Nicola Lagioia
Babbo Natale
dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il nostro immaginario
Babbo Natale così come lo conosciamo noi – vestito rosso a bande bianche, fisico corpulento, aspetto gioviale e rassicurante – è un’invenzione della Coca-Cola. Nel 1931, per aggirare una legge che proibiva l’utilizzo di immagini pubblicitarie in cui bambini bevevano la Coca-Cola a causa del suo contenuto di caffeina, la multinazionale di Atlanta decise di utilizzare Santa Claus come testimonial, delegando al celebre porta-doni il compito di conquistare un target fondamentale di consumatori. Così, una nuova icona-pop veniva immessa nei circuiti della comunicazione distruggendo, una dopo l’altra, tutte le sue precedenti incarnazioni. Questo libro, raccontando in parallelo la storia di Santa Claus (da prodotto della cristianità a simbolo del consumismo) e della Coca-Cola (da semplice medicinale partorito dall’America dei pionieri a immateriale oggetto di fascinazione postmoderna) utilizza il breaking-point del loro incontro per spiegare come il sistema delle multinazionali sia capace di colonizzare il nostro immaginario. Con un linguaggio sciolto, pungente, lontano dagli ottimismi della new economy ma anche dai luoghi comuni dei no-global, Lagioia prova a utilizzare il matrimonio tra Babbo Natale e la Coca-Cola come potente e spaventosa metafora dei nostri tempi.
– 05/08/2008
Ombre rosse sul Salento
– 21/12/2007
Libri
– 18/05/2006
Lagioia: Babbo Natale
Nicola Lagioia è uno scrittore di romanzi, ma stavolta si cimenta in questo interessantissimo saggio, che parla delle origine e degli sviluppi della Coca-Cola, di un fenomeno che da industriale è divenuto immaginario di massa, passando per tutte le peripezie che ciò ha comportato. E Babbo Natale? Per cortesia, non toccateci almeno Babbo Natale, di questi tempi cupi, cupissimi di ora in ora in un crescendo esponenziale, non toccateci il mistero della fede dell’aspettativa della notte di Natale, dell’infanzia nostra o dei nostri figli, una delle poche cose che sappiamo con certezza di aver tramandato, e della quale non ci pentiamo. E invece, putroppo c’entrano, e moltissimo, e corredato da splendide stampe d’epoca, Lagioia ne ripercorre le tappe. Ma in fondo cosa abbiamo da rimproverare alla Coca-Cola?
Ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, la spiaggia del primo turismo di massa e delle seconde case degli anni ’60, le madri preoccupate perché la Coca faceva innervosire i bambini, quelle bottigliette così fredde quasi ghiacciate, dava a noi preadolescenti la sensazione di appartenere finalmente al mondo dei grandi, quella bibita accomunava, dava appartenenza, non era il mefitico alcool dal quale stare alla larga, c’era l’America, intera, in quella bottiglietta. L’America anticonvenzionale del movimento hippy, quella delle marce per i diritti dei neri, quella di Malcolm X e Martin Luther King, quella del rock. Qualsiasi immagine era provvida, purchè facesse vendere, così, slegata dall’establishment, accontentava tutti perché la filosofia della Coca- Cola era ed è sempre stata questa: che ognuno ci trovasse dentro quello che voleva, purché la bevesse…
Ripercorriamo con l’autore tutte le reincarnazioni di Babbo Natale, dalle feriae pagane ai saturnali, da San Nicola a Wehnachtsmann a Sinterkaes, e non ci scandalizziamo, ma è bene sapere l’origine, del come e quando la Coca- Cola assunse come testimonial proprio Babbo Natale. E questo saggio lo spiega bene.
Pensate che nella Francia del 1951, la chiesa protestante di Digione fece radunare i fedeli al cancello principale della cattedrale, “impiccato” un pupazzo con le fattezze di Babbo Natale e fatto bruciare come eretico. Al termine dell’esecuzione venne letto questo comunicato: “In rappresentanza di tutte le famiglie cristiane della parrocchia desiderose di lottare contro la menzogna, duecentocinquanta bambini… hanno bruciato Babbo Natale… Non si è trattato di un atto simbolico. Babbo Natale è stato sacrificato in olocausto. La sua menzogna non risveglia nei bambini alcun sentimento religioso e non può considerarsi in nessun caso educativo. Per noi cristiani la festa del Natale è e deve rimanere la ricorrenza che celebra la nascita del Salvatore”. Altro parallelismo tra i due fenomeni: l’Europa ostentava diffidenza all’ ingresso così massiccio e capillare della Coca. Le Monde, ad esempio, “denunciava i pericoli che la Coca-Cola poteva rappresentare per la civiltà francese”, mentre una schiera di leggende metropolitane tentavano inutilmente di rallentarne la diffusione.
Tra le più curiose, la voce che negli stabilimenti di Lambach in Austria si nascondesse un arsenale nucleare degli Stati Uniti, che l’assunzione della bevanda facesse venire i capelli bianchi, che provocasse violente coliti, tanto che Alexander Makinsky, uomo chiave della compagnia, arrivò a dire che “per misurare i rapporti tra Stati Uniti e resto del mondo era sufficiente misurare il tasso di gradi gradimento della Coke in terra straniera”. A Cipro “sfregiarono”con falce e martello alcune insegne della bibita, in Germania apparvero pamphlet diffamatori, uno dei quali intitolato “Coca-Cola, Karl Marx e l’imbecillità delle masse. Nelle Filippine si diffuse la voce che “la Coca-Cola faceva cadere i denti, in Egitto alcuni integralisti islamici cercarono di far crollare le vendite della bibita dichiarando che tra i suoi ingredienti c’era sangue di maiale. In Giappone si riteneva che la Coca-Cola potesse rendere sterili le donne, mentre in Brasile venne accusata di provocare l’impotenza maschile e favorire i processi tumorali”.
