Benedetta Verrini - Riccardo Bagnato
Armi d’Italia
Protagonisti e ombre di un made in Italy di successo
«Armi d’Italia non è un pamphlet militante, ma un’inchiesta sul mercato e i suoi operatori».
Marco Lillo, «L’espresso»
Il made in Italy non è solo pizza, auto, scarpe, bei vestiti. È fatto anche da celebri pistole, adottate dai corpi di polizia di vari paesi del mondo; da milioni di mine, messe al bando ma ancora pronte a esplodere in ogni angolo del Sudest asiatico e dei Balcani; da aerei ed elicotteri di ultima generazione. Un settore industriale che non gode dell’appoggio di una sola fazione politica, ma di quasi tutto l’arco parlamentare. Forse proprio per questo nel 2003 è stata varata la riforma della legge 185 del 1990, una delle normative più avanzate al mondo in materia di trasparenza e controllo sul commercio di armi da guerra. La riforma è stata voluta dalla lobby dei fabbricanti per liberarsi da una gabbia che le impediva di chiudere affari con clienti impresentabili. Da allora, nonostante una grande campagna di sensibilizzazione sul tema, i controlli si sono allentati e buona parte delle produzioni e delle vendite sono state sfilate dalla rendicontazione pubblica. Di tutto ciò – e delle tante operazioni ai limiti del lecito compiute da produttori, commercianti e dalle cosiddette banche armate a sostegno di esportazioni dirette verso i luoghi più caldi del pianeta – parlano Bagnato e Verrini. Perché la politica estera dell’Italia e dell’Europa e i rapporti con gli States non si possono capire veramente senza conoscere il delicato intreccio che lega industria armiera, potere politico e lobby finanziarie.
«Un libro-denuncia che fa uno spaccato del commercio bellico italiano».
Vittorio Bonanni, «Liberazione»
– 01/10/2008
Nonostante la legge, cresce l’export delle armi italiane
– 01/03/2006
Una difesa che offende la costituzione
– 01/09/2005
Armi d’Italia
Non riteniamo confutabile a tutt’oggi la celebre massima eraclitea: “Conflitto, padre di tutte le cose”. Se non bastassero migliaia d’anni di storia (e preistoria) umana a dimostrarlo, si potrebbe rinviare le “anime belle” pacifiste a rileggersi almeno Freud, che ha mostrato scientificamente, oltre ogni ragionevole dubbio o illusione, la componente aggressiva e le pulsioni di morte congenitamente insite nella nostra specie. Anche J. Hillman in un recente saggio tradotto dalle edizioni Adelphi (Un terribile amore per la guerra) ha ben illustrato le radici della profonda fascinazione esercitata dal fenomeno “guerra” insieme alle ragioni della sua perennità nei vari tempi e latitudini. Poste queste premesse non possiamo certo affermare di condividere il taglio generale caratterizzante il volume fresco di stampa di R. Bagnato e B. Valentini, né la concezione complessiva che lo sottende.
Lottare contro i mulini a vento lasciando ad altri la quota relativa ad una delle poche voci attive dell’export italiano – quello delle armi – ci sembra atto masochista di cui, data la congiuntura attuale, pensiamo si possa fare francamente a meno. Ciò non vuol dire che il libro, documentatissimo su padroni e padrini del commercio in questione frutto della doviziosa produzione di settore made in Italy, non sia degno di attenta e partecipata lettura. Un lavoro accurato, qualunque ne sia lo spirito di fondo – merita sempre rispetto. Informarsi poi su dati, scenari, retroscena di una rete così articolata – al di là delle personali scelte di campo – ci sembra doveroso per ogni cittadino che abbia a cuore le sorti del proprio Paese.
– 18/07/2005
ARMI D’ITALIA
Per capire meglio i reali motivi che hanno portato alle recenti dimissioni del CSM gen. Fraticelli consiglio di leggersi anche questo libro uscito pochi mesi fa, in cui gli autori non solo rifanno la storia dell’industria bellica italiana e del commercio verso l’estero, ma analizzano in dettaglio anche la struttura e il modus operandi della lobby armiera. Sia chiaro che su alcuni principi non si discute: “Il potenziale difensivo e di sicurezza di una nazione si misura sulla base della capacità operativa delle sue Forze Armate, ma dipende, in misura notevole, anche dalla credibilità e dal grado di autonomia e autosufficienza della corrispondente industria”. Lo dice il ministro Antonio Martino nella premessa al Libro Bianco della Difesa del 2003, e lo cito perché il concetto di interdipendenza tra politica, esercito ed armamenti è organico allo Stato moderno, al di là del moralismo pacifista. Al massimo si devono stabilire limiti precisi (che tipo di armi vendere e a chi) o verificare che gli interessi dell’industria siano realmente gli stessi delle Forze Armate, del che si può dubitare. La polemica innescata dal gen. Fraticelli infatti riguardava anche i condizionamenti della lobby industriale sulle reali esigenze dell’Esercito e l’esistenza di cordate all’interno dello Stato Maggiore. Sono in realtà vecchie storie, ma stavolta il gioco si è fatto duro.
Ma torniamo al libro. Nella prima parte viene spiegata alla gente comune la distinzione tra le armi (leggere, pesanti, comuni, militari), classificazione non sempre chiara. Poi si passa alla storia del quadro normativo. E qui una sorpresa: l’Italia del dopoguerra per quasi cinquant’anni non si è mai data una legislazione sull’esportazione delle armi, per quanto restrittiva è quella sull’introduzione. Germania e Francia p.es. avevano regolato il settore già negli anni ’30. Armi e tecnologia militare sono infatti prodotti industriali, ma non omologabili alle normali categorie merceologiche. Invece per anni abbiamo esportato tutto a tutti, soprattutto nel Terzo Mondo, col risultato che le organizzazioni pacifiste e/o cristiane hanno combattuto per anni il commercio delle armi senza neanche conoscerne bene i dati. La deregolazione termina con la legge 185 del 1990, che introduce una serie di garanzie e limitazioni precise. Si stabiliscono situazioni in cui la vendita di armamenti è vietata (p.es. a paesi in guerra o sotto embargo o poveri e indebitati e/o che violano i diritti umani), si esigono garanzie sul cliente finale (per evitare le note triangolazioni), si stabilisce che commercio e transito di armi sono vietati se in contrasto con la Costituzione, con i fondamentali interessi di sicurezza dello Stato e di lotta al terrorismo. Si stabilisce presso il Ministero della Difesa un registro nazionale delle imprese autorizzate a produrre ed esportare armi e tecnologia militare, le quali sono soggette a precisi controlli e devono fornire documentazioni precise e sottostare alle commissioni. Per l’epoca era una legge molto avanzata, tanto avanzata che nel 2003 l’AIAD (Associazione Industrie per l’Aerospazio e la Difesa, 163 imprese con 50.000 addetti) è riuscita a modificarla in senso meno restrittivo attraverso lobby e gruppi parlamentari. E’ noto che l’industria militare contribuisce all’1% del PIL; meno noto è che il primo tentativo di ammorbidire la legge si deve nel 2000 all’allora presidente del consiglio Massimo D’Alema, anche se l’iter parlamentare è stato poi perfezionato dal governo di centrodestra. C’era infatti la preoccupazione per il calo del fatturato, dovuto in realtà anche all’assetto antiquato delle imprese italiane, ma c’era anche la necessità di adeguare la legge italiana a quella europea e creare una volta per tutte un consorzio europeo delle industrie militari (accordo di Farnborough, 2000). Ma proprio quest’ultima funzione ha finito per snaturare la legge italiana: se in Europa ora ci sono 25 nazioni, se il commercio interno è libero e la produzione è sovrannazionale, i controlli saranno per forza più deboli e la documentazione sempre più intricata, a meno di non riformare l’Europa prima ancora di averla creata.
