sul black-out in California, l’imprenditore venuto dal nulla, il mago della finanza abituato a disprezzare ogni regola, il manager che si gioca tutto alla roulette della New Economy. Sembrano personaggi e situazioni di un romanzo di Balzac o, se preferite, di un thriller alla Scott Turow. E invece è la cronaca, documentata in ogni passaggio, del crack della Enron, lo scandalo che ha trasformato il volto dell’economia americana e, di conseguenza, dell’intero mercato globale. A raccontarlo sono due studiosi italiani, Alessandro Spaventa e Fabrizio Saulini, che insieme firmano “American Lies: ascesa e caduta della Enron”. UN reportage che, con incalzante piglio narrativo, guida ilo lettroe alla scoperta dei fatti e misfatti all’origine della più colossale “crisi di fiducia” mai patita dalla finanza americana.

American Lies - RASSEGNA STAMPA

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