Ma fu la seconda guerra mondiale la vera arma vincente della Coca-Cola, il suo definitivo, grande lancio, e ciò che la assocerà per sempre al simbolismo del capitalismo vincente. Si racconta che fu lo stesso Eisenhower che, nel giugno del ’43 inviò un cablogramma urgente in cui chiedeva “L’imbarco di 3 milioni di Coca-Cola imbottigliate (piene) e attrezzatura completa per l’imbottigliamento, lavaggio, tappatura; stessa quantità due volte al mese”. Ma furono gli olandesi coloro che, inconsapevolmente, riuscirono a conciliare, anzi a rendere l’uno diretto pubblicitario dell’altro, il matrimonio d’interessi tra lei, la Coca-Cola, e lui, Babbo Natale. Entrambi provvisti di notevole dote personale, questo sodalizio economico-mediatico si rivelò imbattibile. Sta di fatto che gli olandesi portarono negli States ciò che restava loro del culto di Mira e cominciarono a venire importati i cosiddetti “biscotti di San Nicola”, pregevoli biscotti raffiguranti la sagoma del santo, il cui consumo era legato al periodo tra natale e capodanno.
Così cominciò lo scambio di doni, largamente diffuso nella comunità di Manhattan, originariamente di natura alimentare. E da lì il business, i legami tra società che fiutarono l’affare del secolo, i legami ideologico-pubblicitari, Il Prodotto per antonomasia, non Chanel n°5, né il visone, ma una bottiglietta, una lattina alla portata di tutti, ecco La vera rivoluzione. Con pochi cent aderire e rappresentare senza sforzi tutta la campagna ideologica del modernismo e dell’efficienza, degli ideali di libertà e di autonomia, il gesto dell’adolescente come quello del soldato, del manovale che lavora sulle impalcature come dell’operaio in fabbrica. Il Prodotto transculturale e multirazziale, proletario, portato a cavallo di una slitta da un simpatico ed irresistibile Babbo Natale già cittadino USA, che elargisce doni e per una notte, una notte che si sogna tutto l’anno, elargisce doni ed immortalità per il solo fatto di aver condiviso quel sogno.
– 31/01/2006
Santa Claus, la coca-cola più il terrore della morte
Uscito poco prima di Natale, questo libro di Nicola Lagioia non è né un romanzo né uno dei tanti gadget che intasano le librerie fra dicembre e gennaio. Il Babbo Natale di Lagioia non entra – se non indirettamente – in questa fascia di mercato, offrendoci invece un vero e proprio viaggio attraverso l’evoluzione della figura di un sedicente santo (Nicola, Klaus, Claus), praticamente da sempre al servizio della bottiglietta da 33 cl della Coca-cola Company. Divulgativo senza appiattirsi su una corriva discorsività, il libro non inneggi all’unione fra il simbolo (in tutto il mondo, o quasi) del Natale e la multinazionale americana, senza per questo schierarsi contro la rossa e bianca figura dell’immaginario cui è stata data forma nel lontano 1931, proprio dalla Coke Ltd – per fini tutt’altro che filantropici o umanitari. Con un taglio storico-sociologico scortato da una sotterranea vena ironica e riprendendo la lezione di grandi saggisti, come Benjamin Caudrillard, Zizek o il semidimenticato Barthes, Lagioia perimetra con puntiglio la nuova vita che il Novecento occidentale, alle prese con le prove generali di quanto chiamiamo globalizzazione, ha regalato a papà Natale. E alla Coca-cola, naturalmente. Stilo ha intervistato l’autore.
Come e perché le è venuto in mente di scrivere un libro sull’invasività della Coca-cola nell’immaginario collettivo?
Perché mi interessano tutte le forme relativamente recenti di mitopoiesi, specie quelle che non hanno niente a che fare con la creazione artistica: vengano da Hollywood, dalla Coca-cola, dalla Virgin Records. Si tratta di forme di narrazione di fenomenale impatto emotivo che – a differenza di quelle legate alla grande letteratura, al grande cinema, alla poesia, al teatro – non hanno la facoltà di rimettere l’essere umano in consapevole contatto con se stesso, ma lo “decentrano” agendo paradossalmente sui luoghi più nascosti della nostra presunta interiorità. Quindi, sia pure in forma perversa, diventano un enunciato di verità.
Ovvero il collante su cui poggia il messaggio pubblicitario…
Proprio per quel che riguarda la narrazione pubblicitaria, credo che uno dei punti di non ritorno sia rappresentato dalla recente campagna Telecom firmata da Spike Lee, su cui mi soffermo nel libro. L’immagine di Gandhi è proiettata su tutti i supporti video del pianeta: computer, televisioni, maxischermi che radunano folle oceaniche a Times Square, a Piccadilly Circus, sulla Piazza Rossa…Segue lo slogan: “Che mondo sarebbe, oggi, se avesse potuto comunicare in questo modo?” All’inizio è quasi inevitabile emozionarsi. A una seconda lettura – non emotiva – si comprende la portata totalitaria dello spot. Anche il pensiero del Mahatma, nel momento in cui monopolizza l’intero sistema dei media, diventa pericolosamente “pensiero unico”. Ma non è tutto. Cosa succede se, nello stesso spot, sostituiamo a Gandhi Hitler, Stalin, Pol Pot? In realtà la campagna della Telecom non celebra né il pensiero di Gandhi e nemmeno sotterraneamente quello delle mostruosità novecentesche di destra o di sinistra. È piuttosto un manifesto dell’apparato tecnico-mediatico che oggi ci governa tutti quanti, una forma di totalitarismo che, rispetto ai tradizionali fascismi e comunismi su cui ancora ci accaniamo tanto a discutere, è molto più vicino all’elemento per così dire ontologico del totalitarismo in sé: la mancanza di una autocoscienza, di un manifesto. Denuncia il suo carattere meravigliosamente acefalo.
E per quanto riguarda il suo Babbo Natale, l’opzione della Coca-cola su questa figura crea, a livello di immaginario, una entità veramente inscindibile?
