Denis de Rougemont

Diario di un intellettuale disoccupato

COD: 8d5e957f2978 Categoria: Tag:

Collana:
Numero collana:
32
Pagine:
252
Codice ISBN:
8881120475
Prezzo cartaceo:
€ 13,00
Data pubblicazione:
01-05-1997

A cura di Carlo Laurenti
Traduzione di Manuela Maddamma

Diario di un intellettuale disoccupato è l’opera di una vita a rischio. L’autore si rifugia per sfida in un’isola incontaminata del sud-ovest francese, l’Ile de Ré. Il suo gesto nasce da una domanda: è possibile per un disoccupato intellettuale sopravvivere lontano dai grandi centri di cultura? De Rougemont ambienta in questo universo di contadini e pescatori il suo grande pari, la scommessa per un mondo futuro, prima ancora dell’estremo collasso del vecchio mondo. E sarà un’utopia rovesciata: anziché sognare dal centro un’isola periferica di splendida civiltà, s’immerge nella realtà problematica della periferia e dello spazio che è ancora da definire. Magistrale l’equilibrio tra la riflessione intima, con lampi di lirismo incantevoli nel dialogo con una natura spietata e sublime, la descrizione sapida e briosa di un quotidiano alle prese con i problemi materiali della sopravvivenza e il grande sforzo di pensare la propria missione, il senso civile della dignità umana.”Ecco il grande rovesciamento che segna la soglia della maturità: è il momento in cui si scopre che il mondo non riserva altre risposte se non quelle che si ha il coraggio di fornirgli”.

DIARIO DI UN INTELLETTUALE DISOCCUPATO – RECENSIONI

 

Giovanni F. Accolla, LIBERTA’

Il “Diario” dello scrittore Denis de Rougemont

GIOIE E DOLORI DI UN INTELLETTUALE CHE NON HA UN IMPIEGO FISSO

 

