Paul Horsfall
La pietra di paragone
Traduzione di Isabella Ciapetti
Nella notte di Capodanno del 2000, che è anche la vigilia del suo centesimo compleanno, Seymour Bazett si sta scavando la fossa in giardino. Seymour ha con la terra un rapporto speciale: da sempre seppellisce i ricordi che hanno segnato le tappe della sua esistenza, e tutto ciò che tocca gli svela i suoi segreti. Così la storia di Seymour si sovrappone a quella dell’Australia, con le sue più appariscenti contraddizioni. In un’atmosfera di realismo magico, al piccolo grande vecchio resta un’ultima soglia da attraversare: seppellire se stesso, ultimo oggetto da dimenticare per confondersi nel tutto e ritrovare la pace.
«…uno splendido Bildungsroman che intreccia lo svilupparsi della coscienza del protagonista con quello di una nazione che faticosamente cerca uno spazio nel mondo …le vicissitudini di Seymour sono così radicate nella terra da diventare emblematiche del legame profondo e magico che unisce ogni australiano alle stratificazioni del mondo».
Renzo S. Crivelli, «Il Sole 24 Ore»
«…un libro pieno di incanto e ironia».
Chicca Gagliardo, «Glamour»
– 01/12/2005
La Pietra di Paragone
Nella notte di Capodanno del 2000, che è anche la vigilia del suo centesimo compleanno, Seymour Bazett si sta scavando la fossa in giardino.
Da sempre, l’uomo coltiva questo rito: seppellire i propri ricordi.
Nella terra, infatti, risiedono le tappe della sua vita, ciascuna contrassegnata da un oggetto diverso, pietrificato sotto la superficie delle cose, dove ancora scorre la vita.
Il 31 dicembre, dunque, Seymour si vede costretto a rievocare per un’ultima volta tutta la sua esistenza, intrecciata con la terra stessa e, quindi, con il suolo del suo paese. Il suo compito più grande, e anche quello più difficile, sembra essere anche l’ultimo, e quello di trovare un posto anche per il suo povero corpo, seppellire se stesso per confondersi nel tutto e ritrovare la pace.
– 05/01/1999
Quel che resta di un romanzo
Si segue la trama fino alla fine. Si chiude il volume e lo si mette via. E poi? Quali scene, atmosfere restano impresse nella mente? E quali nei ricordi di chi ha scritto la storia?
Arrivato alla vigilia del suo centesimo annodi vita. Seymour Bazett comincia a scavare in giardino. Dalla terra riemergono tutti gli oggetti più strani che ha seppellito nel corso del tempo: fazzoletti, portaombrelli, persino unghie. Pezzi di ricordi, tasselli che ricompongono il puzzle della sua esistenza. Un libro pieno di incanto e ironia, opera di un esordiente australiano che si dichiara nato in una zona a luci rosse di Sidney. Quello che resta La tentazione di fare come Bazett: di raccogliere gli oggetti che un giorno potrebbero parlarci di noi. Ma a nostro rischio e pericolo. “La verità è lì, che mi piaccia o no”, dice il personaggio. “Le pietre mio ricordano che ho passato troppa parte della mia vita a evitare esperienze dolorose nell’unica maniera che conoscevo: seppellendole sottoterra, per scoprire solo più tardi che là sotto si erano mineralizzate e di conseguenza preservate, come sempre succede alla verità”.
– 05/09/2000
La Pietra di Paragone
Dell’Australia non sappiamo quasi nulla, se non che è la terra dei koala e dei canguri, di Nick cave e di Warren Ellis, del boomerang come strumento primordiale di caccia e della vela come sport nazionale (acquisizione recente, l’ultima, dovuta alla febbre di Luna rossa…); Finalmente c’è un romanzo che, per quanto magico e stravagante, prova a ricostruirne la storia moderna a partire dal 1901 (anno d’entrata della nazione nel Commonwealth) ed a svelarci gli antichi, irriducibili riti degli australopitechi. Il nostro Virgilio è un longevo Seymour Bazerr sul punto di scavarsi letteralmente la fossa alla rispettabile età di cento anni; l’attività gli è particolarmente congeniale, dal momento che ha trascorso tutta la vita a coltivare, scavare, seppellire nel giardino di casa uno sterminato repertorio di trofei, pegni, memorie e souvenirs di amori e dolori, parenti e serpenti di una lunga storia familiare. Come nella più brillante tradizione latino-americana (Garcia Màrquez, Isabel Allende) o indiana (Rushdie, Mistry), con l’aggiunta di tanta incontenibile ironia, la saga dei Bazerr si snoda lungo un intero secolo attorno a un nonno col pollice verde allegramente dedito all’onanismo, a un fratello terribile che sopravvive al tetano ma non alla guerra mondiale, a una sorella “sensitiva”, a un ruvido baleniere con doti di ostetrico, a una maestra cattiva, a una fidanzatina ninfomane e a un amore platonico finito tra le fiamme. Le pietre, che per così lungo tempo hanno accolto e maternamente custodito i testimoni di storie dolorose e surreali, teppistiche e incresciose , nella prima notte del 2000 riaffiorano alla superficie recuperando alla vista e alla memoria ciò che era stato seppellito (per essere rimosso) e che adesso ritorna prepotentemente, ancora preservato e vitale come ogni verità. Ogni cimelio racchiude un pezzo di vita: i fazzoletti ripieni di sperma rimandano all’educazione sentimentale di Seymour, le carote di forma perfetta a un’imbarazzante esperimento botanico (il tubero fallico!), i trofei del battesimo al sacramento impartito sbrigativamente dal nonno a suon di sputi, la collezione di serpenti al medico e alle sue figlie, l’occhio cavato alla maestra a un episodio macabro ispirato al comandamento biblico “occhio per occhio” , e così di seguito tante