La seconda parte del libro analizza le industrie italiane, in realtà un oligopolio, tutte aziende che chi legge Rid o Panorama Difesa o Jane’s conosce benissimo da anni. La documentazione è aggiornata e i dati sono attendibili. Buona anche l’analisi delle associazioni della società civile che cercano da anni di limitare il traffico d’armi almeno verso i clienti impresentabili. Ottimi infine l’appendice legislativa (col testo completo della legge 185 del 1990), l’apparato critico (cioè le note), la bibliografia e la sitografia, ovvero l’analisi delle fonti reperibili nell’internet.
– 25/05/2005
BAGNATO R. – VERRINI B., “Armi d’Italia. Protagonisti e ombre di un made in Italy di successo”
Crescita delle spese militari mondiali dell’11% nel 2003 – quasi il doppio che nel 2002, che registra un pur sempre decisivo tasso del 6,5% – con un balzo fino a 956 miliardi di dollari. Da 200000 a 300000 morti all’anno a causa di armi leggere (usate nelle uccisioni del 90% di civili caduti nel corso di conflitti[1]). In questo terrificante quadro l’Italia si colloca da protagonista, con una industria dal forte radicamento e da un vasto mercato: si tratta infatti del secondo esportatore mondiale di armi leggere[2]. Il libro di Bagnato e Verrini si impone come uno dei più validi strumenti scaturiti dall’editoria italiana per lo studio e l’analisi nel campo degli armamenti in Italia– su cui fortunatamente si sono visti ultimamente contributi di assoluto rilievo [3]- ; mercato che presenta pesantissime implicazioni etiche oltre che politiche e sociali, in quanto influenza e talvolta determina gli equilibri diplomatico-militari, incidendo sulla vita delle popolazioni che vivono sui teatri di guerra. L’incremento delle conoscenze del settore, al di là dell’interesse accademico e storico, è quindi una preziosa acquisizione della coscienza collettiva che si esprime nel dibattito pubblico.
Lo studio è diviso in due parti: nella prima si propone una panoramica della storia della produzione di armi in Italia; dopo un capitolo di carattere generale e uno dedicato alle mine, svelti paragrafi conducono il lettore dal ventennio fascista (che vede la nascita dell’IRI) e dagli anni ’70-’80 ai nuovi assetti segnati da una legge di controllo e monitoraggio estremamente avanzata (la L. 185/90) fino alla recente modifica del marzo 2003. Si chiude questa sezione con le tendenze attuali: aumento delle esportazioni. La seconda parte affronta i singoli soggetti: le aziende in primo luogo (che “si possono sostanzialmente suddividere in tre gruppi: Finmeccanica, Gruppo Beretta Holding, e altre imprese”, p. 21), ma anche le istituzioni (gli autori valutano che il governo controlli una larga fetta del settore, come committente e azionista di Finmeccanica), le banche, i sindacati e la società civile organizzata; fra questi compare quella che è senza dubbio la realtà più sconosciuta: l’AIAD (Associazione Industrie per l’Aereospazio i sistemi e la Difesa), potente Confindustria del settore Difesa che svolge il ruolo di lobby a favore delle industrie di armamenti italiane. Chiudono il volume due capitoli, uno inerenti al militare in Europa, e le conclusioni finali degli autori. Il tutto suffragato da puntuali riferimenti storici e da una valanga di note con fonti, testi di riferimento, articoli e siti internet[4]. Il modo in cui gli autori riescono a mantenere un tono scorrevole, nonostante tale prezioso apparato, è davvero sorprendente. Come prima considerazione generale, bisogna osservare che il testo, essendo incentrato sulla realtà produttiva italiana, lascia a margine gli armamenti di carattere nucleare, biologico e chimico [5] che non hanno riscontro sullo scenario nazionale.
In secondo luogo, l’approccio degli autori si tiene in equilibrio fra l’analisi storico-economica e il saggio “militante”. Tale carattere emerge dalla approfondita trattazione della legge 185/1990, e del ruolo della società civile nelle campagne d’opinione finalizzate alla presa di coscienza pubblica delle ricadute etiche del commercio d’armi, in specie agli stati impegnati in guerre o notoriamente dediti alla violazione di diritti umani [6]. Un intero capitolo è dedicato alla società civile organizzata [7], alle sue varie componenti (pacifismo classico, forum sociali, realtà cattoliche, terzo settore) e alle sue iniziative concrete [8]. Una simile impostazione scaturisce dal fatto che il testo, non esaurendosi nelle caratteristiche tecniche delle armi o nel calcolo del loro giro d’affari, si lega a ciò che precede e segue la mera transazione commerciale; quello che segue è l’uso concreto nei confitti, quale è noto ormai a tutti nel suo severo tributo di morte. La genesi delle armi è invece non solo l’insieme degli apparati produttivi – lavoratori, fabbriche, ecc. – ma anche il meccanismo economico, giuridico e politico che li sottende e li sostiene. Così, se le ricadute concrete si traducono nell’istanza etica antibellicista, la lucida analisi del sistema nei suoi passaggi strategici fornisce un quadro per fondare una realistica mobilitazione.
Ed è questo il punto verso cui alla fine il lettore si trova a fare i conti: uscendo dalla mera analisi, il volume illustra le varie iniziative che tendono a fare pressione per orientare l’economia e la politica verso la disarticolazione del sistema di guerra così incisivamente delineato nel corso dei capitoli. La forma di mobilitazione corrente è la campagna, una forma di attività di sensibilizzazione promossa da un nocciolo duro di associazioni, a cui si aggregano tutti i gruppi e i singoli che ne condividono gli obiettivi di fondo e le singole mosse, senza discriminanti di appartenenza politica, partitica o sociale – spesso si vede l’adesione di realtà istituzionali quali i comuni e le province.
A fronte di tali problemi, pare che non esista attualmente un’alternativa, un soggetto sociale in grado di operare una significativa pressione per il cambiamento; anche perché – come emerge con chiarezza dai dettagli dell’analisi – se la distinzione fra poteri pubblici e privati rimane a livello generale fondante e valida, in ambiti come la produzione d’armi si fa assai più evanescente, ricadendo la responsabilità tanto sulle strutture private – si pensi in particolare alle banche e al loro ruolo – quanto sulla mano pubblica, nel senso del suo disimpegno dall’attività di controllo e regolamentazione, se non della concreta attività promozionale o di effettivo sostegno; così che il compito di progettualità della politica – attraversata da élite pervasive tanto della sfera economica quanto di quella istituzionale – tende a ricadere sulla società civile organizzata.