I cosiddetti piccoli editori, almeno in Italia, hanno diversi meriti; i più evidenti sono quelli legati ad una ricerca capillare di autori poco noti, ma per questo non meno importanti, di cui far conoscere le opere, il pensiero, tutta l’esistenza. L’editore Fazi, oramai piccolo soltanto per coloro che hanno parametri di grandezza che prendono in esame in modo prioritario il capitale sociale di un’azienda, ha dato alle stampe un bel volume dal titolo “Diario di un intellettuale disoccupato” (245 pagine, 26.000 lire), opera giovanile di Denis de Rougemont, scrittore svizzero di lingua francese scomparso alla metà degli anni Ottanta (era nato a Neuchatel nel 1906) dopo essere stato uno degli ispiratori delle più interessanti idee della cultura e della politica contemporanea, dall’unione dell’Europa e all’ecologismo come valore politico militante. Aver detto “opera giovanile” mi obbliga a mettere subito in evidenza un fatto peculiare di questo autore: giovane, nel senso più comune del termine, ovvero acerbo, Denis de Rougemont sembra non esserlo stato mai. Nel 1932, ossia a 26 anni, fondò con Emmanuel Mounier la rivista del personalismo “Esprit”; e “L’Amore e l’Occidente”; l’importante saggio psicologico, storico ed etico che più lo rese noto al grande pubblico, è del 1939, anno in cui de Rougemont aveva soltanto trentatré anni. Quando scrisse il “Diario”, ne aveva meno di trenta, ed essendo questa un’opera di transizione tra la giovinezza e la maturità per sua stessa ammissione, pare davvero che egli fosse arrivato con cospicuo anticipo a quella tappa esistenziale che il grande Conrad ha chiamato “La linea d’ombra”. Il “Journal d’un intellectuel au chomage” è il resoconto di una sua esperienza. Perduto il lavoro presso una casa editrice, de Rougemont decide di provare a vivere senza lavorare, trasferendosi su un’isola per dedicarsi completamente alla propria vocazione. Il libro è la cronaca asciutta (forse fin troppo secca, “dry” per dirla all’inglese) di questo esperimento che investe il doppio versante della vita e dell’opera. E’ il “diario non intimo” di un esiliato volontario che mai vuol cedere ad una consolazione estetica vagamente decadente, ma che, pur aborrendo le prese di posizione plateali e le forzature ideologiche, tenta di redimere il dissidio tra etica ed estetica in un’esistenza limpida in quanto morale. Come ogni intellettuale che ha deciso di innescare sull’albero della propria vita quello della propria opera, il frutto che de Rougemont raccoglie e ci dona è lo stile: lo stile che è, per decreto ancestrale, una scelta di vita. “I libri dovrebbero essere utili”, annota perentorio. “Dovrebbero contenere informazioni concrete, formule esatte, dimostrazioni verificabili, modalità d’impiego, descrizioni oggettive e praticabili; e questo a tutti i livelli del reale, nelle grandi cose, come nelle minime”. Nel vergare questo diario, il giovane scrittore obbedisce a un compito che, ancora una volta, si svolge su due differenti piani: sull’osservazione e sulla precisazione della condizione di intellettuale disoccupato, quindi un piano intellettivo e speculativo; e sulla dimostrazione concreta, attraverso l’esperienza e l’esempio – quindi con la pratica di vita – che non è impossibile vivere con poco e senza reddito fisso. Tutto ciò con l’imperativo di non scivolare mai nella cultura delle impressioni o del pittoresco. “L’intellettuale non sarà mai un disoccupato assoluto, dato che continua a pensare, cioè a esercitare il suo mestiere”, osserva de Rougemont. Ma “la disoccupazione declassa l’intellettuale. Essa lo pone su un piano di parità paradossale con gli uomini che lo circondano. Lo spoglia degli attributi esteriori del suo stato, di quell’habitus borghese che, ahimè, resta ancora da noi il marchio dell’intellettuale. E per questo motivo, il disoccupato intellettuale rischia perfino di apparire inferiore alla gente di mestiere tra le quali si trova a vivere”. Il giovane scrittore prova, infatti, non poca fatica a far comprendere ai contadini che abitano intorno alla sua casa sull’isola “che cosa” egli sia, cosa faccia per guadagnarsi quel sia pur poco pane che giunge alla sua mensa: ciò che più manca a un disoccupato è una funzione sociale, uno straccio di ruolo da esibire come garanzia della propria esistenza. Difatti, col solito tono pacato e semplice, de Rougemont fa un’osservazione finissima sulla povertà: “Non sarebbe un problema sociale così grave, se non fosse anzitutto un problema morale irrisolto”. Povertà per noi moderni non significa, come per i contadini d’un tempo, “pane e fatica”, bensì “umiliazione”. Con questo “Journal” si capisce come si possa uscire dalla città dove si fa carriera senza uscire dalla vita vera, e che si può vivere con molto poco senza per questo cessare di vivere pienamente. Per dirla con de Rougemont: “Ecco il grande rovesciamento che segna la soglia della maturità: è il momento in cui si scopre che il mondo non riserva altre risposte se non quelle che si ha il coraggio di fornirgli”. Dopo simili riflessioni si può ben tornare alla città rigenerati: la condizione di intellettuale disoccupato per de Rougemont durò un anno, di lì in poi università e accademie celebrarono il suo genio professionale. Nel 1940 andò a vivere negli Stati Uniti e in quel lungo soggiorno Oltre Oceano pubblicò “La part du diable”, sulla crisi della coscienza europea. Tornato in patria nel dopoguerra, da ardente federalista qual era fondò a Ginevra il Centro europeo della Cultura e scrisse (1954) “Federalismo e Nazionalismo”, seguito da “L’avventura occidentale dell’uomo”, “Ventotto secoli d’Europa”, “Le possibilità dell’Europa” e, nel 1970, “Lettera aperta agli Europei”. La stagione del “Diario” segnò certo il fiorire del primo seme.

 

