Paolo Cacace

L’atomica europea

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I progetti della guerra fredda, il ruolo dell'Italia, le domande del futuro

Collana:
Numero collana:
82
Pagine:
300
Codice ISBN:
8881125269
Prezzo cartaceo:
€ 20,00
Codice ISBN ePub:
9788876252631
Prezzo eBook:
€ 6.99
Data pubblicazione:
18-06-2004

Prefazione di Sergio Romano

Il primo libro che rivela, con l’ausilio di numerosi documenti diplomatici inediti, gli aspetti segreti, i retroscena militari, industriali e strategici del piano di armamento nucleare voluto da Francia e Germania agli inizi della guerra fredda. Un fondamentale excursus storico-politico delle vicende legate all’atomica europea dagli anni Cinquanta a oggi. Ma la questione dell’atomica europea – cioè di un evento che avrebbe potuto cambiare la storia politica dell’intero pianeta – viene inquadrata da Cacace, sulla base di una rigorosa documentazione, nella sfida nucleare russo-americana, sin da quel giorno di luglio del 1945 quando Truman ricevette alla Conferenza di Potsdam l’annuncio della riuscita del primo esperimento atomico americano. Il volume ripercorre tutte le tappe del confronto nucleare dal secondo dopoguerra ai giorni nostri mostrando come il “fattore atomico” abbia costituito una discriminante fondamentale nell’orientare i rapporti internazionali della guerra fredda. Ecco, dunque, che dalle vicende di ieri si passa al grande dibattito dell’oggi e del domani, sulla possibilità di un’atomica europea e sulla necessità o meno di una partecipazione dell’Italia al progetto. È giusto che l’Unione Europea rinunci a qualunque prospettiva di costituire una forza nucleare comune oppure la presenza all’interno della UE di due nazioni, la Francia e la Gran Bretagna, che già dispongono di armi atomiche può rappresentare la base per un deterrente nucleare europeo? Nel momento in cui la proliferazione si espande a macchia d’olio e coinvolge numerosi paesi, tra cui i cosiddetti “Stati canaglia”, è giusto lasciare agli Stati Uniti totale ed esclusiva libertà d’azione? E ancora: nei difficili rapporti euro-americani sulla difesa europea, quale ruolo può giocare la questione nucleare? Questi e molti altri interrogativi si pone L’atomica europea, che è anche un prezioso manuale di studio, utile per comprendere molti aspetti cruciali dell’integrazione europea.

L’ATOMICA EUROPEA – RECENSIONI

 

Sergio Romano, CORRIERE DELLA SERA
– 05/11/2007

 

1957: una bomba atomica per l’Europa

 

 

 

Dino Pesole, IL SOLE 24 ORE
– 03/10/2004

 

Fallimento di un progetto esplosivo

 