Anche se la Coca-cola ha ingaggiato Babbo Natale come testimonial, la bibita è simbolicamente subordinata, se non addirittura asservita, al celebre porta-doni e al suo significato più nascosto. Nel libro cerco di spiegare come Babbo Natale (una delle più efficaci allegorie del mondo dei consumi) vada a oliare la più potente macchina di rimozione concepita dalla nostra epoca: quella legata alla paura di morire. Durante Halloween i bambini incarnano, nella finzione-travestimento, lo spirito dei defunti. Defunti che gli adulti ricacciano ritualmente (e ciclicamente) da dove sono venuti, dando loro un regalino. Con Santa Claus questo meccanismo subisce un salto di qualità. Non sono più gli adulti a confrontarsi direttamente con i morti, ma il “lavoro sporco”, il compito di avere a che fare con Thanatos, viene affidato a un mediatore. Dal momento che il mondo dei consumi si appoggia a una simile dinamica, ecco che Santa Claus incarna un centro di irradiazione a cui la Coca-cola si rivolge come a uno spirito guida.
Quindi niente sacrificio della carne, come impone il cristianesimo, ma elargizione di regali per tenere a bada la morte? Cioè, il paganesimo contro la religione?
La metterei così: ci sono due divinità che si contendono la notte di Natale. Una promette la vita eterna attraverso la morte carnale; l’altra esorcizza continuamente la paura di morire attraverso una totalitaria distribuzione di regali. Si pensi a come corrano in parallelo l’ubiquità di Babbo Natale (capace di mettersi contemporaneamente a disposizione di tutti i bambini del pianeta) e la vocazione ubiqua dei prodotti di largo consumo )la circostanza, sia pure potenziale, di venire posseduti in forma sempre identica da sei miliardi di consumatori; quindi, in definitiva, di possederci). Credo che una simile aspirazione si possa definire “pagana” più che altro per comodità, in opposizione alla dottrina cristiana, in realtà credo si tratti di qualcosa di diverso.
Vale a dire?
Harold Bloom, nella sua parziale quanto interessante storia della letteratura occidentale (Canone occidentale, appunto), utilizza la tripartizione vichiana della storia declinandola su Shakespeare, su Dante, su Tolstoj, su Cervantes, su Proust, sulla Woolf ottenendo le “tre età” della nostra esperienza letteraria: “età aristocratica”,”età democratica” e la attuale “età caotica”, la quale inizierebbe con lo sbriciolamento dei parametri ottocenteschi, utilizzerebbe i quattro grandi assi di rotazione di Joyce, Kafka, Proust, Beckett arrivando a lambire le mitografie post-moderne di Thomas Pynchon. Esaurita “l’età caotica” il ciclo delle ere dovrebbe ricominciare daccapo, ma questo non significa affatto che la storia debba ripetersi. Né si tratta di utilizzare il mito del “ritorno all’eguale”. Bloom paventa infatti l’avvento di quella che chiama un po’ pomposamente “teocrazia audiovisiva”, una nuova “età degli dei” (per dirla sempre con Vico) tutta giocata nel segno della tecnica e dei media. Si può parlare dunque soltanto fino a un certo punto di “paganesimo di ritorno” dal momento che il contesto e il luogo di riferimento, il ricettacolo di mitopoiesi e di significanti non è più la natura, la wilderness, le colonne d’Ercole, la linea d’orizzonte oltre la quale c’è l’ignoto, ma un mondo (quello della televisione, dei computer, dei centri commerciali, di Internet) totalmente progettato da noi. Un mondo che, pur essendo in potenza completamente mappabile a differenza della natura, conserva tuttavia (in certi casi moltiplica) i suoi luoghi di indecifrabilità, i suoi arcani, un proprio enigma continuamente in fuga.
Ma non vi è stata mai una tappa di arresto, qualcosa che abbia rallentato la fusione di un elemento parareligioso qual è Santa Claus alias Babbo Natale con l’immagine di questa particolare bevanda?
Il mondo aveva bisogno di Santa Claus prima ancora che la Coca-cola architettasse la sua campagna pubblicitaria. Il che non significa che sarebbe dovuta essere necessariamente l’azienda di Atlanta ad approfittare della situazione. L’adorazione di Santa Claus da parte della società dei consumi (il fatto che ciò che rappresenta il ciccione con la slitta dovesse andare a incarnarsi prima o poi in una potente allegoria) era però inevitabile, senza troppe soluzioni di continuità.
Però la brandizzazione di Babbo Natale ha a che fare soprattutto con il marchio Coke Ltd, o almeno così sembrerebbe.
La Coca-cola non ha il copyright di Babbo Natale, che ogni anno viene “ingaggiato” dal cinema, dai fumetti, dai giornali, dalla musica pop…Il merito della Coca-cola sta semmai nel fatto di aver reso definitiva la sua trasformazione (da simbolo del cristianesimo a campione del mondo dei consumi), facendo convivere l’aura di soprannaturalità che da sempre ha accompagnato i porta-doni con l’estetica dell’uomo comune. È come se, con la Coca-cola, Babbo Natale avesse concluso il suo ciclo di esistenze. Da qui in poi diventa un patrimonio dell’umanità. O, a seconda dei punti di vista, un fardello di insostenibile leggerezza.
Nel suo libro sembra di sentire l’eco profonda di Debord quando scrive che il falso forma il gusto e fa sparire ogni possibile riferimento al vero.
Nell’opposizione vero-falso, la cosa interessante in Babbo Natale è che noi continuiamo a percepirlo come un mito ancestrale pur sapendo che la sua origine è assolutamente moderna. Sapere e non sapere riescono stranamente a convivere. È nell’intersezione tra questi due ex opposti – che rappresenta il territorio più sguarnito e indifeso (il punto cieco) della nostra capacità di discernimento – che vanno a infiltrarsi, e a deporre il proprio seme, le nuove forme mitologiche. Verrebbe da biasimare il meccanismo se non fosse che la brutalità di una colonizzazione libidica (perché di questo si tratta…) relativa all’immaginario risponde a una precisa urgenza: sembriamo averne un bisogno disperato.
Oggi i ragazzini sotto i 12 anni, bevono liberamente Coca-cola. A cosa serve ancora l’immagine cristallizzata di Santa Claus come veicolo di questa bevanda?
Alla necessità, come già detto, di avere uno spirito guida.
– 01/02/2006
Finalmente è Natale: Per pacifisti, giallisti e turisti
Com’è che un tizio dal fisico corpulento, la barba nevosa e un vestito rosso bordato di pelliccia bianca, inventato dalla Coca-Cola nel 1931, è diventato più popolare di Gesù Bambino? Ce lo spiega uno scrittore di Bari, città d’origine di Santa Claus.