Gian Paolo Serino, LA PROVINCIA

Pubblicato per la rima volta in Italia da Fazi illibro dello scrittore francese

L’intellettuale e l’isola che non c’è

Nel Diario di Rougemont l’impossibiltà di un rapporto tra élite e popolo

Io sono fatto di acqua. Non ve ne potete accorgere perché faccio in modo che non esca fuori. Tutti quanti siamo fatti di acqua. Il mio problema è che non solo devo andarmene in giro senza essere assorbito dal terreno ma, anche, che devo guadagnarmi da vivere”. Così scriveva Philip K. Dick in “Confessioni di un artista di merda”. ”Questo diario non avrà nulla di intimo, Devo guadagnarmi la vita, non restarla a guardare”, scrive invece Denis de Rougemont in “Diario di un intellettuale disoccupato” edito, per la prima volta in Italia, da Fazi (243 pagine, 26 mila lire). Il diario di Rougemont, datato 1933, è un viaggio in quel “borgo letargico” che è, molte volte, la mente umana. Direttore di una casa editrice parigina che in pochi anni fallisce, Rougemont si ritrova disoccupato e senza soldi. Decide allora di lasciare Parigi e di rifugiarsi all’Ile de Ré, un’isola del sud ovest della Francia. Può un intellettuale disoccupato sopravvivere lontano dai grandi centri di cultura? E’ quello che si chiede durante il soggiorno su questa “isola priva di risorse, in tutto simile ad un insediamento coloniale ai margini del deserto”. Da questa esperienza di vita povera, libera e solitaria, un’insularità non solo geografica ma anche morale, nasce il Diario, Rougemont, novello Thoreau, si trova di fronte a tre problemi fondamentali. Il problema materiale, se è possibile vivere “ai confini del più niente” senza un impiego e rendite fisse. Il problema psicologico, se un simile regime d’esistenza sia favorevole o no al concepimento di un’opera artistica. Il problema sociale, se i contatti inevitabili e quotidiani tra un “intellettuale” e gli abitanti si rivelino buoni, cattivi o indifferenti. Grazie a delle collaborazioni esterne con giornali e riviste la questione economica non si spinge mai più in là del pensiero. La risposta al problema psicologico la trova nell’esperienza e tra le pagine di Kierkegaard, che scriveva che “la landa sperduta e desolata favorisce lo sviluppo di pensieri potenti”. Il problema sociale è invece al centro di questo Diario che, in realtà, è proprio un saggio sul rapporto tra “l’intellettuale e il popolo”. Rougemont infatti non ama particolarmente gli abitanti dell’isola, per lo più contadini e pescatori, e loro lo odiano, lo considerano uno sfaticato. Rougemont non li capisce: “Pur aspirando ad esprimere, attraverso la scrittura, l’umanità intera, proprio l’atto di scrivere mi separa da molti uomini, dalla maggior parte di loro…” Rougemont vede e descrive “gente che si adatta alla propria condotta e al proprio ambiente come gli animali”. Gira per le strade e gli sembra di assistere ad un film senza colonna sonora: “Una vita priva di ritmo profondo, priva d’orizzonte, senza dimensione”. “Diario di un intellettuale disoccupato” è chiaramente una metafora. Metafora quanto mai attuale in un mondo in cui una sorta di inerzia sta prendendo piede: il cessare di cercare una spiegazione per le cose, il limitarsi a sopravvivere, a succhiare la vita, a morderla fino a farsi sanguinare le gengive, ma senza troppe domande. Alla fine Rougemont, rientrato a Parigi, terminò la stesura del Diario che venne pubblicato senza successo. Almeno non quello che, qualche anno dopo ottenne il famoso “Amore e Occidente”. Riuscì anche a trovare dei vicini di casa con cui poter parlare. Proprio dal rapporto con un dirimpettaio, nel ’45 a New York, nasceranno le “Lettere sulla bomba atomica”, cronaca delle discussioni con il vicino di pianerottolo Albert Einstein.

 

Carlo Carlino, GAZZETTA DEL SUD
– 08/06/1997

“Diario di un intellettuale” di Denis de Rougemont

In equilibrio fra idealità e noiose quotidianità

 