– 08/05/2005
Alchimia mortale. Armi: un business che trasforma il piombo in oro
Italiani brava gente! L’Italia ha anche lei la sua missione nel mondo: assieme agli altri stati paladini della giustizia si è impegnata ad “esportare la democrazia”, e per questo spedisce i propri super-eroi in divisa in giro per il mondo in qualità di “costruttori di pace” che fanno un culo così alle persone brutte sporche e cattive. E mentre l’economia non va proprio benissimo, gli italiani con il loro celebre ingegno riescono a far andare a gonfie vele un certo giro d’affari. Infatti ci sono dei bravissimi alchimisti nostrani che si preoccupano di trasformare il piombo in oro! Un’attività che è in sintonia con la missione italiana nel mondo in quanto, si sa, per esportare democrazia e pace è necessario fare un po’ di casino e disporre degli strumenti adatti…
Nel 2004 il ministero degli esteri ha concesso la bellezza di 948 autorizzazioni all’esportazione di armi da guerra per un totale di 1.489.777.678,49 euro, con un incremento del 16,18% rispetto al 2003, mentre dal 2001 al dicembre 2004 l’aumento delle autorizzazioni all’export è stato del 72%. Riccardo Bagnato (che con Benedetta Verrini è autore del libro “Armi d’Italia” da poco pubblicato da Fazi) ricorda che le armi rappresentano il 10% dell’export italiano. Sì perché, in fondo, l’Italia è pur sempre il secondo esportatore di armi leggere al mondo, e ha accanto dei colleghi di tutto rispetto se si pensa che nel 2003 l’Unione Europea si piazzava al secondo posto nel mercato mondiale degli armamenti controllandone il 25,2%, per un valore di esportazioni di 4,7 miliardi di dollari – agli Stati Uniti andava invece il 23,5% per un valore di 4,4 miliardi di dollari, mentre alla Russia spettava una percentuale superiore al 37%. Poi, non bisogna dimenticare che nella classifica delle maggiori aziende produttrici di armi a livello globale la società pubblica italiana Finmeccanica si trova al nono posto e, del resto, Finmeccanica controlla alcune delle più grandi aziende italiane produttrici d’armamenti. Le grandi società protagoniste nel 2004 sono state: Agusta (514 milioni di euro), MBDA (200 milioni), Alenia Marconi Systems (173 milioni), Oto Melara (152 milioni), Avio (71 milioni) Fincantieri Cantieri Navali (71 milioni), Selenia Communications (61 milioni), Whitehead Alenia Sistemi Subacquei (36 milioni), Galileo Avionica (35 milioni) e Iveco (29 milioni). Giusto per essere all’altezza di questi brillanti risultati, l’Italia è anche uno dei 57 paesi che possiede nei suoi arsenali le tristemente note cluster bombs; ma, cosa più importante, come ricorda Human Rights Watch, in Italia le cluster si producono pure e a produrle sarebbero due società: Simmel e Snia Bdp.
Alcuni clienti delle società italiane che trafficano in armi: Regno Unito con il 15,52% delle autorizzazioni (che è destinatario di esportazioni da MBDA per 170 milioni di euro, probabilmente per sistemi terrestri e missilistici), Norvegia con il 13,36% (destinataria di esportazioni da parte di Agusta per un totale di 168 milioni di euro, probabilmente per elicotteri NH-90), Polonia con l’8,89%, poi seguono Portogallo, Stati Uniti, Grecia, Malaysia, Repubblica Ceca, Svezia e Turchia; ma anche Congo, Arabia Saudita, Afganistan (dal 2003), Pakistan, Israele e Cina – si ricorderà che durante la sua visita in Cina Ciampi si dichiarò a favore di una rapida abolizione dell’embargo sulla vendita di armi imposto dall’Unione Europea alla Cina stessa. Sembra infine che il governo italiano stia firmando accordi di cooperazione nel campo della difesa con Kuwait, Giordania, India, Indonesia, Libia, Israele e Cina. Insomma, ricchissimi affari nel campo degli armamenti, grazie soprattutto alla legge 148/03 che modifica la 185/90 in materia di “controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”. Si sa: quel che vale veramente è il “diritto consuetudinario” dei signori della politica e dell’economia, che si possono permettere di farsi leggi su misura o semplicemente di fregarsene della Legge, in un quadro in cui lo stato, dietro la facciata presentata al grande pubblico, risulta essere un’immensa organizzazione informale criminale e terrorista. Una cosa che dovrebbero tenere a mente tutti coloro che si inalberano e strepitano per il “rispetto della legalità”.
Per concludere, si deve notare che durante il 2004 il ministero dell’economia e delle finanze ha autorizzato 749 transazioni bancarie consistenti in prestiti ai costruttori di armi per un totale di 1.317,7 milioni di euro, mentre nel 2003 i prestiti ammontavano a 722,2 milioni. Se da un lato alcune banche dichiarano di volersi tirare fuori dal giro d’affari e di ridurre il proprio coinvolgimento, dall’altro si viene a conoscenza di una questione non proprio irrilevante, anche se il quotidiano il manifesto del 28 aprile 2005 la definisce, molto eufemisticamente, un “neo”: “la Banca popolare di Milano, uno dei sostenitori storici di Banca etica, si è aggiudicata 22 commesse, per oltre 53 milioni di importi autorizzati”. Ora (!) Banca etica (un ossimoro) sta esaminando la faccenda. Infine, resta da sottolineare che di prestiti ai produttori di armi la Banca di Roma e il San Paolo-Imi se ne sono aggiudicate il 60% (rispettivamente con 395 e 366 milioni di euro), percentuale che le piazza ai primi posti nella classifica delle banche armate, seguite da Banca Antoniana Popolare Veneta (9% con 121 milioni) e Banca Nazionale del Lavoro (oltre il 5% con 71 milioni). Un anarchico statunitense, fornendo definizioni a vari concetti, scrisse: “Banche del sangue: ne esistono di altro tipo?”.
I benpensanti che inorridiscono e sbraitano quando qualcuno sfascia le vetrate di una banca si porranno mai la domanda: ma non è che, forse, finanziare la produzione di armi da spedire in giro per il mondo crei maggiori problemi e drammi rispetto ad un vetro rotto? Forse domande di questo tipo sono troppo scomode, ed è più semplice preoccuparsi dei trapianti di capelli di Berlusconi e delle nozze fra Carlo e Camilla, credere che l’Italia esporti veramente democrazia pace e libertà, che i soldati e gli sbirri siano davvero costruttori di pace, che lo stato possa essere buono, che il capitalismo possa avere un volto umano…
– 21/04/2005
Brescia, Texas
Ha aperto i battenti da poco meno di un’ora la ventiquattresima edizione dell’EXA, la mostra internazionale di armi sportive e dell’outdoor che si tiene ogni anno a Brescia. Tra i banchi dei 256 espositori italiani e i 40 stranieri si parla delle nuove uscite nel settore e si discute di leggi e consuetudini culturali, sotto lo sguardo attento di poliziotti armati. Alcuni con giubbotto antiproiettile.