– 15/01/2006
L’immaginario di Babbo Natale
“PER I SANTI INNOCENTINI, FINITE LE FESTE, FINITI I QUATTRINI”, SI DICEVA UN TEMPO. RICORDO L’ARRIVO DELL’ALBERO DI NATALE NELLE CASE PROLETARIE ITALIANE, in alternativa o con il presepe, qualche anno dopo la guerra, con vere candeline e non con quei rotoli di lucine intermittenti che fanno male agli occhi,ma non ricordo l’arrivo di Babbo Natale, perché comparve nelle nostre usanze dopo, quando io vivevo in posti così poveri che lui, propagandista dell’incipiente consumismo e del miracolo economico, li evitava accuratamente. Perché sì, Babbo Natale è arrivati in Italia non dalla Scandinavia ma da Hollywood Usa e, come ora scopro da un divertente e informatissimo excursus di Nicola Lagioia, sponsorizzato nientepopodimenoche dalla Coca-Cola. Il libro di Lagioia si chiama appunto Babbo Natale, ovvero Dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il nostro immaginario (Fazi editore, molto illustrato, pagg. 150, per 13 euro). Il libro parla in sostanza del modo in cui le tradizioni popolari dell’Europa, arrivando negli Usa con le grandi migrazioni di contadini di fine ‘800 e primi ‘900, sono state assorbite dal sistema americano e riplasmate da frenetici capitalisti che ne hanno fatto il veicolo per nuove merci, modificando il valore simbolico dei riti per farci denaro. Questi nuovi riti sono diventati “globali” grazie alle imposizione penetrazione imitazione dei modelli della “american way of life”. Nicola Lagioia aveva un motivo serio per occuparsi di Babbo Natale: si chiama Nicola ed è di Bari, dove vige il culto di San Nicola. Che è santo d’origine orientale e con una storia mitico-religiosa varia e complessa perché è stato variamente venerato in Europa e altrove, mescolando cristianesimo e paganesimo. Nel Nord d’Europa San Nicola è Santa Claus (Claus, diminutivo di Nikolaus), ed è lui che porta i regali ai bambini a Natale. In Italia toccava a seconda dei luoghi a Gesù Bambino, Santa Lucia, la Befana, i morti di casa (in Sicilia) e anche a San Nicola nel giorno della sua festa. A casa mia la mattina di San Nicola, ai primi di dicembre, trovavo vicino al letto, al risveglio, un bastone infioccato di carte e stracci colorati. Era l’annuncio che le feste erano vicine. E si cantava una canzoncina: “San Nicolò di Bari, che porta li regali, li porta col bastone, San Nicolò birbone”. Lascio ai lettori del libro il gusto di scoprire i passaggi americani dal Babbo Natale delle tradizioni europee a quello imposto dalla Coca-Cola, che ne ridisegnò la figura e i vestiti e gli mise puttanescamente in mano la fatidica bottiglietta negli anni ’20 del ‘900, sino ad allora vietata ai bambini…ma non posso non citare l’episodio di “resistenza” su cui il grande antropologo Lévi-Strauss scrisse il saggetto Babbo Natale giustiziato: nel 1951, la vigilia di Natale, i bambini di Digione furono invitati dal clero cattolico e protestante a bruciare in piazza l’eretico e materialista Babbo Natale americano. E se Lagioia si sofferma, lato cinema, sul conflitto tra il sinistro Babbo Natale di Zemeckis (Polar Express) e quello di sinistra di Tim Burton (Nightmare bifore Christmas), io ricordo come uno dei primi Babbo Natale della mia memoria cinofila quello di Edmund Gwenn in Il miracolo della 34ª strada di Gorge Seaton (1947), più volte imitato: il vecchietto che fa Babbo Natale davanti ai grandi magazzini e che dice di esserlo per davvero. Sarebbe interessante che qualcuno più ferrato di me potesse prima o poi ragionare sull’uso di Babbo Natale nei film più svariati, fiabe horror polizieschi commedie mélo, confrontando l’uso europeo e l’uso americano. E sorseggiando il nostrano chinotto invece dell’imperialista Coca-Cola.
– 01/02/2006
Un uomo chiamato “Santa Coca-Colaus”
Le dinamiche mitologico-consumistiche della nostra civiltà vengono indagate attraverso due storie, prima lontanissime e poi strettamente intrecciate: da una parte la Coca-Cola che, da piccola impresa pionieristica nata negli Stati Uniti del XIX secolo, si trasforma via via nella più nota e universale delle multinazionali; dall’altra Santa Claus, che da San Nicola protettore della ragazze senza dote nell’Europa del IV secolo, passando per una ramificata serie di incarnazioni intermedia, approda nella società dei consumi e ne diventa l’icona per eccellenza, arrivando a oscurare l’originale significato del Natale.
L’affascinante percorso storico svela episodi oscuri e inquietanti della trionfale ascesa dell’azienda di Atlanta (come i suoi rapporti col Terzo Reich) e ripercorre la graduale contaminazione tra realtà e mondo immaginario che porta la Coca-Cola e diventare parte dell’immagine che la cultura americana e poi occidentale tutta ha di se stessa.
Fu nel 1931 che questo raffinato congegno mitopoietico fagocitò l’embrione di Santa Claus, annullandone ogni legame con la tradizione. Adottando Babbo Natale come testimonial, l’azienda aggirava la legge che proibiva le pubblicità in cui comparissero bambini sotto i 12 anni e, insieme, sfruttava l’universalità di Santa Claus per diffondersi ovunque, imponendo la propria sopravvivenza agli uomini-consumatori. Inoltre attuava il passaggio dal mondo delle merci al mondo della narrazione mitica, in cui ciò che conta per attrarre il cliente è l’ineffabile aura di fascinazione tipica non del prodotto in sé ma della sua valenza fantasmatica.
Il matrimonio con Santa Claus, versione consumistica di San Nicola, era celebrato e avrebbe continuato a dare i suoi frutti simbolici e finanziari.