Ci sono autori che finiscono con l’essere identificati con uno solo dei loro libri, conchiusi in qualche centinaio di pagine frutto di una più lunga e complessa riflessione: è il caso di Denis de Rougemont, l’autore de ‘L’amore e l’Occidente’, un saggio molto noto e importante, ormai un classico, che l’ha consacrato alla posterità – in Italia lo ha pubblicato Rizzoli -. Autore di numerosi altri libri significativi, figura controversa e impegnata, de Rougemont oltre che per ‘L’Amore e l’Occidente’ è ricordato anche per il suo precoce rifiuto di quelle ideologie oggi tanto bistrattate, per il suo distacco da quelle categorie politiche che considerava insufficienti per cogliere nella loro pienezza i bisogni degli individui. Adesso l’editore romano Fazi manda in libreria il suo ‘Diario di un intellettuale disoccupato’, nella attenta traduzione di Manuela Maddamma e a cura di Carlo Laurenzi, autore anche di una bella postfazione (pp. 247, lire 26.000), ed è l’occasione per riscoprire questo autore anomalo morto nel 1985, antesignano dell’europeismo di cui fu un tenace sostenitore. Figlio di un pastore protestante, ottimo conoscitore del tedesco, ma dalla sensibilità tutta latina, Rougemont rifiutò subito ogni dicotomia tra destra e sinistra, vedendo nelle teorie politiche un’espressione della cultura borghese. Vi reagì nel 1934 con un “manifesto” originale e personalissimo, ‘Politique de la Personne’. Ma, fra l’altro, comprese anzitempo il valore dell’ecologia, fondando nel 1976 l’Ecoropa, l’Associazione ecologica europea. Ma a parte il suo pensiero, la cifra vera di de Rougemont si coglie attraverso le tante opere dimenticate, come questo ‘Diario di un intellettuale disoccupato’, nel quale lo scrittore forza i luoghi comuni e attraverso delle confessioni annotate senza una logica precisa definisce il nucleo principale del proprio pensiero e il ruolo dell’intellettuale. Un libro nato quasi come una “sfida”. Nel 1933, de Rougemont, direttore delle Editions Je Sers, rimasto senza lavoro a causa del fallimento della casa editrice, pensò di ritirarsi insieme alla moglie per quasi un anno nella minuscola e silenziosa Ile de Rè, nel sud-ovest della Francia. Il suo gesto fu occasionato anche da una domanda: è possibile per un disoccupato intellettuale sopravvivere lontano dai centri di cultura ? E qual è il comportamento che si determina in un intellettuale privato del proprio lavoro, senza nessun aiuto, o sostegno o relazioni importanti ? E’ una scommessa che investe un modo di vista, la concezione stessa dell’esistenza; una riflessione che invece di rivolgersi alla totalità della civiltà si racchiude in una estrema realtà periferica generando uno spazio e un modo di vedere le cose in maniera completamente diversa, senza più certezze. “Quanto ai miei pensieri, li occupo applicandomi a piccoli esercizi formali, che non hanno alcun rapporto con la mia bella vertigine di libertà”, scrive, registrando il nuovo squilibrio tra le idealità e la noiosa quotidianità, tra una traduzione, un articolo, una lettura e occupazioni legate a problemi materiali della sopravvivenza. Il grande sforzo di resistere tra i sogni e i problemi contingenti, tra le certezze della propria missione e le incombenze quotidiane – da coltivare l’orto a fare la legna -, si snoda così lungo pensieri che riflettono sempre il senso di una grande dignità umana e intellettuale, l’opportunità e la determinazione di una scelta di un impegno. In un dialogo spietato con se stesso e con il piccolo universo in cui è prigioniero: “Più cerco di precisare la mia condizione, più essa mi appare un paradosso”. Condizione che non inficia l’idealismo, il pensiero un po’ utopico di de Rougemont: “Se noi dobbiamo qualcosa a questo mondo, è la nostra volontà di cambiarlo, di conoscerlo, affinchè la nostra azione possa modificare la sorte delle sue vittime, tra le quali siamo noi”. Il ‘Diario’ si apre con una riflessione: “Non riesco a vivere da nessuna parte senza crearmi qualche possesso, per possesso intendo ogni cosa che si è capaci di adoperare a modo proprio, essendo io incapace di comprendere chi desideri ‘avere’ altrimenti. Possedere non è avere. Non vuol dire neanche avere l’uso eventuale di una cosa. Significa invece usare di fatto una certa cosa”. Confessione che chiarisce l’idea del pensiero di questo idealista il quale ricorda di essere proprietario solo di alcune valigie e di pochi vestiti; e di nient’altro se non della propria condizione e della propria libertà. Una conquista anch’essa, perché “la libertà non si improvvisa”. Non a caso Carlo Laurenti nella sua nota sottolinea come la lettura di questo libro contagia per “lo stato di perfetta spontaneità di quest’uomo che va incontro alle difficoltà quasi con gioia, per trarne vantaggio, insegnamento, saggezza”. Un insegnamento che riesce a trasmettere ben oltre l’esperienza personale e i segni del tempo, i valori di un’epoca; perché se quei valori oggi sembrano perduti, insieme al fare e alla dignità intellettuale, ci sono per fortuna dei quaderni di lettura, dei diari, degli specchi in cui ritrovarli e apprezzarli.

 

Alessandro Zaccuri, AVVENIRE
– 06/11/1997

L’apprendistato di De Rougemont, l’autore di “L’amore e l’Occidente”

La sfida di Denis: penso dunque lavoro

Nel “Diario di un intellettuale disoccupato”, che si risale agli anni 30, lo scrittore si misura con il paradosso della propria condizione