Piove a dirotto, ma il grande parcheggio antistante è già preso d’assalto da centinaia di cacciatori, tiratori, curiosi e, in particolare, famiglie con bambini. La fiera delle armi attira molta attenzione anche perché è una delle poche di livello internazionale a essere aperta al pubblico non specializzato – si parla di circa 30 mila presenze ogni anno – e ad accettare i minori accompagnati dai genitori.
Ed è numerosa la presenza di giovanissimi eccitati alla vista di fucili a pompa, pistole che ricordano l’ispettore Callaghan, revolver, coltelli, sciabole, proiettili, tute mimetiche, dispositivi per la visione notturna, articoli anti sommossa delle polizie di tutto il mondo.
Nonostante però spuntino frequentemente oggetti e immagini che rimandano a una retorica chiaramente bellica, questa mostra “è dedicata allo sport e ai suoi appassionati. E per sport si intende la caccia, il tiro dinamico, il tiro al piattello. In sostanza tutte quelle discipline dove si spara, senza ferire, volontariamente, nessun essere umano”, ci dice il suo presidente Carlo Massoletti.
Nel bresciano questi sono sport d’elezione soprattutto pensando che le 18 medaglie olimpiche in palio ad Atene sono state conquistate da 18 campioni che imbracciavano altrettanti fucili fabbricati proprio nella Valtrompia, la valle che fornisce il 90 per cento della produzione italiana di armi leggere. Per festeggiare l’uscita di Jurassic Park, Steven Spielberg si è fatto costruire proprio qui un fucile intarsiato da svariate centinaia di migliaia di euro.
Se la EXA mette in mostra solo armi sportive, come mai ogni anno in concomitanza con la sua apertura, il Brescia social forum appoggiato da 20 associazioni pacifiste, Rifondazione Comunista, il partito dei Verdi e la sinistra giovanile dei DS ha organizzato una contro manifestazione, la EXPa con l’obiettivo di “disarmarla”.
La diatriba si consuma attorno alla definizione di “armi sportive”. Nel regolamento della fiera, distribuito quattro mesi prima dell’apertura agli espositori, EXA afferma, all’articolo n.3, l’esclusivo contenuto sportivo della manifestazione.
A guardar bene tra gli stand però si trovano il fucile Benelli a pompa calibro 12 usato nella guerra in Afghanistan, la pistola Beretta calibro 9 M 92 venduta all’esercito americano e tuttora in dotazione all’esercito italiano, le carabine Sako TRG che, dice l’azienda produttrice, “soddisfano i severi requisiti delle Forze Armate finlandesi per tiri a lunga distanza e sono state anche prescelte da Unità speciali di altri Paesi”, oltre a varie attrezzature da difesa che sono utilizzate in scenari di guerra.
Nonostante l’uso che di queste armi si fa e si è fatto, nessuna, secondo la legge italiana n.110 del 18 aprile 1975, è classificabile come “bellica”, ma nessuna di queste elencate ha nemmeno un uso esclusivamente sportivo.
Quello che da quattro anni chiede EXPa alla fiera delle armi bresciana è il rispetto del suo regolamento e, trattandosi di una manifestazione sportiva, non esporre anche armi da difesa, di uso civile, di doppio uso, utilizzati in pratica per scopi sia civili che militari, e convertibili, come i fucili semiautomatici che, con una semplice modifica meccanica, diventano automatici, sparano a raffica e sono classificabili come bellici.
Una richiesta che fa riemergere il dibattito sulle armi leggere definite da Kofi Annan, a New York nel 2001 in occasione della Conferenza sulle armi di piccolo calibro, come “armi di distruzione di massa” per il loro largo impiego nei conflitti a bassa e media intensità, dove non si utilizzano armi pesanti, ma si contano comunque migliaia di vittime.
Fa notare Riccardo Bagnato, autore insieme a Benedetta Verrini, del libro Armi d’Italia, protagonisti e ombre di un made in Italy di successo, che il nostro paese è il secondo esportatore di armi leggere al mondo, grazie soprattutto alle quote di mercato conquistate dal distretto bresciano, presente e compatto tra gli stand della EXA, ma che la legge che ne regola il commercio, a differenza di quella che regola il commercio di armi da guerra, rende purtroppo difficile stilare la mappatura dei Paesi acquirenti.
In questo modo sappiamo, in base agli ultimi dati Istat pubblicati nello studio Le armi del bel paese dell’archivio disarmo, che tra il 1999 e il 2003 l’Italia ha esportato armi leggere per un miliardo e mezzo di euro, che lo ha fatto per il 39% verso Nord America e Stati Uniti, per il 38% verso i paesi dell’Unione Europea, per il 20% verso Paesi europei non membri dell’Unione e il rimanente verso Medioriente, Asia, America Latina, Oceania e Africa Settentrionale.
Rimane da scoprire però se tutte queste armi leggere e dual use, sono ancora nelle mani dei Paesi acquirenti. Di certo sappiamo che sono state fatte esportazioni di armi leggere per un ammontare totale di 8 milioni e 700 mila euro verso il Congo Brazaville e la Colombia, entrambi Paesi che hanno violato i diritti umani.
– 07/04/2005
L’affare delle armi
Pistole automatiche adottate dalle polizie di tutto il mondo, aerei ed elicotteri da guerra, artiglieria pesante e soprattutto le più devastanti e subdole mine antiuomo. L’Italia, con la Lombardia in testa, è uno dei maggiori produttori di armi del mondo, indifferentemente esportate a stati sovrani, stati “canaglia”, guerriglie, gruppi criminali ed eserciti privati. Come ci raccontano i giornalisti Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini in Armi d’Italia (Fazi), documentato saggio che indaga i rapporti fra industria delle armi, potere politico e potere finanziario. Se ne parlerà con gli autori questa sera al Pergola Move.
– 07/04/2005
Se vuoi la Pace prepara la Pace
Varese – “Si vis pacem, para bellum”. Detto in latino appare più altisonante, più pomposo, perfino più convincente. Se vuoi la pace, prepara la guerra. È questo l’ossimoro che regge da anni il mondo nella terribile convinzione che l’armonia fra i popoli possa essere coltivata solo se prima si è seminata la paura. Nella mite sera del 5 aprile, all’interno dell’aula magna dell’Insubria di Varese, si è cercato di scomporre quest’ossimoro nei minimi termini, di spogliarlo della propria fatua ragione, evidenziando così tutte le false verità di quella frenetica corsa al riarmo che ormai da troppi anni sta radicandosi nel nostro continente.