– 01/01/2006
Finalmente è Natale: Per pacifisti, giallisti e turisti
Com’è che un tizio dal fisico corpulento, la barba nevosa e un vestito rosso bordato di pelliccia bianca, inventato dalla Coca-Cola nel 1931, è diventato più popolare di Gesù Bambino? Ce lo spiega uno scrittore di Bari, città d’origine di Santa Claus.
– 21/12/2005
Ho voglia di un Natale…POLEMICO
NICOLA LAGIOIA Babbo Natale Fazi € 13.00 pag.152_
Sarete sorpresi di scoprire che San Ni-cola, nato in Licia (Turchia) intorno al 270 d.C.. ha poco a che fare con il Babbo Natale vestito di rosso,”nato” secoli dopo, per risolvere una que-stione di marketing: togliere, dalle pubbli-cità della Coca Cola, i bambini. Una legge proibiva di usare foto di minori di 12 anni che bevessero una bi-bita a base di caffeina.
– 01/12/2005
Le follie di St. Claus
Babbo Natale fa parte della categoria -delle divinità. Per due precisi motivi.
Il primo è che ha un’origine sacra personificata da San Nicola vescovo di Mira, in Turchia, che nel 325 partecipò al concilio di Nicea.
Amato per le sue opere pie, il Santo diventò nella fantasia popolare “portatore di doni”, tradizione che fu poi importata a New York dagli immigrati olandesi col nome Sinter Klaas.
L’altro motivò dell’ apoteosi di Babbo Natale è che, da un prodotto della cristianità, si è trasformato in una espressione divina del consumismo.
E ciò da quando nel 1931 la Coca Cola, alla conquista di nuovi target di mercato, lo scelse come testimonial.
Una metafora dei nostri tempi raccontata da Nicola Lagioia nel libro Babbo Natale (Fazi, 150 pp.,13 €).
– 23/12/2005
Chi c’è dietro Babbo Natale?
Barba bianca, volto rubicondo, pancione, giubba purpurea bordata di pelliccia. Nella fantasia popolare è questo l’identikit di Babbo Natale, il gioviale abitante del Polo Nord che la notte di Natale dispensa doni e gioia ai piccini del pianeta. Risalendo alle sue possibili origini, un personaggio con simili caratteristiche nella storia è effettivamente esistito: si tratta di San Nicola, nato in Turchia da ricca famiglia, divenuto nel IV secolo vescovo di Myra e, per alcuni episodi di elargizione che lo hanno visto protagonista, ritenuto equilibratore sociale e riparatore dei torti. Ma la fortuna del generoso vecchio che popola il nostro moderno immaginario si deve alla Coca-Cola, che nel 1931 ‘reclutò’ Santa Claus (derivazione di San Nicola nel nome) per una campagna di grande successo, trasformando così l’originario mito della cristianità in testimoniai commerciale per il target di bambini e conferendogli le sembianze ben note, tra cui il rosso istituzionale dell’azienda di Atlanta. Una metamorfosi senza ritorno: non a caso il sottotitolo di questo libro recita: “dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il nostro immaginario”. Lo scrittore Nicola La gioia tratta dell’evoluzione di Santa Claus in parallelo alla storia della multinazionale della fortunata bevanda. Pagina dopo pagina si scopre che, dopo il successo ottenuto negli Stati Uniti, l’amato personaggio sulla slitta trainata da renne (incarnazione del sogno americano nato dalla fantasia del disegnatore Haddon Sundblom, che per ritrarre il vecchio portadoni s’ispirò al suo vicino di casa, un vecchio commesso viaggiatore) fu fatto ‘sbarcare’ anche in Europa dalla multinazionale; venne inizialmente rifiutato dalla autorità ecclesiastiche cattoliche e protestanti e che, archiviate infine le resistenze religiose, la presenza dell’ingombrante ‘invasore’ fu non solo accettata ma perfino rivendicata da Paesi come l’Olanda e la Finlandia. Ma non è tutto: “Non si tratta soltanto di ricostruire storicamente un mito – scrive Lagioia -ma anche di mostrare come Babbo Natale, ben lontano dall’essere un semplice strumento educativo maneggiato con totale consapevolezza dagli adulti a beneficio dei più piccoli, serva soprattutto ai primi come amuleto, maschera, contravveleno, quale sorridente e coloratissimo depistatore della paura di morire”. Ricco d’immagini documentali e storiche réclame, il volume si prefigge quindi di avviare una riflessione critica sugli aspetti più inquietanti del portatore di doni (in definitiva uno sguardo sconcertante sul destino dell’umanità nella società del consumo) prendendo anche spunto da due film d’animazione: Polar Express e Nightmare Before Christmas. Le considerazioni finali riguardano l’origine dell’elargizione, gesto che, a dispetto delle apparenze, indurrebbe a vedere in Babbo Natale lo spirito del capitalismo avanzato.
– 18/01/2006
L’origine “frizzante” di Babbo Natale
– 24/12/2005
Storie di neve e di ghiaccio sotto l’albero aspettando che arrivino le Olimpiadi
– 24/12/2005
Natale con una sconosciuta
– 24/12/2005
Troppe luminarie l’unica emozione è il silenzio del nido
– 22/12/2005
Babbo Natale con le bollicine
– 01/12/2005
Una slitta piena di “Coke”
– 03/01/2006
Fra consumi, sprechi e profitti
– 24/12/2005
Dai farmaci, al cibo a… Babbo Natale: ecco come ci manipolano l’inconscio
– 08/01/2006
Babbo Natale non esiste
– 03/01/2006
Babbo Natale sull’altare del consumismo
– 23/12/2005
Babbo Natale al crocevia
– 22/12/2005
Conciati per le feste, gli scrittori tra Natale e Capodanno
– 23/12/2005
Babbo Natale lavora in una multinazionale
– 19/12/2005
Babbo Natale, una storia fantastica!
È uscito nelle librerie da qualche giorno un divertente saggio intitolato Babbo Natale con il significativo sottotitolo: dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il nostro immaginario.
L’autore è Nicola Lagioia e del resto chi poteva parlare di Santa Claus meglio di uno scrittore di nome Nicola e per giunta nato a Bari?