A metà degli anni Sessanta viveva a Leningrado un giovane poeta destinato a far parlare di sé. Scriveva versi e ne traduceva altri dall’inglese, rivendicando il diritto di guadagnarsi da vivere esclusivamente con la propria attività. Scelta scandalosa per il regime comunista, che infatti punì il giovanotto con un clamoroso processo per parassitismo sociale e con una relativa condanna ai lavori forzati. Il “fannullone” si chiamava Iosif Brodskij, futuro premio Nobel per la letteratura. Trent’anni prima del famigerato processo a Brodskij, un altro giovane scrittore aveva condotto un esperimento molto simile, cercando di sbarcare il lunario da “disoccupato”, con i soli compensi racimolati attraverso traduzioni e collaborazioni giornalistiche. Fino a scoprire che un intellettuale non può mai essere veramente disoccupato, perché la sua occupazione consiste nel pensare. E di pensare, stipendio o non stipendio, non si smette mai. Protagonista di questa avventura per molti aspetti emblematica fu Denis de Rougemont, autore di un libro celebre e ammirato anche in Italia come “L’amore e l’Occidente” (la traduzione, di continuo ristampata nella Bur, porta la firma di Luigi Santucci), ma per il resto poco conosciuto nel nostro Paese. Stranamente, verrebbe da aggiungere, visto che molti dei temi che gli furono cari – dal federalismo all’europeismo, dall’ecologia alla polemica nei confronti della scuola pubblica – sono più che mai al centro del dibattito politico e culturale. Nei prossimi giorni Fazi pubblica appunto la prima edizione italiana del “Diario di un intellettuale disoccupato” (a cura di Carlo Laurenti, traduzione di Manuela Maddamma, pagine 252, lire 26.000), resoconto dell’esilio volontario che De Rougemont si impone all’inizio deli anni Trenta tra l’Ile de Ré e il MIdi, lontano dalle mondanità e dagli snobismi della Rive gauche parigina. Nato nel 1906 a Couvet, nel cantone svizzero di Neuchatel, De Rougemont deve buona parte della sua formazione al padre, un pastore protestante fortemente impegnato sul piano sociale. Esordisce nel 1929 con un pamphlet su “I misfatti della pubblica istruzione” e due anni dopo si stabilisce a Parigi, dove dirige Je Sers, una combattiva casa editrice il cui fallimento è all’origine del suo esperimento “autarchico”. Il De Rougemont disoccupato che nel novembre del 1933 approda all’Ile de Ré (la stessa isola, annota Laurenti nella densa postfazione, dove due secoli prima Laclos aveva scritto “Le relazioni pericolose”) ha comunque già compiuto la parte più importante del suo percorso intellettuale. Ha letto Kierkegaard e sta traducendo Karl Barth, è stato tra i fondatori di riviste come “Esprit”, “L’Ordre Nouveu” e “Hicet Nunc”, un piccolo periodico di dichiarata ispirazione protestante destinato a fare da veicolo tra l’altro, all’ingresso del pensiero heideggeriano in terra di Francia. É un anticonformista, come i suoi amici Emmanuel Mounier e Robert Aron, ma di un anticonformismo profondamente radicato nella Bibbia (l’ottavo capitolo della “Lettera ai romani”, il testo decisivo della teologia paolina, è uno dei leitmotiv del “Diario”). Insomma, De Rougemont è quasi pronto a spiccare il grande salto rappresentato da “L’amore e l’Occidente”, che verrà pubblicato nel 1939, pochi mesi prima che l’autore venga richiamato in servizio dall’esercito svizzero. Destino paradossale e rivelatore per un libro che trae le fila della tradizione culturale europea proprio nel momento in cui questa viene messa in estremo pericolo dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Nel tragitto intellettuale di De Rougemont l’anno abbondante di “disoccupazione” – non troverà un impiego stabile fino al 1935 – rappresenta non una pausa, ma una svolta. Lo scrittore ha già formulato i presupposti del personalismo, un movimento che, nato come reazione ai totalitarismi d’inizio secolo, fornirà più di uno spunto all’esistenzialismo (“Sartre sapeva benissimo da dove aveva attinto espressioni come “impegno dello scrittore” e “uomo libero e responsabile” – commentava indispettito l’ormai anziano De Rougemont – e me lo disse chiaramente a New York. Ma non l’ha mai ripetuto a Parigi, a quanto pare”). Immerso nei rituali spesso incomprensibili della provincia, dove le condoglianze non sono considerate tali se non vengono espresse tra le mura della casa colpita dal lutto, ha modo di saggiare la bontà delle sue intuizioni, a partire dall’importanza del linguaggio. “Il popolo così come lo vediamo – annota nel “Diario” -, sembra ignorare completamente i suoi veri interessi. Ma dipende dal fatto che non può esprimerli agevolmente”. Nasce da qui la battaglia contro i gerghi devianti della politica e del giornalismo, l’insofferenza per ogni retorica, il tentativo di trovare uno stile affrancato da ogni compiacimento letterario. Impresa ambiziosa, non meno dello stringato programma di sobrietà che De Rougemont stila appena giunto sull’Ile de Ré. “Istruzioni per vivere con poco. La prima condizione è di guadagnare poco”. Un “articolo unico” di schietto radicalismo evangelico che forse contrasta con la parabola seguita dallo scrittore nel dopoguerra, quando l’impegno europeista lo porta a essere “ingoiato dai comitati”, secondo la perfida espressione di Jean Paulhan (morto nel 1985, De Rougemont è stato tra l’altro il primo presidente del Consiglio d’Europa). Anche il Brodskij del dopo Nobel, del resto, suscitava invidie e maldicenze. Chissà perché, ma in questo mondo è più facile contestare la ricchezza che perdonare la povertà.