L’ouverture del convegno è stata affidata a Riccardo Bagnato, Direttore di vita.it: il primo portale online dedicato al mondo del no-profit. Il giovane giornalista ha esposto con chiarezza il quadro dei fatti emersi da una sua inchiesta circa il riarmo italiano durante gli ultimi 15 anni, pubblicata di recente in un libro scritto a quattro mani con Benedetta Verrini, dal titolo “Armi d’Italia”. L’inchiesta è incentrata in particolar modo sulla funzione della legge 185/90, la quale consente ogni anno un controllo parlamentare circa l’esportazione di armi fabbricate in territorio nazionale, e vieta alle varie industrie produttrici di materiale bellico pesante la vendita del suddetto alle nazioni che violano i diritti umani o sostengono una guerra. Una preziosissima conquista per il bagaglio civile della nostra nazione, ma che
oggi è in seria discussione, mortificata dalle limitazioni attuate nel gennaio del 2002 e dalla sempre più preoccupante tendenza ad aggirare l’ esportazione tramite vari trucchi politico-economici. Si è parlato dell’Aiad (Associazione Industrie per l’Aerospazio, i sistemi e la Difesa), il colosso italiano formato da oltre 80 aziende che insieme rappresentano l’1% del PIL nazionale e crica un decimo dell’intero commercio del nostro paese. Il tutto tenendo sempre ben presente quanto la Lombardia (e in buona parte anche la provincia di Varese con le proprie aziende aeronautiche) rappresenti il fulcro della produzione bellica italiana. La parola è dunque passata a Elio Pagani, principale promotore della campagna per la tutela della legge regionale 6794 sul disarmo e della campagna “Una firma per il disarmo della Lombardia” atta a sostenere e promuovere la pace preventiva. È toccato quindi a Mario Agostinelli, del Forum Mondiale per le Alternative, tracciare un triste bilancio dei fatti che stanno sconvolgendo il pianeta soprattutto per quel che riguarda le iniziative belliche statunitensi. L’intervento del ricercatore dell’Enea, arricchito da cifre spaventose, ha reso idea dei costi pazzeschi sostenuti dal governo Bush per l’invasione dell’Iraq, esponendo anche un calcolo teorico che lascia da pensare: coi soldi spesi per l’assalto, si sarebbe potuta costruire una rete energetica alternativa e non inquinante di importanza inestimabile per l’umanità. L’ultimo atto del convegno è stato affidato alle parole del monsignor Luigi Bettazzi, che con grande verve e sagace ironia ha snocciolato anche il lato etico del problema, facendo correre il pensiero soprattutto alla figura del Santo Padre. Il già vescovo di Ivrea e presidente di Pax Christi non ha nascosto le pesanti responsabilità morali che il mondo occidentale – e per certi versi la stessa Chiesa – hanno nei riguardi dei conflitti, e ha evidenziato come la buona volontà individuale e la nonviolenza costruttiva stiano alla base del sogno di un mondo migliore. “Se vuoi la pace, prepara la pace”.
– 09/04/2005
Quando le armi italiane sparavano in tutto il mondo
VOCI imprescindibili e accorate hanno ammonito, sino all’ultimo del loro vivere, contro il ricorso alle guerre e l’impiego delle armi. Tuttavia, nonostante appelli tanto autorevoli e diffuse campagne di opinione (si pensi a quella che ha imposto la messa al bando delle mine anti-uomo e la cessazione dello scandaloso primato della produzione italiana nel settore), le implicazioni del produrre e vendere armi sfuggono ancora a buona parte dell’opinione pubblica. Pochi ad esempio rammentano come siano stati ben 4 milioni i morti in guerra nel corso dei conflitti «delimitati» che si sono registrati negli ultimi dodici anni: di questi 4 milioni il 90 per cento sono vittime civili e, di queste, quasi la metà sono bambini. Agli oltre trecentomila morti annui in conflitti armati si devono però aggiungere altri 200 mila decessi annui causati da armi da fuoco utilizzate in contesti «pacifici». Come rammenta un funzionario dell’Onu, Sandro Calvani, nella prefazione all’importante inchiesta di Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini Armi d’Italia. Protagonisti e ombre di un made in Italy di successo, pubblicata dall’editore Fazi, la «cultura delle armi» ha un prezzo altissimo. In guerra, ovviamente, ma anche in pace. Negli Usa, dove la liberalizzazione degli acquisti di armi è totale, «recenti studi hanno dimostrato che la probabilità di morire per un colpo di arma da fuoco è da sette a dieci volte più alta nelle case dove c’è un’arma». Anche da noi, recentemente, si è invocato il ricorso privato alle armi per l’insicurezza indotta dal diffondersi della criminalità diffusa. Studi statistici dimostrano però come gli indifesi – donne e bambini – non si avvantaggerebbero affatto da una scelta di questo tipo, visto che «la violenza subita e il tasso di mortalità di donne e bambini a causa di armi da fuoco sono sette volte più alti nelle case dove ci sono armi…». Il libro di Bagnato e Verrini sa affrontare il tema delle armi da un’angolazione vastissima. In particolare analizza la questione dell’industria della difesa italiana, e della regolamentazione del suo export, in modo rigoroso e innovativo, senza compiacenze verso interessi sicuramente poderosi ma, altresì, senza attestarsi su utopie da anime candide che rifiutano di fare i conti con la dura realtà del mondo. Dettagliata è la mappatura, fatta dai due autori, dei diversi segmenti che compongono il settore industriale della difesa: realtà che coinvolge un consistente numero di addetti, aziende e fatturati significativi per l’economia del Paese, nonché commesse rilevanti per la ricerca, l’innovazione, la competizione internazionale. Ovviamente una presenza industriale di questo tipo non può che intrecciare la propria parabola con crisi geostrategiche, con vicende politiche interne, con mutamenti degli scenari internazionali sopravvenuti negli ultimi decenni: e, di tutto questo, in Armi d’Italia viene fornita una sintetica ma preziosa ricostruzione. Punto centrale di questa periodizzazione, vero giro di boa nella nostra strategia nazionale rispetto alle armi «made in Italy», è stata l’approvazione, nel 1990, della legge 185. Quella legge ha imposto – sottolineano gli autori – «nuove regole del gioco», principi innovativi e modalità trasparenti (per quel che umanamente si può pretendere, visto che si sta parlando di strumenti bellici). Nella concessione delle licenze di export si è imposto, alle industrie del settore, di attenersi a vincoli derivanti da parametri «umanitari» nonché a principi di responsabilità internazionale (quali ad esempio il divieto di vendere a Paesi poverissimi che si indebitano per super/armarsi). Un’ottima legge, dunque, che ha badato anche alla trasparenza, consentendo l’effettivo controllo parlamentare attraverso un’annuale relazione annuale redatta dall’Esecutivo in concorso con ben sette ministeri e, si presume, con l’apporto di servizi di sicurezza che, diversamente dai decenni precedenti, si sono dimostrati disponibili ed efficienti nel monitoraggio di questo delicatissimo sistema. Sul cammino della legge, tuttavia, si sono andate a intersecare rotte di collisione che, ultimamente, hanno premuto non poco affinché venisse mutata e, secondo gli autori, peggiorata. La prima intersecazione è stata data dal processo di unificazione europea anche nel settore della difesa e, dunque, dall’esigenza di riscrivere e uniformare regole comuni circa l’export bellico. In questi tentativi di rimodellare la 185 si è inserita l’asserzione, più volte risuonata, che vorrebbe attribuire alla normativa adottata le pesanti difficoltà fronteggiate dall’industria della difesa italiana nell’ultimo quarto di secolo. Quando dai 5.000 milioni di dollari di fatturato degli anni 1979/83 si è contratta ai 1.600 milioni del 1980 e alla media annua di 900 milioni degli Anni Novanta. In realtà la riduzione è avvenuta in buona parte ben prima dell’approvazione della 185, non appena è sfumato il boom dei primi Anni Ottanta, quando le forniture «made in Italy» venivano spregiudicatamente collocate presso ogni possibile belligerante. Ad esempio – contemporaneamente – a Iran e Iraq in guerra. O all’Argentina impegnata nella guerra delle Falklands. Con la nuova legge, invece, si sono scansati scacchieri a rischio e i clienti delle armi italiane sono stati prevalentemente i Paesi più stabili (l’81 per cento degli acquirenti, nel 1993, è rappresentato da nazioni della Nato). Ora l’adeguamento delle norme in ambito europeo sta certamente ponendo ineludibili problemi. Su questi temi controversi, spiegano gli autori del volume, hanno voluto e vogliono dire la loro movimenti organizzati del pacifismo, del mondo cattolico e missionario, esponenti sindacali e studiosi. Il tutto costituisce un esempio rilevante e positivo dell’evoluzione, in corso solo da poco nella politica italiana, descritta da Giulio Marcon nell’importante e stimolante saggio Come fare politica senza entrare in un partito pubblicato da Feltrinelli. Lì si intravede come, al di là delle sterili contrapposizioni tra democrazia partecipata e politica rappresentativa, si possano creare nuovi equilibri. E dunque originali modalità di coinvolgimento, di controllo, di assunzione di responsabilità dei cittadini e della società, davanti alle sfide complesse poste da un mondo che cambia.