Il libro descrive su due piani paralleli l’evoluzione della figura simbolica di Babbo Natale, dalle origini legate al personaggio di san Nicola fino ai giorni nostri, e lo sfruttamento commerciale che di questo simbolo è stato fatto a partire dal 1931, con grandissimo successo, dalla Coca-Cola, partendo dalla necessità di rilanciare un marchio che poteva essere offuscato dalla legge che proibiva di pubblicizzare la bevanda per il suo contenuto di caffeina ai ragazzi under 12, attraverso il fortunato disegno destinato a colpire l’immaginario di grandi e piccoli.
Si parla della storia della Coca-Cola e del significato di un simbolo e anche di come questa figura sia stata interpretata in due recenti film di successo: Polar Express di Robert Zemeckis e Nightmare before Christmas di Tim Burton.
Dì la verità, ti sei appassionato a questa storia perché ti chiami Nicola…?
Non solo, sono pure nato a Bari. Comunque l’onomastica ha veramente poco peso in questo caso. Babbo Natale e la Coca-Cola sono due figure talmente centrali per la nostra cultura che la mostruosità del loro incontro mi sembrava un ottimo spunto per mettersi al lavoro. La cosiddetta società dello spettacolo ha sempre avuto un ruolo importante nei libri che ho scritto.
Se la Coca-Cola non avesse “inventato” il suo Babbo Natale, pubblicizzandolo in tutto il mondo, questa figura avrebbe oggi il successo che ha?
Credo di sì, con connotati e un’iconografia diversi magari, ma con il compito di soddisfare lo stesso bisogno sociale. Provo a spiegarmi. L’orgia natalizia ha i suoi ascendenti più lontani nei Saturnali e in tutte le feriae precristiane in cui lo spreco, lo scambio di doni, serviva a esorcizzare la vis mortifera delle potenze invernali. La stessa cosa succede con Halloween: i bambini, mascherati, incarnano nella finzione gli spiriti dei morti ai quali i vivi (adulti) consegnano ciclicamente doni perché ritornino da dove sono venuti. Con Babbo Natale questo meccanismo fa uno scatto in avanti: non c’è più un confronto diretto tra vivi e morti ma, per così dire, il lavoro sporco viene affidato a un mediatore, Santa Claus appunto. In sintesi Babbo Natale è al servizio del più potente apparato di rimozione messo a punto dalla nostra epoca: quello che ha a che fare con la morte. Le masse aspettavano Babbo Natale prima ancora la Coca-Cola mettesse in piedi la famosa campagna pubblicitaria.
Come ha potuto il santo algido e mediterraneo della tradizione diventare il paffutissimo nordico disegnato per la pubblicità della Coca Cola? È accaduto un po’ come per Gesù (non a caso l’altro simbolo del Natale), ormai per tutti alto, biondo con gli occhi azzurri e nei Presepi rappresentato come un bimbetto biondissimo?
Nella notte di Natale ci sono effettivamente due figure in concorrenza tra di loro (da una parte il Dio cristiano, che offre vita eterna attraverso la morte carnale; dall’altra Santa Claus, ovvero lo spirito del capitalismo, che promette la sconfitta della morte carnale attraverso una totalitaria distribuzione di regali). Quale delle due divinità oggi abbia vinto mi sembra sin troppo evidente. Per ciò che riguarda san Nicola, il suo processo di scristianizzazione si compie nel Nuovo continente. Solidissima fino al XVI secolo, la figura di Nicola si “indebolisce” già con la Riforma e nei paesi del nord Europa inizia a contaminarsi con le creature fantastiche del folklore locale. Poi, portato a New York dagli emigrati olandesi e tedeschi, inizia a trasformarsi ancora, fino a diventare il simbolo della società dei consumi che noi tutti frequentiamo. La Coca-Cola non ha innescato questo processo di mutazione. L’ha semmai cristallizzato, rendendolo definitivo.
Se il commesso viaggiatore della porta accanto avesse avuto l’aspetto di un turco, un greco o un barese (come il vero santo) e l’immagine della Coca Cola fosse stata ricalcata su di lui sarebbe stato ragionevolmente un fiasco, malgrado il pubblico di riferimento fosse internazionale e non solo quello statunitense di origine anglosassone. Razzismo? Condizionamento culturale?
Semplicemente, non sarebbe potuto succedere. Al momento di adottarlo come testimonial, alla Coca-Cola serviva un personaggio che scaturisse dal “cuore magico” degli Stati Uniti. Il colpo di genio dei pubblicitari di Atlanta consistette nel far convivere l’aura di soprannaturalità che circondava la figura del porta-doni con l’estetica dell’uomo comune. È quello che nel libro chiamo “l’esotismo del qui”. Un personaggio fragorosamente ordinario, eppure in qualche modo proveniente da un altro pianeta. Era la tattica per far sognare la gente nel modo più rassicurante possibile.
Sarebbe ripetibile oggi un’operazione di marketing come questa? Se una qualsiasi multinazionale decidesse nel 2005 di lanciare un prodotto attraverso una figura di riferimento come il Babbo Natale degli anni Trenta americano, un simbolo in grado di affascinare grandi e bambini di tutto il mondo, potrebbe farlo? Il pubblico sarebbe ancora così sensibile al messaggio?
Più che le multinazionali in se stesse, è il sistema tecnico-comunicativo che regge anche le grandi aziende a svolgere quella funzione mitopoietica in cui un tempo la Chiesa non aveva eguali. Babbo Natale, Marilyn, Lara Croft, E.T., Mickey Mouse, Bin Laden, Sylvia Saint… fanno tutti parte del Pantheon post-cristiano che sovrappopola le lande del nostro immaginario. Non siamo semplicemente “sensibili” a questo tipo di messaggi, ne abbiamo un bisogno spaventoso.
Ti piace il Babbo Natale della Coca-Cola? Da bambino credevi che i doni li portasse lui?
Sì, da piccolo credevo a Babbo Natale, almeno fino a quando non mi hanno fatto capire che era la versione infiocchettata della tredicesima dei miei. Il Santa Claus della Coca-Cola più che piacermi mi affascina e mi turba al tempo stesso. Dal punto di vista puramente estetico ha qualcosa che ricorda le riunioni oceaniche di Norimberga, i film di Leni Riefenstahl, cose del genere.