 

Idolina Landolfi, IL DIARIO DELLA SETTIMANA

 

Intellettuali / 2. Consigli per restare nella vera vita senza soccombere all “scrittura alimentare”

 

Nel 1933, a ventisette anni, Denis de Rougemont, svizzero trapiantato a Parigi – dove partecipa attivamente a quella rivoluzione intellettuale che faceva capo alle riviste “Esprit” e “L’Ordre Nouveau”, e dirige la casa editrice di testi filosofici Je sers – decide, dopo il fallimento di quest’ultima, di ritirarsi con la moglie in volontario esilio sull’Ile de Ré, a sud – ovest della Francia, di fronte a quella che fu (nessuna coincidenza!) la roccaforte ugonotta di La Rochelle durante la Guerra dei Trent’Anni. Il futuro retorico dell’amour – passion ( il famoso saggio “L’amour et l’Occident “ esce nel 1939) intende affrontare, lontano dall’ipocrita e per tanti versi vuoto modo intellettuale parigino, “un’esperienza forzata di vita povera, libera e solitaria”, e descriverla, traendone un bilancio per tutti utile, nelle pagine di un diario appunto, che non dovrà – tale l’imperativo categorico – avere nulla del diario intimo, quanto piuttosto configurarsi come una sorta di vedemecum per intellettuali desiderosi di provare, a se stessi e agli altri, che si può uscire dalla “carriera” senza necessariamente uscire dalla “vera vita”. Ma quale sarebbe, poi, questa fantomatica “vera vita”?, si chiede lo scrittore. Anche questo é un trabocchetto, una trovata per chi cerca un alibi. “(…) non spero più, come a vent’anni, d’incontrare la “realtà” o la “vera vita””, annota de Rougemont “in non so quale imboscata del destino, come a dire nel folto di un bosco. Io credo che la realtà sia a portata di mano, e non si trovi che lì. Si tratta allora soltanto di assicurarsi la presa di questa mano. E’ il compito di una certa pazienza, o di un’impazienza dominata – e senza dubbio soltanto la povertà poteva utilmente obbligarmici”. Dunque la letteratura in primo luogo come alcunché di utile: niente autocommiserazioni, “stati d’animo improbabili o eccessivi, (…) indiscrezioni imbarazzanti delle quali non si sa bene cosa fare”. Ma pagine “militanti”, che tentino di fornire risposte sulla propria esistenza inserita in un contesto sociale. De Rougemont insiste – a differenza della maggior parte degli intellettuali della sua generazione; preda di un indomabile solipsismo – sul concetto di interrelazione: ad una visione goethiana, secondo la quale “vedere bene vuol dire accordare la propria anima alle dimensioni delle cose viste”, egli contrappone la tensione individuo – società, il cui scopo non é quello di realizzare se stessi, quanto di “edificare un mondo nuovo che infine ci sembri accettabile”. Così, in questa cronaca di un anno, si alternano pagine, di grande intensità e bellezza, sul paesaggio che lo circonda: l’oceano che, quasi un fratello maggiore, “sussiste come un grande e solenne sottinteso in ogni pensiero”; a pagine sui libri letti, da cui sempre egli trae un insegnamento di vita: Goethe, Kierkegaard, Cartesio; e ancora resoconti minuzuosi sui piccoli lavori di giardinaggio, sulla vecchia gallina che imprevedibilmente si mette a far le uova. Ma soprattutto sui più o meno bizzarri abitatori del vicino villaggio legati ad una civiltà – contadina marinara – in notevole ritardo rispetto alla sua contemporanea. Con essi l’autore intavola lunghe discussioni, sovente disperando di farsi capire (uno scrittore? cosa significa davvero, per quella gente, fare lo scrittore? ) , e registra fedelmente le frasi che lo colpiscono, le espressioni dei volti. “La gente”, “Contatti con la gente” sono i titoli dei paragrafi che li riguardano. E poi affascinanti utopie, come quella di una distribuzione della ricchezza sui generis: “Darei quanto più possibile a coloro che chiedono molto, situandosi in tal modo in una categoria spiritualmente inferiore (salvo eccezioni! ); darei assai poco agli intelletuali e agli artisti (…)”. Ovunque lamenta però la mancanza di denaro, manda articoli e traduzioni “alimentari”, attendendo poi spasmodicamente la relativa rimessa; e quando essa tarda ad arrivare, occorre chiedere credito da pizzicagnoli e droghieri…Ma “non bisogna entrare in collera nel mese di gennaio” scrive giudiziosamente. “E’ una stagione astratta, non si arriva a nulla”.

