John Keats
La caduta di Iperione. Un sogno
A cura di Elido Fazi
Introduzione di Franco Buffoni
Testo inglese a fronte
Composto nel 1815 e rimasto incompiuto, The Fall of Hyperion rappresenta l’estremo tentativo di Keats di fondare una moderna mitologia poetica. The Fall of Hiperion riafferma generosamente la necessità dello sguardo poetico, non più “febbre di se stesso” ma concreta vicinanza al dolore del mondo, profezia del suo destino. “Perché solo la poesia raccontare può i suoi sogni, e con il puro incanto delle parole redimere può l’immaginazione da un’oscura malia, da un ottuso incantesimo”.
– 04/01/1995
John Keats, La caduta di Iperione. Un sogno
Si pubblica La caduta di Iperione di John Keats, in una bella edizione curata da Elido Fazi, con testo a fronte, un’utile introduzione di Franco Buffoni, e in appendice due lettere del poeta a John Hamilton Reynolds. The Fall of Hyperion: A Dream (1819) è un frammentario rifacimento di un altro frammento, quello Hyperion in cui Keats pochi mesi prima aveva rappresentato con grandiosità miltoniana la caduta di Saturno e die Titani (tra cui Iperione) e l’ascesa degli dei dell’olimpo. Lo Hyperion (come il King Lear, a cui rimanda da vicino la figura del detronizzato Saturno) presupponeva ancora la possibilità di una creazione poetica autonoma e autorevole, mitica, serena. Per Keats questa possibilità si dà solo per contrasto, assediata com’è da un’esperienza del creare di segno diametricamente opposto. The Fall fa strada al problema romantico della creazione-fuga: la spaventosa audacia dell’immaginazione determina un’angoscia che non dev’essere scavalcata ma tematizzata: la caduta di Iperione, un’alta tragedia” che si recita nelle “oscure stanze del cranio”, è forse un falling asleep, un sognare, un partecipare nella poesia. The Fall of Hyperion ci affascina perché nel contrasto tra il prologo e le sezioni tratte dalla prima stesura si coglie il farsi di una poetica nuova, una poetica del dislivello e della faglia. La prima stesura si interrompeva con l’apoteosi traumatica (un dying into life ) del dio dei poeti, Apollo; mentre in The Fall il trauma del farsi poeta si sposta all’esterno della cornice mitologica, nel prologo. Il momento chiave del poemetto forse non è una delle diverse prese di posizione filosofico letterarie, ma questa breve scena il narratore, giunto sulla soglia del tempio di Saturno (il luogo ove il sogno spalanca le porte del non-tempo e della poesia), si sente preso da un gelo mortale che lo ucciderà se non riesce a salire il primo gradino della scalinata. Trasumanato dal suo bisogno di sognare compie quel passo decisivo, attraversa l’agonia di un decisione – quella di non morire. Sembra quasi una crisi di astinenza, e forse lo è.Su questo Keats non ha cambiato idea: divenire poeta, come sognare, è un dying into life: un cadavere, morendo, nella vita.