– 21/12/2005
L’invenzione pop di Santa Claus e fiabe dimenticate
Un titolo curioso e polemico: è il nuovo libro-inchiesta dello scrittore (barese, ma romano d’adozione) Nicola Lagioia, Babbo Natale. Dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il nostro immaginario (Fazi, pagg. 150, euro 13) che – a partire dal 1931, quando per aggirare una legge che proibiva l’utilizzo di immagini pubblicitarie in cui bambini bevevano la Coca-Cola a causa del suo contenuto di caffeina, la nota multinazionale americana decise di utilizzare Santa Claus come testimonial – ricostruisce l’intricato percorso attraverso il quale una nuova icona-pop (il celebre Babbo Natale così come lo conosciamo, vestito rosso a bande bianche, fisico corpulento, aspetto gioviale e rassicurante) fu immessa nei circuiti della comunicazione distruggendo tutte le sue precedenti incarnazioni. Il libro, raccontando in parallelo la storia di Santa Claus e della Coca-Cola, utilizza il breaking-point del loro incontro per spiegare come il sistema delle multinazionali sia capace di colonizzare il nostro immaginario. Tra spreco e profitto, utopia e mercato, infanzia e perversione…
– 20/12/2005
Libri Strenna
– 01/12/2005
Bianco da paura
– 17/12/2005
Infanzie d’Occidente e d’Oriente, c’è anche Babbo Natale
– 18/12/2005
Come non difendersi da un buon romanzo italiano
– 15/12/2005
Babbo Natale… da bere
– 07/12/2005
Il caso Santa Claus
– 13/12/2005
Quando Babbo Natale… è vivo e lotta ancora insieme a noi!
– 01/12/2005
Natale alla Coca
Noi in genere siamo convinti che Babbo Natale cosi come lo conosciamo (barba bianca, pancione, giubba rossa con i bordi di pelliccia bianca, aspetto gioviale e rassicurante) esista da secoli. Ci lamentiamo al limite del fatto che la sua figura venga sfruttata dalla macchina del consumo più sfrenato. Ma come reagiremmo al pensiero che Babbo Natale, più che essere cavalcato dalla società dei consumi, ne è uno dei prodotti più emblematici?
E alla circostanza che la sua presenza nel traffico del nostro immaginario è dovuta soprattutto alla Coca-cola? L’adozione di Babbo Natale da parte della Coca-cola avviene quando il portadoni si è ormai quasi del tutto sbarazzato delle sue origini cristiane. Approdato a New York nel XVII secolo come residuato di una tradizione maturata per oltre mille anni nel Vecchio continente, quello che un tempo era stato San Nicola, vescovo di Mira (nell’attuale Turchia, ndr), si presentava nei primi decenni del Novecento americano come un potente simbolo del mondo dei consumi. L’impresa della Coca-cola non consistette nell’aver determinato un processo di scristianizzazione già in atto da tempo ma nell’averlo semmai cristallizzato, rendendolo in qualche modo definitivo. Il fatto che quest’incontro sia avvenuto in modo quasi accidentale, non toglie che ci fossero le premesse di un matrimonio felice. Spesso le grandi imprese hanno bisogno di un pretesto, un imprevisto, un incidente di percorso che costringa i loro autori a tirar fuori dalle proprie azioni quello che non credevano -possibile. La riscrittura di Santa Claus ad opera della Coca-cola trovò questo pretesto nel dottor Harvey Washington Wiley, un personaggio il cui semplice nome evocherà per gli uomini della futura multinazionale scenari da incubo. Il dottor Wiley lavorava al Dipartimento di Chimica degli Stati Uniti e cominciò a diventare noto nel 1902, quando diede vita alla “squadra del veleno”, un gruppo di ragazzi utilizzati come cavie umane allo scopo di assumere additivi alimentari sospettati di essere nocivi.
L’anno successivo Wiley fece partire una crociata salutista che troverà nella bibita con le bollicine un bersaglio privilegiato. “Gli Stati Uniti d’America contro 40 barili di Coca-cola”. Per quanto ridicolo, questo fu il nome con cui venne chiamato il procedimento giudiziario che per l’azienda di Atlanta rappresentò una delle prove più difficili da affrontare nei primi decenni del XX secolo.
La denominazione si deve al sequestro di alcuni barili di Coca-cola che Wiley fece disporre nel 1907. L’episodio arrivò al culmine di una campagna denigratoria per la quale era stato sobillato il meglio del fervore paranoide nazionale: Martha M. Allen, capo del movimento delle Donne per la Temperanza Cristiana (“So per certo di un giovanotto che è diventato una vera nullità a causa della sua abitudine alla Coca–cola”); il metodista George Stuart (“Si è saputo che l’uso di Coca-Cola ha portato in una scuola femminile deprecabili festini notturni. In più la bibita tiene svegli i ragazzi esponendoli alle tentazioni
della masturbazione”) a cui si accompagnava una nutrita schiera di opinionisti infervorati, cronisti
dalla penna facile o semplici approfittatori pronti a giurare che la Coca-cola conteneva cocaina (non ce n’era più traccia a partire dal 1903), conteneva pericolose quantità di alcol, di caffeina, di oppio, di imprecisate e terribili sostanze velenose. Il processo fu celebrato a Chattanooga e fu un buon prototipo di quegli show sotto le coltri di procedimento giudiziario che appassioneranno gli States negli anni a venire. Innanzitutto l’accusa: si contestava alla bibita di essere adulterata con sostanze pericolose (nello specifico la caffeina)
e di avere una denominazione ingannevole -nella sua composizione non c’era più cocaina mentre la percentuale di noce di cola sfiorava l’infinitesimale. Quest’ultima imputazione fu un esercizio di comicità involontaria in carta bollata: se la Coca-cola avesse davvero contenuto cocaina, avrebbe trasformato la sua azienda nel più grande spacciatore di droga del pianeta. Il tribunale di Chattanooga ospitò una sfilata di deposizioni in stato di sovraeccitazione, pronte a dipingere la Coca-cala come un perfetto distillato del demonio o, al contrario, come presenza immacolata in un mondo di avvoltoi. I giornali seguirono il dibattimento come se si fosse trattato di una finale di superbowl; furono talmente contagiati dal clima scatenato che si respirava in città che l’Atlanta Georgian potè titolare: “Otto Coca-cola contengono abbastanza caffeina da uccidere”. Chimici e farmacologi presentarono dettagliatissime deposizioni tecniche che mandarono in confusione i membri della giuria popolare. Si discusse, si controdiscusse, si pubblicarono fiumi di inchiostro e alla fine il giudice Edward Terry Sanford chiuse lo show: dopo aver espresso la sua opinione ordinò praticamente alla giuria di riunirsi e di tornare in aula con un verdetto favorevole alla Coca-cola. La bibita non rischiò più di essere ritirata dal commercio né fu costretta a rivedere la sua formula.