 

Enzo Siciliano, L’ESPRESSO
– 08/07/1997

 

Marxisti senz’anima

 

Denis de Rougemont, nato in Svizzera nel 1906 ( é morto dodici anni fa), appartiene a quella schiera di saggisti la cuo origine o il cui modello sta in Montaigne. De Rougemont ha scritto un libro fortunato e mirabile, “L’Amore e l’Occidente”: visione critica della cultura europea, sondata nei comportamenti e nelle espressioni amorose, o in quell’ “invenzione particolarissima” che é la “passione coniugale”. Difensore delle autonomie locali, é stato uno degli europeisti più convinti, anticipando esigenze ora invocate per nutrire di valori lo spirito di Maastricht. Leggiamo oggi in italiano un libro giovanile di de Rougemont, “Diario di un intellettuale disoccupato”. Era il 1933: sposato da poco, rimasto senza lavoro a Parigi, con la giovane moglie, lo scrittore decise di vivere con pochissimo rifugiandosi sull’Ile de Ré, un isolotto situato di fronte a La Rochelle. Dell’anno passato in eremitaggio tenne il diario, un libro ricco di spunti e riflessioni, penetrante per acume. De Rougemont polemizzava con il razionalismo ridotto a metafisica positivista, con coloro che enfatizzavano “il ruolo pratico della ragione”; e polemizzava anche con i vitalisti, il cui “creare” figli e progetti avrebbe avuto come sbocco obbligato “la guerra”. Era appunto il 1933, e de Rougemont scriveva: “Il problema é trovare dei mezzi “politici” che impediscano a questa prestanza, a questo guscio del rischio, di trasformarsi automaticamente in guerra. E’ tutto qui il problema della rivoluzione europea”. La polemica si rivolgeva anche al marxismo, che “non muove dalla coscienza globale” che gli uomini hanno della loro condizione ( “il gioco delle relazioni umane e delle opinioni politiche”), ma, sosteneva de Rougemont, “dalle statistiche e dai rapporti matematici”.

 

MUSICA ROCK & ALTRO

 

Denis De Rougemont Diario di un intellettuale disoccupato / Fazi

 

“Si direbbe che l’uomo non è fatto per durare: la vita immobile ci annoia, mentre ci commuove ciò che nasce e muore”. Questa frase di Denis de Rougemont, tratta da “Diario di un intellettuale disoccupato” (pp. 2458, 26.000 lire), poteva essere posta a epigrafe del “Salone del libro” dedicato all’immortalità. Il soggiorno volontario nel 1933 (insieme alla moglie) su un’isoletta francese, questo esperimento di “vita pura, libera, solitaria”, senza un lavoro fisso e cercando di vivere con poco, indurranno nell’autore del fondamentale “L’amore e l’occidente” luminose riflessioni su politica, letteratura e altro. Nelle pagine di questo diario troviamo non un elogio ipocrita della povertà, ma l’esperienza concretamente vissuta di quella “gioia naturale” che solitamente “non vale nulla nei nostri calcoli”.

 

Paolo Mauri, LA REPUBBLICA

 

Quando gente fa rima con niente

 

Ci sono libri che si mangiano i lor autori e pretendono di rappresentarli in tutto e per tutto: è un pò il caso di L’Amore e l’Occidente, un saggio importante, un classico, ormai, che in qualche modo “nasconde” il suo autore, Denis de Rougemont. Che srcisse anche altri libri e fece molte cose, ma che per quel libro è ricordato. Ora capita che l’editore Fazi pubblichi il suo Diario di un intellettuale disoccupato, ed ecco un’occasione per un incontro ravvicinato. Come nel suo libro maggiore, de Rougemont si sforza di leggere dietro le parole, di “forzare” i luoghi comuni. Il Diario si apre con una riflessione sul posseso delle cose: riflessione necessaria, ma non drammatica, nel momento in cui dichiara: “non possiedo che delle valigie, di che vestirmi e qualche libro”, ma aggiunge”possedere non è avere”, piuttosto adoperare, usare di fatto una certa cosa. Ad un certo punto (di questo solo volevo qui accennare) de Rougemont commenta un perenne luogo comune: “Gli editori si sforzano di rispondere alle domande del pubblico. ci vogliono libri facili, libri allegri… Ma sanno davvero cosa la gente domanda, e perché lo domanda?…la gente non domanda quel che ha l’aria di domandare, e che ci si affretta ad offrirle a buon mercato. In realtà, si esprime male, tradisce il proprio pensiero… La si è persa in giro… come se il fine dei fini fosse quello di prendere in parola dei pover’uomini preventivamente abbrutiti dalla scuola, dalla stampa, dai partiti e dal cinema”. Anche oggi, sessant’anni dopo, si sentono ripetere le stesse cose, con gli aggiornamenti del caso. In nime dei gusti presunti della gente, delle sue attese, si fa di tutto, si giustifica tutto. E si sente dire di ogni scemenza che ha successo: però, se tanta gente lo ha comprato qualche cosa dentro lo deve avere. La gente come alibi. Il niente come alibi.