altre storie ai limiti della realtà, del tutto esotiche e selvagge se non fosse che incrociano la Storia dei momenti più tragici: il Massacro di Gallipoli del corpo militare dell’ANZAC durante la prima guerra mondiale, le lotte degli anni Trenta per le pensioni e i sussidi, l’annuncio dell’entrata in guerra accanto al Regno Unito dopo l’invasione della Polonia da parte tedesca.La molteplicità di voci, fonti, eventi, registri stilistici fa del libro di un debuttante dall’età indefinita (le note in quarta di copertina non si sbilanciano in proposito) un ottimo romanzo di cosiddetto “realismo magico” e, al contempo, un curioso studio antropologico, un romanzo di formazione surreale quanto le “Opinioni” di Tristram Shandy, un bellissimo ritratto di famiglie come il nostro cinema e la nostra letteratura occidentali non conoscono più.
Nell’emisfero australe
Ma il primo grido sale dalla terra
Nel romanzo di Horsfall lo sviluppo di una nazione che conserva ancora i segni di una ritualità primitiva
Nella terra del deserto e della roccia, tra cui spicca solitaria, solitaria e rosso cangiante come in una fluida prospettiva, la grande concrezione di Uluru (meglio nota come Ayers Rock), sono sempre le pietre a parlare. il loro linguaggio è fatto di saggezza e conoscenza, poiché esse sanno raccontare l’intera forza del globo, dalle antichissime ere del paleozoico o del mesozoico fino ai giorni nostri. La terra in questione è l’Australia, dove il tempo si è accumulato sulla ruvida pelle degli uomini e dove tutto è pietra di paragone, vale a dire «tramite» tra le stelle e al sostanza organica che racchiude le anime dei mortali, fra le speranze di riscatto degli aborigeni e quelle di reale «civilizzazione» dei bianchi discendenti dai colonizzatori.A riscrivere questa storia, che è poi quella dell’Australia pre e post-coloniale, ci hanno provato molri narratori e poeti del novecento: basti citare il premio Nobel Patrick White che nel suo romanzo Voss, sostituisce all’ipocrita esaltazione coloniale una duplice, spietata analisi della «desertificazione» dello spirito operata all’interno della cultura urbana, oppure Lesley Murray, che alal fine degli anni settanta recupera nel verso inglese i song cycles aborigeni per raccordare presente e passato e avviarsi a un linguaggio australiano autonomo. Il loro esempio, in direzione d’una produzione tematica e stilistica «esterna» alla tradizione europea, è stato seguito da altri autori delle generazioni più recenti, tra cui spicca Paul Horsfall. Di lui esce ora in Italia l’intenso romanzo d’esordio: La pietra di paragone, pubblicato in lingua inglese nel 1995.Che cosa in quest’opera avvalora la sua assoluta «australianità»? Innanzitutto la costruzione, che è stroicamente orientata. L’arco temporale della narrazione, infatti, spazia attraverso i cent’anni del protagonista, l’irriducibile Seymour Bazett, che scorgiamo nelle pagine d’esordio ancora rattrappito – ma ben deciso con il cordone ombelicale fra le mani, a farsi spazio nella vita – dentro le viscere materne. La sua nascita ambientata nel 1901 in una Sydney durante una manifestazione per l’inaugurazione del Commonwealth, viene aiutata dal provvidenziale intervento d’un baleniere del Murrumbridge emerso dalla folla per ribaltare, con le sue rugose braccia, la posizione podalica del piccolo. Ed acquista subito un significato simbolico. Il secondo vede l’ingresso dell’Australia in un sistema economico che rafforza i suoi legami con la vecchia Inghilterra, ma Seymour emerge in una realtà ben diversa di cui aveva avuto consapevolezza sin nel buio placentare, quando aveva appreso la dura legge delle lotta per la spartizione del cibo con i fratellini («Improvvisamente seppi che altri avevano occupato il mio alloggio davanti a me. Non ero il primo»).La pietra di paragone è uno splendido bildungsroman che intreccia lo svilupparsi della coscienza del protagonista a quello di una nazione che cerca uno spazio nel mondo (a partire dalla disastrosa partecipazione al massacro di Gallipoli del corpo militare dell’Anzac durante la prima guerra mondiale) e che altrettanto faticosamente vive negli anni trenta tutte le lacerazione politiche d’una gracile democrazia attraversata da fermenti operaisti e da duri ripiegamenti repressivi. Ma le vicissitudini di Seymour, che lentamente si trasforma in «grande vecchio» e che alla fine del romanzo decide autonomamente di «prepararsi l’eterno giaciglio» nell’orto della sua modesta casa alla periferia di Sydney, sono così radicate nella terra da diventare emblematiche del legame magico e profondo che unisce ogni australiano alle stratificazioni del suolo. Seymour sin da bambino ha un rapporto privilegiato con la materia. In lui le pietre parlano sempre parole di «persistenza» e di avvertimento; per questo le colleziona nell’orto assieme alle svariate «sepolture» di oggetti della quotidianità carichi di significati magici (una magia che evoca la dimensione tribale degli aborigeni). Pietre e oggetti simboleggiano lo stemperarsi nella terra delle generazioni: dal nonno James, all’allegro «onanista» in grado di rievocare inconsciamente i riti di fertilizzazione, alla giovane sorella Dymphna, incapace di sopportare il peso delle proprie premonizioni e morta suicida. In quel microcosmo in cui Seymour seppellisce anche la pietra di paragone, sono raffigurate tutte le contraddizioni dell’Australia, ma anche le tappe essenziali della crescita di un uomo.