L’unico cambiamento riguarderà la strategia pubblicitaria dell’azienda. Gli avvocati difensori della Coca-cola non avevano contestato gli effetti negativi della caffeina sui giovanissimi -avevano però cercato di aggirare l’ostacolo dichiarando che i più piccoli non erano consumatori abituali della bibita, il che contrastava con le pubblicità del periodo che ritraevano bambini intenti a bere Coca-cola insieme ai genitori.
Così, dopo il 1911, fu proibito l’utilizzo rappresentato di materiale pubblicitario in cui ci fossero bambini di età inferiore a dodici anni nell’atto di bere Coca-cola. Se i danni erano stati limitati al massimo, l’azienda rischiava di perdere una fetta fondamentale di consumatori, soprattutto se si considera il ruolo sempre più importante che la pubblicita sarà destinata a giocare negli anni a venire.
Siamo nel 1931: la Coca-cola, che fino a qualche tempo prima veniva soprattutto servita nei bar, poteva adesso essere acquistata in confezioni da conservarsi nei frigoriferi domestici. Si trattò di un cambiamento epocale.
Per i fatturati della Compagnia incominciò a essere decisivo l’esercito di donne che ogni giorno si recavano a fare la spesa. Di conseguenza, cresceva l’importanza dei persuasori neanche troppo occulti che orientavano le massaie in gran parte dei loro acquisti: i loro figli. Bisognava concepire una campagna pubblicitaria in grado di rivolgersi ai bambini senza mai metterli al centro della scena. Il compito fu affidato a Haddon Sundblom, un bizzarro disegnatore di origine svedese che si faceva perdonare i suoi ritardi clamorosi grazie alla forza e all’inconfondibilità del segno grafico.
L’espediente utilizzato fu quello di arruolare un messaggero, un intermediario tra infanzia e mondo degli adulti che fosse in grado di catalizzare l’immaginazione dei bambini. La scelta cadde appunto su Santa Claus. Sundblom ebbe come primo parametro i1 Santa Claus disegnato da Thomas Nast per Harper’s Weekly nel 1862: un portadoni con pancione e barba bianca che cominciava a distanziarsi dalle versioni esotiche con cui era stato rappresentato fino a quel momento. Il colpo di genio di Sundblom consistette nel far convivere l’aura di soprannaturalità che circondava Babbo Natale con l’estetica dell’uomo comune. Basta elfi, creature dei boschi, personaggi provenienti da immaginari e culture lontane: il nuovo Babbo Natale avrebbe dovuto essere partorite dal cuore magico dell’America del XX secolo.
Sundblom utilizzò come modello l’uomo della porta accanto, vale a dire il suo vicino di casa Lou
Patience, un commesso viaggiatore, l’ American way of life aveva fornito di una corporatura robusta, un volto allegro entro i limiti del sospetto, una fiducia nel presente e una vitalità che debordava da tutti i pori della sua persona. A Lou Pantience Sundblom allungò la barba e arroventò le guance, aumentò di qualche misura il girovita, sostituì gli abiti borghesi con la celebre casacca rossa e bianca, e così i cartelloni pubblicitari si riempirono di figure al limite dell’iperrealismo: fragorosamente comuni eppure in qualche modo provenienti da un altro pianeta (…).
L’ingresso di Santa Claus in Europa subito dopo la fine della guerra fu salutato con sospetto. Tra i vari episodi di “resistenza”, il più importante a livello simbolico rimane quello riportato da Lèvi-Strauss nel suo prezioso saggio Babbo Natale giustiziato Il successo con cui anche in terra transalpina Santa Claus andava diffondendosi rubando la scena a figure di più lunga tradizione fu interpretato come un sintomo della paganizzazione delle festività natalizie. La chiesa protestante si unì una volta tanto alle gerarchie cattoliche tuonando contro una coabitazione (quella del 25 dicembre) per descrivere la quale si ricorreva alla metafora del cuculo, che occupa un nido altrui a scopi usurpativi. La polemica si riscaldò con l’avvicinarsi del Natale tanto che, il 24 dicembre, la cattedrale di Digione fu teatro di un evento che sembrò una parodia dei roghi medioevali. Duecentocinquanta bambini vennero fatti radunare davanti al cancello della chiesa, dove un pupazzo di Babbo Natale fu prima impiccato, poi trascinato sul sagrato e qui bruciato pubblicamente come eretico. Al termine dell’esecuzione venne diffuso un comunicato in cui si diceva che: “In rappresentanza di tutte
le famiglie cristiane della parrocchia 250 bambini hanno bruciato Babbo Natale. Non si è trattato di un evento spettacolare ma di un atto simbolico. Babbo Natale è stato sacrificato in olocausto (…). Per noi cristiani la festa del Natale è e deve rimanere la ricorrenza che celebra la nascita del Salvatore”. A seguito di questa iniziativa la città si spaccò in due. Sacrificato davanti alla cattedrale, Babbo Natale venne fatto “resuscitare” il giorno dopo in Municipio.
– 05/12/2005
Sotto i baffi il “giallo” delle bollicine
– 03/12/2005
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– 19/11/2005
Come ti salvo la Coca-Cola
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La leggenda della bibita brutta, cattiva e scorretta