Tra il 1957 e il 1958, quando è il «fattore atomico», pur con fasi al-. terne di disgelo, a dominare i rapporti tra le due superpotenze in quella che Henry Kissinger ha definito una storia di distruzioni annunciate e fortunatamente «non avvenute», i governi di Francia, Germania Occidentale e Italia avviano una complessa operazione politica, diplomatica e militare per costruire una bomba atomica in comune.
Nella fase preliminare delle trattative, sembra farsi strada la certezza che la comunanza di intenti dei tre Paesi, se pur originata da motivazioni del tutto differenti, possa trovare nell’atomica europea un fertile terreno d’incontro. La Francia è alle pre-” se con una Quarta Repubblica ormai agonizzante, e deve far fronte a un diffuso malumore intemo per la mancanza di un appoggio strategico della Nato in Africa e nella guerra civile algerina. La Germania vjve nell’angoscia del pericolo sovietico, l’Italia cerca un riscatto a livello internazionale che infranga il duopolio sancito da Yalta.
L’ambizioso progetto vive fasi alterne. Fino’a quando Charles de Gaulle, tornato nel 1958 al potere in Francia, non cala definitivamente il sipario sull’atomica europea, per privilegiare il progetto di una. farce de frappe tutta francese. Ma quali furono le^ vere ragioni del fallimento? Quali i com-~ plessi giochi politico-diplomatici che si intrecciarono nelle tre capitali europee? A svelarci particolari inediti di questa complessa vicenda, poco nota anche perché coperta per anni dal segreto militare, è il libro di Paolo Cacace, editorialista del Messaggero, L’Atomica europea. I progetti della guerra fredda, il ruolo dell’Italia, le doman– de del futuro (Fazi editore, pagg, 258, € 19,50).
Come ricorda Sergio Romano nella prefazione, è il govèrno francese presieduto dal socialista Guy Mol-let a tirar fuori dal cassetto nell’autunno del 1956 il Progetto di collaborazione tripartita atomica in campo militare, già ampiamente discusso nei mesi precedenti.
E non a caso la proposta viene formalizzata all’indomani del fallimento della spedizione anglo-francese a Suez, a confermare che «la piccola guerra scatenata contro l’Egitto dalle due potenze europee con la complicità di Israele dopo la nazionalizzazione del Canale disposta dal presidente egiziano Gamal Abdel’Nasser, fu, insieme a quella di Corea, il primo grande spartiacque della politica internazionale nel secondo dopoguerra».
La svolta è dell’estate del 1957, quando viene sperimentato il primo missile intercontinentale sovietico, cui segue in ottobre la messa in orbita dello Spulnik-1.
Nell’Occidente si scatena una sìndrome da Peal Harbor spaziale. Il protocollo tripartito firmato il 28 novembre daJ’mini-stro della Difesa italiano, Paolo Émilio Taviani, dal collega francese Jacques Cha-ban-Delmas e tedesco Franz Josef Strass, prevede un’ampia cooperazione «per le applicazioni militari dell’energia nucleare». Ma a Parigi l’apparato diplomatico del Quai d’Orsay, preoccupato dei contraccolpi dell’accordo nei rapporti con gli Stati Uniti, si oppone senza mezzi ‘termini. A Bonn il cancelliere Adenauer è più cauto del suo ministro della Difesa e mantiene stretti contatti oltreoceano. Anche da Roma si moltipllcano le rassicurazioni al potente alleato americane. Dopo una fase di incertezza, neO’aprite del 1958 il progetto riprende quota, con questa ripartizione delle spese: 45% rispettivamente per Francia e Germania, e il 10% per l’Italia. A quel punto i giochi sembrano fatti. Passa un solo mese. Charles de Gaulle ritorna al potere. L’accordo trilaterale viene affossato. Annota Taviani nei suoi diari: «Con l’avvento del generale, i nostri incontri si conclusero nel nulla». Anche l’Italia, con il nuovo governo presieduto da Amintore Fanfani, innesca la retromarcia e il successivo governo Segni, insediatosi nel febbraio del 1959, concede il via libera allo schieramento nel nostro Paese dei missili statunitensi a medio raggio, della classe Jupiter.

 

Luciano Garibaldi, SECOLO D’ITALIA
– 31/07/2004

 

Atomica, un dibattito ancora aperto

 