– 20/03/2005
Armi d’Italia
Il made in Italy non è solo pizza, scarpe e bei vestiti. E’ anche celebri pistole adottate dai corpi di polizia di diversi paesi, milioni di mine messe al bando ma ancora pronte a esplodere in ogni angolo del Sudest asiatico e dei Balcani, aerei ed elicotteri di ultima generazione. Non dimentichiamo che l’Italia, dal 1945 a oggi, si è piazzata ogni anno tra i primi dieci produttori si armi planetari, che sono italiani i presidenti delle più importanti realtà armiere d’Europa e che, in epoca di grandi privatizzazioni, la massima produzione di armamenti rimane, per tramite di Finmeccanca, sotto il controllo dello Stato. Tutto questo e molto altro ancora (per esempio il legame tra potere politico, finanziario e industria armiera) è ben spiegato in “Armi d’Italia. Protagonisti e ombre di un made in Italy di successo” dei giornalisti Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini (Fazi, 17,50 euro), testimonianza puntigliosa di una realtà che pochi conoscono.
– 11/03/2005
Armi D’Italia
Dal 1945 a oggi l’Italia si è piazzata ogni anno tra i primi dieci produttori di armamenti nel mondo. Sono italiani i presidenti delle più importanti realtà armiere europee. Il sostegno incondizionato all’industria non proviene da una sola fazione politica, ma coinvolge quasi tutto l’arco parlamentare. Infine, in epoca di privatizzazioni, la massima parte della produzione di armamenti rimane, per il tramite di Finmeccanica, saldamente sotto il controllo dello stato. Bagnato e Verrini raccontano questo made in Italy particolare, e sono convinti che non possa comprendere la politica estera d’Italia e d’Europa, i rapporti con gli Stati Uniti, il recente coinvolgimento in missioni di guerra “umanitarie” o “preventive” senza conoscere l’intreccio tra industria armiera, politica e finanza.
– 23/03/2005
Business d’Italia: è boom dell’industria bellica
È vero che i paesi che siedono al Consiglio di sicurezza dell’Onu sono quelli che più di tutti producono e vendono armi. Ma anche l’Italia, in questo campo, è tra i big: è ormai il settimo produttore mondiale. Dalle mine agli elicotteri, dai radar ai fucili…le armi rappresentano oggi il 10% del nostro export e generano 10 miliardi annui di fatturato. E in un periodo in cui infuriano, sparse nel mondo, circa 50 guerre, le armi italiane vengono vendute tanto a paesi allo sbando quanto a superpotenze, a eserciti che seminano mine a caso o che impiegano bambini-soldati, senza nessuna discriminazione… La legge, d’altra parte, lo consente, e anche laddove ci sono divieti, vengono facilmente aggirati. Le industrie produttrici, le banche che le finanziano, i parlamentari e le lobby che sostengono produzione e smercio: tutto chiaramente descritto nell’intervista a Riccardo Bagnato, autore – insieme e Benedetta Verrini – di un bellissimo libro-inchiesta intitolato ‘Armi d’Italia’, appena uscito in libreria.
– 03/03/2005
Bombe made in Italy
Pistole. Fucili. Elicotteri. Il settore delle armi vive una stagione di successi. Anche grazie alla politica del governo. In un libro luci e ombre di un mercato in espansione. Colloquio con Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini
Un piatto di spaghetti con una pistola immersa nel pomodoro. La copertina del libro “Armi d’Italia” sfrutta l’immagine celebre del settimanale tedesco “Der Spiegel” per ritrarre stavolta non l’italia degli anni di piombo, ma l’Italia che fabbrica piombo. “Il made in Italy non è solo cibo e moda”, spiegano i due autori Benedetta Verrini e Riccardo Bagnato, “ma anche fucili e bombe”. I due giornalisti lavorano nella redazione del settimanale “Vita”, protagonista delle campagne per il disarmo. Ma questo libro in uscita per Fazi (300 pag., 14,50 euro) non è un pamphlet militante, ma un’inchiesta sul mercato e i suoi operatori. Come se trattassero di lavatrici, Verrini e Bagnato descrivono i produttori italiani, i loro clienti, i mediatori e le banche che appoggiano i pagamenti (in testa il gruppo Capitalia). L’obiettivo, spiegano gli autori, “è la trasparenza. Solo zosì ci sarà una presa di coscienza collettiva sui fenomeno delle armi.”
L’ltalia è un grande produttore di armi. Eppure pochi sembrano accorgersene. Perché?
“L’italia è il secondo esportatore al mondo di armi leggere, che si vedono meno ma causano 500 mila morti ogni anno. Secondo l’ultimo rapporto, l’Italia esportava armi leggere come pistole, carabine, fucili e mitragliatori per 300 milioni di dollari, contro i 740 milioni degli Stati Uniti. Alla scarsa visibilità interna corrisponde però una grande avanzata dell’Italia all’estero. Per fare alcuni esempi, secondo l’ultima relazione del governo in materia di armi, l’Italia ha aumentato le esportazioni del 40 per cento. E italiano Pierfrancesco Guargaglini, presidente dell’Associazione europea dei produttori, un compatto che dà lavoro a 600 mila persone. Ed è italiano anche il generale Nazzareno Cardinali che dirige l’Occar, il consorzio transnazionale di sei paesi europei produttori di armi”.
Forse si parla poco della nostra industria bellica perché le armi leggere comprendono quelle vendute alle Polizie.
“Noi non esportiamo solo le pistole Beretta per i poliziotti americani. Nell’ultima relazione si legge che i nostri primi tre acquirenti sono la Cina e la Malesia, che non sono modelli nel rispetto dei dìritti umani, e la Grecia. Inoltre, a leggere il rapporto “Small Arms Survey 2004″ si scopre che tra i nostri maggiori acquirenti c’è anche il Congo, dilaniato da una guerra feroce, e altri sei paesi che non rispettano i diritti umani”.
Nei libro raccontate il successo della campagna contro le mine. Oggi l’Italia non produce e non usa più le mine. Però ora puntate il dito contro le bombe cosiddette cluster. Perché?