 

Claudia Gualdana, IL SOLE-24 ORE

Esce in traduzione italiana il “Diario di un intelletuale disoccupato”

Pensieri scritti al crepuscolo

 

Che l’Europa unita sia un concetto stratto, una teoria dalla difficle applicazione pratica, ormai é un dato evidente. Ciò nonstante, molti continuano a credere a questo bel sogno, a sperare che non siano i “grigi ragionieri” a determinare le sorti del Vecchio Continente. Alludiamo anche a speranze antiche, non solo a quelle dell’ultima ora, macchiate dall’incubo del debito pubblico e dalla crescente disoccupazione. Uno dei primi europeisti convinti, per una beffa della sorte, conobbe la disoccupazione e la collocò al centro di un libro denso di riflessioni e di voli pindarici tra i grandi della cultura occidentale. Fu Denis de Rougemont (Neuchatel 1906 – Fernay – Voltaire 1985), delle cui opere riscopriamo con piacere la modernità, a gettare per primo il sasso nelo stagno, ottenendo una serie di cerchi che non hanno cessato di ampliarsi né di amplificarsi. Il suo ingresso nella posterità é legato a “L’amore e l’Occidente” (1939), il suo capolavoro, ma anche al precoce rifiuto delle ideologie, dunque al distacco dalle categorie politiche, troppo rigide per interpretare fedelmente i bisogni degli individui. Esemplare di europeo perfetto, francese figlio di un pastore protestante, ottimo conscitore del tedesco, ma dalla solarità tutta latina, de Rougemont capì anzitempo quanto fosse sterile la dicotomia tra destra e sinistra. non poté evitare di vedere nella politica vigente un prodotto borghese, una mera teoria, a cui reagì nel 1934 con “Politique de la personne”, un manifesto del Personalissimo in risposta alle astrazioni ideologiche. Capì anzitempo anche il valore dell’ecologia, meta ideale che coronerà nel 1976, con la fondazione di Ecoropa, l’Associazione ecologica europea. Ma il fascino di un intelletuale come de Rougemont non si coglie nel momento dei trionfi, bensì nell’anonimato dei tempi rispettabili, quando le sue idee, oggi nell’occhio del ciclone, erano quanto di più impensabile, nell’Europa dei nazionalismi. “Diario di un intelletuale disoccupato”, frutto di riflessioni maturate nel 1933, anno in cui, rimasto senza lavoro, si ritira nel silenzio dell’Ile de Ré, é la confessione asistematica di un intelletuale. Qui si trovano, a livello embrionale, i nuclei portanti del suo pensiero, di cui non possiamo che verificare la forte valenza politica e civile. Nella postfazione Carlo Laurenti ricorda un episodio significativo della vita di de Rougemont. La sera del solstizio del 1938 egli si reca all’Opéra di Parigi, dove ascolterà le note del Tristano di Wagner, e scrive il curatore: “Al secondo atto, quando dall’alto della Torre d’Aurora Brangania canta l’ecco che / già la notte cede al giorno” egli rompe in lacrime; che più di lui poteva comprendere il senso profondo di questo canto, cifra della sindrome della “Europa”?”. E la sindrome Europa cominciò a muovere i primi passi proprio all’Ile de Ré, isola minuscola dove de Rougemont si diletta a studiare i comportamenti umani, e a capire che il concetto di “popolo” e “massa” elaborato dagli intellettuali nasce da inutili astrazioni. Idealista, e non poco utopista, egli stupisce per la fiducia nelle potenzialità occidentali; egli é giovane per definizione, come dimostra chiaramente questo frammento del diario: “Se noi dobbiamo qualcosa a questo mondo, é la nostra volontà di cambiarlo, di conoscerlo, affinché la nostra azione possa modificare la sorte delle sue vittime, tra le quali siamo noi”. Per de Rougemont l’orrore non aveva connotazioni politiche: esso governava laddove andava scemando il rispetto delle singole volontà a favore di un progetto spersonalizzante. Non a caso l’intelllettuale detestò Hitler ma, al contempo, non fu avaro di parole dure per gli adepti del marxismo: “Il marxismo muove dalle statistiche e dai rapporti matematici. Si considera dunque scientifico. Non muove da ciò che gli uomini vogliono essere, dalla coscienza globale che essi hanno della loro condizione(…). Il marxismo tratta tali questioni come sottigliezze vane, illusioni, ovvero “mistificazioni”. Muove piuttosto da ciò che gli uomini sono loro malgrado, dal punto di vista astratto e disumano della Statistica”. de Rougemont fu il grande anticipatore della caduta dei nazionalismi e delle ideologie e, tutto sommato, ci risolleva pensare che non sia più qui, ad assistere anche alla caduta dei suoi ideali. In ogni caso, le parole del diario si aprono a un sogno: quello di oltrepassare le barriere erette dalle ideologie e dall’economia.

Diario di un intellettuale disoccupato - RASSEGNA STAMPA

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