Autentico scoop storico sugli anni della guerra fredda, e specchio imparziale delle problematiche che ci attendono. Così può essere definito il saggio di Paolo Cacace, apprezzato editorialista del «Messaggero» e studioso delle vicende europee, che ha per titolo: «L’atomica europea: i progetti della guerra fredda, il ruolo dell’Italia, le domande del futuro», con prefazione di Sergio Romano (Fazi Editore, Roma, 256 pagine, euro 19,30). Nella seconda metà degli Anni Cinquanta, come rivela Cacace sulla base di inoppugnabili documenti d’archivio, tre Paesi euro-..pei, e precisamente Francia, Germania e Italia, cercarono di trovare un accordo per procurarsi un armamento atomico «autonomo», cioè” indipendente dagli Stati Uniti d’America. Il tentativo si sublimò in un incontro al vertice dei tre ministri degli Esteri del tempo, ossia Jacques Chaban-Delmas, Franz Jo-sef Strauss e Paolo Emilio Ta-yiani. Gli aspetti segreti, i retroscena militari e industriali (ad esempio la centrale che doveva sorgere a Pierrelatte, in Francia) sono il ghiotto argomento della prima parte del h’bro.
L’intesa – che poi falli, e vedremo il perché – nacque all’indomani della débàcle franco-inglese contro l’Egitto per la minacciata nazionalizzazione del canale di Suez da parte del Cairo. Com’è noto, gli inglesi e i francesi sbarcarono ad Alessan-dria d’Egitto, ma furono sconfitti sul campo. Contemporaneamente, l’Urss approfittava di questa crisi politico-militare dell’Occidente per saldare i conti con la riottosa Ungheria e invadere Budapest, massacrando il governo presieduto da Imre Nagy e migliaia di insorti ungheresi. LAmerica si guardò bene dall’intervenire, sia in difesa di Budapest, sia soprattutto in appoggio degli alleati franco-inglesi. E questo fatto, Londra e Parigi non lo mandarono giù. Per questo iniziarono i contatti segreti con l’Italia in vista di procurarsi la bomba atomica. Il negoziato – come racconta Cacace – durò due anni, fino al 1958. Poi fallì, subito dopo il ritorno al potere di De Gaulle. Fu lui che, improvvisamente, decise di troncare i rapporti. Lui voleva una «force de frappe» tutta sua. E d’altra parte i tedeschi non erano troppo convinti di dover dipendere da una fabbrica situata in territorio francese.
Nella prefazione al volume, Sergio Romano osserva che, anche fallito l’accordo tripartito, l’Italia avrebbe potuto sviluppare una sua autonoma politica «atomica», anche in senso non esclusivamente militare. «Esistevano in Italia, negli Anni Sessanta», osserva Sergio Romano, «le condizioni per una politica nucleare che avrebbe permesso al Paese, tra l’altro, di affrontare con maggiore tranquillità e indipendenza le grandi crisi energetiche del 1973 e del 1979». Ma i governi italiani, da Fanfani a Segni, erano troppo proni ai voleri e ai desideri americani, e pertanto consentirono l’installazione dei missili americani Jupiter in funzione antisovietica sul nostro territorio, rinunciando implicitamente alla prospettiva di una «bomba» italiana, proprio nel momento in cui Francia e Gran Bretagna, autonomamente, se ne dotavano. E poco dopo di esse, anche Israele, la Cina, il Sudafrica, l’India, il Pakistan. «Fu quello il momento», ricorda Romano, «in cui Stati Uniti e Unione Sovietica capirono di avere gli stessi interessi e si accordarono per lavorare assieme a un trattato che avrebbe vietato la proliferazione delle armi nucleari». Molto di ciò che accadde negli anni successivi, -osserva ancora l’ex ambasciatore – compreso il fatale referendum del novembre 1987 con cui i programmi del “nucleare civile” in Italia furono resi impossibili, fu il risultato delle grandi rinunce degli Anni Cinquanta e Settanta. Dopo essere stato uno dei Paesi più avanzati e intraprendenti nel campo delle ricerche nucleari, l’Italia, smantellò progressivamente le sue migliori istituzioni e uscì da uno dei settori più decisivi e importanti della scienza moderna.
Dal canto suo, Paolo Cacace, nei capitoli finali del libro (quelli dedicati a Bush, Putin e gli Stati-canaglia, e all’Europa nucleare: sì o no?), rileva come il crollo dell’impero comunista abbia ridotto notevolmente il peso della sfida nucleare russo-americana. È incominciato, finalmente, nella stagione del dopoguerra fredda, un percorso virtuoso che sta portando America e Russia a impegnarsi per ridurre sensibilmente, di migliaia di testate atomiche, i rispettivi arsenali.
George W. Bush e Vladimir Putin sembrano intenzionati a realizzare con maggiore determinazione quegli accordi di riduzione e di limitazione delle armi strategiche la cui strada era stata tracciata sin dagli Anni Settanta da Nixon e da Brez-nev. Ma la proliferazione nucleare non è affatto cessata. Al contrario, il numero degli Stati detentori di armi atomiche è cresciuto negli ultimi anni esponenzialmente. In aggiunta, fiorisce la categoria dei cosiddetti «Stati-canaglia», nazioni che dispongono o ambiscono a disporre di armi nucleari e contro le quali si indirizzano i piani strategici americani, soprattutto dopo il trauma dell’I 1 settembre 2001.
In tale contesto, l’Unione Europea quale atteggiamento conviene che assuma? La questione nucleare, infatti, è ben presente all’interno dell’Unione, non fos-s’altro perché, come abbiamo visto, due dei suoi componenti, Francia e Gran Bretagna, da tempo dispongono di bombe atomiche. Quale tipo di responsabilità e di presenza l’Unione Europea vuole avere sullo scenario internazionale? «Questo volume», conclude Cacace, «non vuole e non può suggerire risposte definitive. Ma fornire gli strumenti per favorire un dibattito di fondamentale importanza».