“Le cluster bombs sono ordigni lanciati dagli aerei o da terra che si frammentano in centinaia di piccole munizioni destinate a esplodere durante la caduta. In realtà, quasi mai esplodono tutte e quando arrivano a terra si trasformano in piccole mine. In Iraq le forze alleate hanno fatto largo uso delle cluster: tra marzo e aprile del 2003. ne hanno lanciate 13 mila, contenenti circa 2 milioni di suhmunizioni. Giuliano Sgrena, con le sue fotografie, aveva denunciato i danni di queste bombe sui civili e sui bambini. Probabilmente non erano bombe italiane, ma l’Italia resta uno dei 57 paesi che
ancora ha nei suoi arsenali le cluster. Inoltre, secondo un rapporto di Human Rights Watch, ci sono ancora due società italiane che le producono: la Simmel e la Snia Bdp”.
Quali sono le maggiori aziende di armi italiane?
“La società pubblica Finmeccanica controlla da sola sette aziende tra le prime dieci del settore. Tra queste spicca la Galileo, che ha venduto sistemi di puntamento per un valore di 200 milioni di euro destinati ai carrri armati siriani ma – secondo gli Stati Uniti – Damasco li avrebbe poi girati a Saddarn. Ora Galileo sta costruendo l’apparato ottico del supercaccia americano. Ci sono poi Alenia (aerei); Oto Melara (artiglieria), Wass (siluri); Marconi Selenia (comunicazioni) e Agusta (elicotteri).Ci sono anche realtà esterne a Finmeccanica, come la Microtecnica controllata dalla multinazionale americana Utc, e la Oerlikon-Contrayes, controllata dai tedeschi della Rheinmetall DeTec. Mentre la Fiat ha accelerato la sua uscita dal mercato con la vendita di Fiat Avio al fondo Carlyle e a Finmeccanica nel 2003. Questa operazione indica un’altra tendenza in atto: l’avvicinamento agli americani”
Quanto influisce la politica del governo Berlusconi sulle esportazioni e sulle alleanze delle nostre aziende belliche?
“Moltissimo. Basti pensare che una società italiana, la Agusta, produrrà l’elicottero del presidente degli Stati Uniti. La vittoria di questa gara è solo il primo passo per entrare nel mercato Usa. La politica estero dell’Italia è determinante per acquisire commesse. Non è un caso se la Cina è tra i nostri primi acquirenti. Il presidente Ciampi nel dicembre 2004 è andato a Pechino anche per dire al presidente Hu Jintao che “l’Italia guarda con favore all’abolizione dell’embargo delle armi verso la Cina”
– 03/03/2005
Italia, spaghetti, vino ma soprattutto…tante armi
“Il libro di Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini mette il dito su una piaga ponendo l’attenzione sulla produzione e il commercio delle armi italiane. Ed è una piaga ancora aperta perché le leggi vigenti non garantiscono la trasparenza e un controllo democratico sulle armi leggere”. Chi parla è Padre Tonio Dell’Oglio, presidente nazionale di Pax Christi, ed il libro al quale fa riferimento è Armi d’Italia. Protagonisti e ombre di un made in Italy di successo (Fazi editore, pp. 157, euro 17,50), realizzato da due redattori del settimanale <i<Vita. “Inoltre questi due giornalisti – continua il sacerdote- hanno accompagnato molto il cammino il cammino che abbiamo fatto in difesa della legge 185 del 1990, unico brandello esistente nella legislazione italiana che consente un minimo di controllo all’esportazione delle armi.”
E sono proprio questi i temi portanti del grande lavoro realizzato dai due professionisti: appunto il commercio delle armi leggere, che vede l’Italia secondo produttore mondiale dopo gli Stati Uniti, e i paletti, per la verità sempre più divelti, che la legge citata mise quindici anni fa al commercio delle armi belliche. Paletti che impedivano, e dovrebbero impedire tuttora, la vendita di materiale da guerra a paesi coinvolti in conflitti armati o che si siano macchiati di violazioni dei diritti umani. Come Dall’Oglio, anche Daniele Scaglione, già presidente della sezione italiana di Amnesty International e ora responsabile dell’Africa, figura tra i tanti che Bagnato e Verrini hanno ringraziato per l’importanza del loro contributo. “In realtà sono stati troppo generosi – dice scherzando l’esponente dell’organizzazione umanitaria – con loro mi sono limitato a fare solo celle chiacchierate.”
Poi affronta l’argomento trattato dal testo: “Il lavoro svolto dai due giornalisti è estremamente importante ed interessante, oltre che documentatissimo e pieno di fonti. Ed affronta uno dei problemi più concreti, quello della vendita delle armi, su cui si possono misurare soprattutto i paesi più sviluppati, le cosiddette democrazie occidentali, di cui il nostro fa sicuramente parte. E se noi andiamo a misurare i paesi su questo parametro il quadro è sconfortante, sembra di avere a che fare con delle enormi ipocrisie. Chi da un lato decide di voler combattere il terrorismo e di voler diffondere la democrazia, dall’altro lato promuove ad ampio raggio la vendita delle armi.”
In particolare, come dicevamo, degli armamenti leggeri che costituisce, per certi versi, il problema più serio, proprio per la mancanza di normative, sia a livello nazionale che internazionale.
Per Sandro Calvanti, dirigente delle Nazioni Unite a Bogotà, in Colombia, e autore della prefazione del libro, “Armi d’Italia permette alla società civile italiana di orientarsi nella foresta insidiosa delle regole e della produzione delle armi italiane. Aiuta a capire le istruzioni che per troppo tempo sono state cifrate e riservate agli addetti ai lavori armieri. Accompagna il lettore a conoscere i gruppi e le campagne sul business italiano della morte”. E li aiuta, una volta istruiti dopo la lettura di questo “manuale”, a dire no a “leggi ingannevoli e malleabili “, finalizzate a “far passare inosservati armi e piombo destinati a milioni di innocenti.”
“Quando parliamo di commercio di armi leggere – puntualizza Riccardo Bagnato – puntiamo il dito su due questioni fondamentali: la prima è che le armi leggere non hanno effettivamente nessun tipo di strumento di monitoraggio del proprio commercio nel mondo. L’Onu, alcuni paesi europei ed extraeuropei, oltre alla campagna contro le armi, sia a livello nazionale che internazionale, stanno cercando di proporre un trattato per il tranciamento del commercio delle armi leggere. Ma a conti fatti oggi, a parte una serie di dati che vanno presi con cautela e messi a confronto con altri dati, non abbiamo uno strumento legislativo che ci garantisca con una certa precisione dove vanno le armi leggere. L’altro punto – continua il giornalista riguarda invece il fatto che le armi leggere sono ormai da parte di tutti considerate “armi di distruzione di massa” perché vengono nella maggior parte dei casi utilizzate da eserciti formali e informali in quelle che vengono chiamate “guerre a bassa intensità”. Uno dei luoghi in cui si consuma questo tipo di guerre è l’Africa, dove la gran parte delle armi leggere viene in qualche modo venduta legalmente e illegalmente e alimenta appunto questo conflitto”.