– 03/01/1999
La pietra di paragone
Arrivato alla vigilia del suo centesimo anno di vita, Seymour Bazett comincia a scavare in giardino. Dalla terra riemergono tutti gli oggetti più strani che ha seppellito nel corso del tempo: fazzoletti, portaombrelli, persino unghie. Pezzi di ricordi, tasselli che ricompongono il puzzle della sua esistenza. Un libro pieno di incanto e ironia, opera di un esordiente australiano che si dichiara nato in una zona a luci rosse di Sydney. Quello che resta La tentazione di fare come Bazet: di raccogliere gli oggetti che ogni giorno potrebbero parlarci di noi. Ma a nostro rischio e pericolo. “La verità è lì, che mi piaccia o no”, dice il personaggio. “Le pietre mi ricordano che ho passato troppa parte delle mia vita a evitare esperienze dolorose nell’unica maniera che conoscevo: seppellendole sotto terra, per scoprire solo più tardi che là sotto si erano mineralizzate e di conseguenza preservate, come succede sempre alla verità”.
Frammenti di fedeltà al sottosuolo
Strana la vita, e stranissima la autobiografia di Seymour Bazett. Un racconto visionario e brutale, che arriva al lettore attraverso la mediazione delle pietre nascoste del giardino in cui, fin da bambino, il protagonista ha sepolto i ricordi della sua travagliata esistenza. È lo stesso pezzo di terra dove adesso, nell’ultima notte del Duemila, l’uomo si prepara a inumare se stesso, vecchio australiano nato il 1° gennaio dell’anno 1900 nelle strade di una Sydney in festa per la creazione del Commonwealth. Tutta la sua vita, del resto, è misteriosamente legata ai grandi avvenimenti che scandiscono la storia del nostro secolo. Basti ricordare come Dymphna – la sorella prediletta, dotata di una preveggenza complementare al “dono” di Seymour, che invece sa ascoltare il linguaggio segreto degli oggetti – muoia suicida lo stesso giorno in cui l’Australia si trova coinvolta nella guerra contro Hitler. Venticinque anni prima un altro fratello, Nathaniel, era caduto nella mattanza di Gallipoli, assumendo come per magia le fattezze di quella morte che lo aveva irresistibilmente attratto fin da ragazzo lasciando Seymour in preda alla furia del dolore e della solitudine. Non è un libro per tutti lettori, «La pietra di paragone», impegnativa opera prima dell’australiano Paul Horsfall ora tradotta in italiano da Isabella Ciapetti. E non è soltanto per la sensualità esplicita ed esasperata di molti passaggi, del resto necessari per ribadire il carattere “terreno” (nel senso di una fisicità greve e irrinunciabile) del protagonista. Non è un libro per tutti, perché si pone sul crinale tra realismo e allucinazione, costringendoci a guardare il mondo con gli stessi occhi di Seymour, il cui sguardo riesce a distinguere le presenze ancestrali che dal «bush» incombono sull’esibita rispettabilità borghese di un’Australia in corsa verso la globalizzazione. Il destino di Seymour si colloca all’opposto, nella fedeltà al sottosuolo nel quale l’uomo sostiene di essersi rifugiato per quasi trent’anni: «Realizzai qual era il mio vero talento: negare al tempo le sue vittime, mettere da parte i più fragili oggetti e indurirli fino a farli diventare indistruttibili». Finalmente conseguita questa consapevolezza, Seymuor si scopre capace di strappare allo spettro del fratello Nathaniel un bambino destinato a soccombere, esattamente come aveva fatto con lui, tanti anni prima, lo strano vagabondo che , solo tra la folla, aveva capito che il piccolo era nato morto. Ed è proprio questo paradossale e sofferto elogio della vita – simboleggiato dalla “pietra di paragone”, il frammento di meteorite che Seymour riceve in dono dal nonno sboccato e sapiente . a riscattare il romanzo di Horsfall dal rischio di apparire una resa incondizionata alla crudeltà e alla follia.