 

Giorgio Battistini, LA REPUBBLICA
– 12/08/2004

 

Quando l’Europa voleva l’atomica

 

Ci fu un tempo in cui la Germania aspettava il sì dell’Italia per accodarsi ed eventualmente concordare. E la Francia, agl’inizi di quella stessa stagione politica, contava sull’Italia per meglio resistere alle pressioni delle due superpotenze, in attesa d’un autonomo decollo. Qua-rant’anni fa. Ben altro il peso specifico dell’Italia rispetto a oggi. Tutt’altra considerazione in l’Europa, allora.
Era l’alba della guerra fredda, anni in cui Germania, Francia e Italia (autunno del ’56) lavoravano a un progetto comune per un’atomica europea. Lo rivela uno studio diPaolo Cacace, commentatore di politicaeuropea del Messaggero (L’atomica europea, Fazi editore, pagg. 300, euro 19,50) che attingendo a una «documentazione in larga misura inedita, egrazie alle testimonianze d’uno dei protagonisti del progetto, l’allora ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani che sotto -scrisse l’intesa insieme a Jacques Chaban-Delmas e Franz Josef Strauss» racconta origine e declino dell’accordo col quale i tre paesi cercarono di dotarsi d’un armamento nucleare autonomo. Operazione conclusa e archiviata a causa forse di un eccessivo anticipo sui tempi, del ritorno di De Gaulle al potere (deciso a consegnare alla sola Francia i benefici d’una «force de frappe» per dare credibilità alla sua orgogliosa diplomazia), delle timidezze italiane, delle oscillanti ambizioni tedesche. E del confronto totale est-ovest appena cominciato al-l’ombradiYalta. Il progetto aveva preso quota dopo il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez, con Parigi impegnata nella guerra d’Algeria e irritata dall’assenza Nato in quel piccolo conflitto, con gli Usa indaffarati con la guerra di Corea. Fondamentale il contesto postbellico e già neobellico. Il progetto rivelò anche, avverte Sergio Romano nella prefazione al libro, che «esistevano in Italia, negli anni Sessanta, le condizioni per una politica nucleare che avrebbe permesso al Paese di affrontare con maggiore tranquillità e indipendenza le grandi crisi energetiche del ’73 e del 79». Per lacronaca (e la storia), treni’ anni dopo quel temerario progetto politico-militare un referendum in Italia avrebbe messo al bando l’uso anche pacifico del nucleare.
Storicamente parlando, la rivelazione c’è tutta. Una vicenda scritta e rimossa. Una lettera sul caminetto sotto gli occhi di tutti ma mai aperta. Nel ’75 il Parlamento italiano approva il Trattato dì non proliferazione nucleare e il ministro degli Esteri Mariano Rumor cita in Parlamento il suo predecessore Giovanni Medici che nel ’68 definiva alla Camera «fondamentale» per l’Italia la compatibilita del Trattato stesso con la «costruzione di un’entità europea che abbia diritto allo sta-tusnuclear e». La rinuncia all’atomica italiana che verrebbe meno se la Comunità europea (allora non ancora Uè) «decidesse di dotarsi nel suo interno d’uno status nucleare». Rinuncia certificata dal governo Segninelfebbraio ’59 quando autorizzò Washington a installare gli enormi missili Jupi-ter in Italia, in Sardegna.