– 05/04/1995
Keats e Iperione, desolazione di un sogno che svanisce
A un frammento interrotto del poeta John Keats affida la sua sentenza sul duro destino dell’incompiutezza
Un frammento nato dalle fessure di un progetto e della tregua di uno studio, un sogno incompiuto ma in grado di trasformare lo smarrimento nella più nitida delle meditazioni: lo sguardo degli dei non più distante, il dolore degli umani finalmente contemplato e condiviso, il destino elevato fino all’ “alta tragedia” della dignità. La caduta di Iperione di John Keats, non venne pubblicata se non nel 1856, trentacinque anni dopo la morte del suo autore e a lungo fu considerata un semplice esercizio preparatorio all’Iperione; in realtà come sottolinea Franco Buffoni nella sua attenta prefazione al libro, l’opera è comprensibile solo in un’ottica “di tensione verso un obiettivo morale altissimo”. Solo così questo “dono degli dei” riesce a fare del “caso e della disperazione” materia di poesia, solo così trasportata fino all’alta temperatura di una straziante lucidità interiore (di cui sono testimonianza le sue lettere in appendice), la sinopia ci appare più intensa e commovente del quadro.E’ del resto il destino di tanta poesia; come Petrarca sicuro di affidare la sua gloria all’Africa piuttosto che alle Rime, come Foscolo inchiodato al progetto delle Grazie, Keats scrive La caduta, di una concentrazione che nasce dal superamento della propria opera, della propria poetica, nello spazio di una libertà che sembra nutrirsi della grazia di un respiro.E’ il fuoco del libro: un io che riesce a contemplare il proprio dolore, come la discrezione dei segni sulle steli funerarie, poche linee sulla pietra a dire il lutto e il rimpianto. Il classicismo di Keats partecipa della solitudine di Filottete: l’intera esistenza raccolta sulla spina di un destino malato, lo sbocco di sangue che il piede ferito trascinato nel silenzio del mondo. In questo senso Iperione, uno dei Titani vinti dall’armonia, dal sole di Apollo, è la figura di un legame profondo con la terra, parte di zolla che beve il buio della radici, fermento notturno cui è affidata una possibile resurrezione, come il corpo scomposto di un cane che un giorno forse sarà un ciliegio. Chi scrive conosce la propria: il sogno stringe il fagotto della morte; se questa viene dilazionata, se il suo nodo per ora non si scioglie ciò accade per mostrare al poeta il lume spento della malinconia, il regno di Saturno, il duro destino della poesia. Eppure i primi versi sono nella cifra della bellezza e del tepore: L’estate di un paesaggio ampio e sereno fatto di platani e mirto e muschio, rampicanti e ghirlande, un corpo che prova fame e sete, che beve e si addormenta, ma è proprio l’oblio, la beatitudine a nascondere il pericolo dell’abbandono, il rischio per l’essere umano di svanire per sempre, più insignificante di un granello nella polvere. Solo chi è in grado di accettare l’angoscia del risveglio e della prova riesce a trasformare il sonno in visione, a contemplare la bellezza sul relitto di regni inabbissati: “… mi trovavo dinanzi al fianco scolpito di un vecchio santuario dal tetto così maestoso/ e costruito così in alto che un velo di nubi avrebbe potuto stendervisi sotto, come sopra stelle nel cielo”, leggiamo nella bella versione di Elido Fazi.Ciò che Keats enumera e vede potrebbe appartenere a una tomba ritrovata dopo secoli con gli oggetti accanto al morto: “Alla rinfusa lì giacevano/ vesti, incensiere, turibolo, fasce: tenaglie d’oro, catene, e gioie sacre.”. Al cospetto di questi strumenti, la poesia trova la sua voce più profonda e pronuncia con severità il suo statuto: fatica, ardore, consapevolezza del proprio nulla. Se nell’Iperione di Holderlin il sogno coincideva con il rifiuto della finezza, con quel complesso ritrarsi e abbandonarsi al fuoco che impediva all’eroe di “dormire nella penombra”, nella Caduta è la parola stessa a dover sostenere il peso della sua trasformazione, la verità di un tempo senza più rivolta.Il colloquio fra il poeta e Moneta è quello di un’agonia, l’incontro fra esseri uniti da una stessa desolazione, stoicamente preparati ad accettare la condanna a svanire. A Moneta, ombra di un rito, sacerdotessa di un dio sconfitto accanto al quale giacciono le armi spuntate di un passato eroico. Keats affida la sua sentenza: un’altezza che può essere “conquistata solo da coloro/ a cui i dolori del mondo rimangono/ dolori e non hanno tregua mai”. Per gli altri “deboli sognatori”, falsi poeti che affliggono il mondo non esiste che il sonnolento trascinarsi sulla terra. Nessuna lancinante visione ma giorni uguali gli uni sugli altri come indistinguibili foglie: questo, dice Keats è ciò che realmente si spegne, questo il castigo di chi fra i mortalion saprà salire fino all’aria rischiosa delle vette, rovesciando – come farà Marina Cvetaeva – la profondità dell’aria rarefatta della montagna. Nello spezzarsi del poema sull’immagine d’Iperione che avvampa si consacra l’incompiutezza di un volo, la tragedia di una lacerazione futura, la parola trattenuta in reticolo di linee, in una bava di colore, davvero come l’angelo di Klee che somiglia a un uccello, a quell’usignolo che canta, nel suo eterno fischio di luce tra i rovi.