Discorso diverso è quello riguardante le armi da guerra e la nostra legge 185, un fiore all’occhiello della legislazione italiana, approvata appunto nel ‘90 grazie anche alle pressioni dell’opinione pubblica nazionale e che ora rischia di essere ridimensionata o addirittura cancellata, dopo essere stata disattesa anche durante il governo di centro-sinistra. “Va considerato che la ratio di questa legge – dice Benedetta Verrini – era comunque eccezionale, sembrava quasi scritta da un gruppo di pacifisti piuttosto che da legislatori governativi. Dopo gli anni ’70 e ’80 di grande abbuffata di commercio di armi indirizzato verso rotte non del tutto lecite come fu il caso del conflitto Iran – Iraq, la 185 diceva che non possiamo vendere armi a paesi che spendono per il bilancio interno più in materiale bellico che per lo sviluppo, che violano i diritti umani, che sono in guerra o che, potenzialmente, possono destabilizzare l’equilibrio geopolitica mondiale. Dunque principi importanti che riguardavano le armi da guerra. E se è vero che arrivavano armi anche alla Turchia, è anche vero che verso certe rotte il Ministero degli Esteri non dava più l’autorizzazione.”
Come dicevamo, ora questa importante normativa rischia di essere vanificata da decisioni del governo. L’allarme questa volta viene dall’opposizione. “La 185 prevede due diversi regimi di controllo ed autorizzazione sulle operazioni di commercio di armamenti – dice Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione comunista e membro della commissione Esteri della Camera – uno per i paesi Nato e Unione Europea ed uno per il resto del mondo, ben più restrittivo in quanto ogni singola operazione deve essere verificata ed autorizzata. Con l’accordo di collaborazione militare stipulato dal governo con il Kuwait, si paragona questo paese ai paesi della Nato e del UE ai fini dei controlli e delle autorizzazioni previsti dalla 185. Nel frattempo, mentre proseguiva l’iter dell’esame di questo trattato sono progressivamente arrivati in Commissione Esteri altri sette trattati con altrettanti paesi, tra i quali l’India, Israele, Gibuti, l’Algeria, la Serbia e Montenegro e la Giordania. Di fatto – prosegue Mantovani – si è cominciato ad assimilare, senza dichiararlo, tutti i paesi a regime previsto per gli alleati e per i membri dell’ Unione.” All’impegno per arrivare ad una normativa sulle armi leggere si aggiunge dunque quello per salvare una legge così importante. Armi d’Italia sarà, scusate il gioco di parole, un’utile arma per combattere battaglie così importanti e così disattese.
– 02/03/2005
ARMI D’ITALIA
“Fare ricerca sulle armi e le loro relazioni con la violenza e i conflitti, analizzare le tendenze e le contraddizioni delle produzioni, studiare i mercati e i mercanti di armi è un campo affascinante della sociologia e uno spazio molto interessante e complesso del giornalismo investigativo. E’ anche un mestiere pericoloso: basti pensare alle decine di giornalisti che hanno perso la vita negli anni recenti cercando di fare chiarezza su certi traffici segreti di armi, da e verso paesi che non gradivano pubblicità. Tra i casi recenti più noti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin della Rai e Daniel Pearl del “Financial Time” hanno messo il dito nella piaga delle menzogne e degli interessi di certi mercanti di armi prepotenti. Hanno dato loro fastidio, non tanto perché volevano sapere quel che già sanno tanti altri addetti ai lavori, ma perché usavano la penna, cioè volevano comunicare all’opinione pubblica le loro conoscenze. Li hanno tolti di mezzo senza preavvisi né discussioni.”
Così Sandro Calvani, dirigente delle Nazioni Unite, scrive nella prefazione di “Armi D’Italia. Protagonisti e ombre di un made in Italy di successo”, un’indagine sul mercato di armi tutto italiano ad opera di Riccardo Bagnato, direttore del portale Vita.it e Benedetta Verrini, giornalista del settimanale “Vita”, pubblicato dalla Fazi Editore.
Una ricerca accurata, a grand’angolo, che vuole dare un quadro di tutti quegli attori che si muovono nel fiorente mercato di esportazioni di armi che l’Italia rinfoltisce in molte parti del mondo. Non solo le aziende, ma anche le istituzioni, le banche, il ruolo dello stato, sotto il controllo del quale rimane la massima parte della produzione di armamenti, per il tramite di Finmeccanica.
Il 3 giugno 2003 il Parlamento italiano ha dato il definitivo via libera alla riforma della legge 185 del 1990, una delle normative più avanzate al mondo in materia di trasparenza e controllo sul commercio di armi da guerra. Questo libro nasce proprio a partire dalla campagna “Contro i Mercanti di Armi: Difendiamo la 185” che una grossa fetta della società civile ha intrapreso a favore del mantenimento della legge – severa, che implica controlli e scomoda alle grandi lobby.
“Il nostro editore – racconta Riccardo Bagnato – visto il lavoro fatto con “Vita” per sostenere la legge, ci ha chiesto di elaborare un’indagine approfondita su questo mondo poco piacevole, di cui non si vuole parlare. Ci sono molte tratte di esportazione che non si vogliono far conoscere, giochi di forza tenuti nascosti. Il ruolo delle banche per esempio, oppure quello dei sindacati, nei cortei per chiedere la pace e dentro alle fabbriche per sostenere un posto di lavoro dove si producono strumenti di morte. E’ un difficile problema etico, che si pone anche al nostro governo. Adesso apriamo alla Cina? Le esportazioni di armi alla Cina dell’anno scorso ammontavano già a 128 milioni di euro.” I dati ci sono, esiste una Relazione annuale al Parlamento sul commercio delle armi. Il libro di Verrini e Bagnato cerca di esporre la materia in maniera ampia e accurata ma con una certa facilità di lettura.
“La difficoltà maggiore incontrata nei due anni di indagine è stata collaborare con le varie realtà legate alle armi, c’è stata poca permeabilità e un alto tasso di permalosità. Abbiamo cercato sempre di calarci nei panni delle aziende, delle banche, dei sindacati per non giudicare il loro operato e per capire il loro punto di vista. Le aziende produttrici di armi percepiscono la legge 185 come un’inutile cavillo burocratico, che obbliga loro ad essere precisi nei resoconti e nei tragitti di import-export delle armi, non vedono la ragione etica che ha mosso i legislatori. Permane un certo imbarazzo a parlarne.”
Purtroppo il made in Italy non è solo pizza, auto, scarpe e bei vestiti. È fatto anche da pistole, adottate dai corpi di polizia di diversi Paesi nel mondo; da milioni di mine, ormai messe al bando ma ancora pronte ad esplodere in ogni angolo del Sudest asiatico e dei Balcani; da aerei ed elicotteri di ultima generazione. L’Italia, dal 1945 ad oggi, si è annualmente piazzata tra i primi dieci produttori di armamenti nel mondo.
Bagnato e Verrini in questo libro spiegano come non si possa comprendere la politica estera d’Italia e d’Europa, i rapporti di entrambe con gli Stati Uniti, il nostro recente coinvolgimento in missioni di guerra “umanitaria” o “preventiva” senza comprendere il delicato intreccio fra industria armiera, potere politico e potere finanziario.