 

Vittorio Dell’Uva, IL MATTINO
– 04/10/2004

 

Anni ’50, il sogno italiano dell’atomica

 

sembra un «giallo» politico-diplomatico, ricco di intrighi, retroscena e colpi bassi. Ma i nomi dei protagonisti sono tutt’aitro che di fantasia. Come non lo è la storia che Paolo Cacace, editorialista del «11 Messaggero», racconta nel suo L’atomica europea (Fazi Editore, pagine 256, euro 19,50) con cui sottrae alla polveredegli archivi una verità ai più assolutamente sconosciuta e di cui ha trovato traccia nei dossier della politica e della diplomazia. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, alcuni Paesi dell’Europa occidentale cercarono di dotarsi di un armamento nucleare autonomo. All’appello fu chiamata anche l’Italia, che – fattasi intraprendente dopo le ferite e le umiliazioni del dopoguerra – rispose. Sia pure
con cautela.
Paolo Cacace, autore di vari saggi storici, non fa gossip navigando tra l’ampia documentazione emersa da un lungo lavoro di ricerca e traendo l’essenziale dalle testimonianza dei protagonisti del progetto, tra cui il ministro della Difesa dell’epoca. Paolo Emilio Taviani, che sottoscrisse un «accordo tripartito» con icolle-ghi Jacques Chaban Delmas, francese e il tedesco Franz Josef Strauss. Non sono certamente i pettegolezzi che gli interessano. Piuttosto da ricercatore e da studioso della realtà contemporanea delinea con una analisi approfondita tutto il contesto internazionale nel cui ambito il sogno atomico dell’Italia si è sviluppato. Fino alla sua archiviazione almeno per quanto riguardava il suo aspetto militare, con l’adesione nel 1975 al Trattato di non
proliferazione. Una scelta cui avrebbe fatto seguito, un’altra, non meno rilevante, dieci anni più tardi, con l’uscita del nostro Paese anche dal club del nucleare a scopi civili.
Nella prefazione, Sergio Romano molto caustico nei confronti della classe politica, definita «fragile ed oscillante», asserisce che le due grandi rinunce hanno provocato un danno irreparabile per il nostro Paese. Cacace usa più il bisturi che l’accetta. È panilo dai giorni del dualismo sovietico-americano sfociato poi nella «guerra fredda», ha esplorato le crescenti «riserve» nucleari di Paesi terzi’e di Israele, trova che la questione resti apena in un contesto che, dopo mille trasformazioni geopolitiche, vede l’Europa «potenza economica, ma nano militàfe».-È in prospettiva intravede, anche alla luce di recenti dibattiti che comunque non portano in pole position il partito del nucleare, la prospettiva di un ripensamento dell’Italia. «Ad un deterrente europeo potremmo pur sempre contribuire» sottolinea l’autore, ricordando che «nel firmare il Trattato di non proliferazione il governo italiano ottenne di apporre in calce una clausola in virtù della quale la nostra panecipazione sarebbe possibile se l’Ue decidesse di dotarsi di uno strumento nucleare comune». L’atomica europea, da qualche giorno in libreria, offre molte possibilità per un acceso dibattito.

 

Aldo Rizzo, LA STAMPA
– 04/08/2004

 

L’Europa e l’atomica che non poté avere

 

L’«ATOMICA europea», che da il titolo a questo nuovo litro di Paolo Cacace, è l’arma di cui progettarono di dotarsi insieme, quasi mezzo secolo fa, la Francia, la Germania occidentale e l’Italia (non senza interesse da parte di Belgio, Olanda e Lussemurgo, il che voleva dire i sei soci fondatori dell’appena nata Comunità). Se il progetto si fosse realizzato, com’era tecnicamente più che possibile, è chiaro che sarebbe cambiata tutta la storia dell’integrazione europea, e dei rapporti dell’Europa con l’America e con il resto del mondo. Evidentemente, il progetto fallì, e con esso l’ambizione di un’identità politico-militare del Vecchio Continente in quanto tale.
E’ una vicenda poco nota, pur se un po’ se n’è parlato e scritto, anche in occasione, tre anni fa, della morte del senatore Paolo Emilio Taviani, che era all’epoca ministro della Difesa e partecipe, con i colleghi Jacques Chaban-Delmas e Franz Josef Strauss, delle discussioni al riguardo. E’ una vicenda poco nota, dice Sergio Romano nella prefazione al libro di Cacace, perché «rimossa», perché il nucleare è diventato un tabù, specie in Italia, il nucleare non solo militare ma anche civile, col risultato che abbiamo armi atomiche sul nostro territorio, ma americane, e dipendiamo per l’energia elettrica da centrali nucleari pochissimo distanti (quanto a sicurezza ambientale], quelle francesi.
Fu dunque l’Italia’a sabotare l’accordo che sembrava segretamente delinearsi tra il 1957 e il 1958? Non esattamente. Decisivo fu il ritorno al potere di Charles de Gaulle, che giudicò (peraltro correttamente, dal punto di vista politico-strategico) che non si potesse dare il possesso e la minaccia d’impiego di un’arma «assoluta» in assenza di un’effettiva, comune, autorità decisionale. E di fatto lui vedeva solo un’autorità francese. Ma anche l’Italia post-degasperiana non ebbe il coraggio di andare oltre i primi approcci e di resistere alle pressioni contrarie di Washington.
Paolo Cacace è un noto giornalista e uno storico affermato (due condizioni che raramente coincidono). Nel raccontare questa specie d’intrigo internazionale, di cui è evidente l’interesse, egli fa ricorso a entrambe le doti. Come giornalista, spiega con linguaggio piano gli avvenimenti, anche inserendola nel più ampio quadro della Guerra fredda e del «disordine» che ne è seguito, come storico fa un uso rigoroso degli archivi diplomatici, dei documenti ora disponibili.
Resta una questione di fondo. L’«eurobomba» è ancora attuale? Quell’occasione perduta di mezzo secolo fa potrebbe essere recuperata? L’autore non lo esclude. Due singoli Paesi, la Francia e la Gran Bretagna, sono potenze nucleari, e da lì potrebbe nascere (rinascere) qualcosa. Sono congetture difficili, in un’Europa tuttora in bilico tra sovranazionalità ed egoismi, mentre l’eurobomba sarebbe lo strumento e persino il simbolo di una compiuta unità politica. Domani, chissà.

 

Vincenzo Vasile, L’UNITÀ
– 08/09/2004

 

QUANDO L’ITALIA SOGNO’ L’ATOMICA

 

Immaginatevi un fungo atomico sovrastato dalla bandiera europea. Per qualche tempo questo convitato di pietra poco rassicurante (e per questo motivo occultato alla vista delle opinioni pubbliche europee) s’è seduto al tavolo della politica internazionale. Un libro di Paolo Cacace, editorialista de Il Messaggero , L’atomica europea , (Fazi editore, pagine 260, euro 19,50) riporta alla luce alcune pagine poco note o dimenticate di questa vicenda. Prima fra tutte, il progetto giunto a metà degli anni Cinquanta, dopo trattative segrete e intricati giochi diplomatici, in avanzato stadio di elaborazione per dotare un terzetto di stati europei di un armamento nucleare autonomo (s’intende, autonomo dall’egemonia statunitense). Del tentativo si sapeva qualcosa, ma quel che è meno noto è che l’Italia vi ebbe un ruolo.
Si era in piena guerra fredda, nell’autunno 1956. nel giro di un paio di anni la stessa logica della contrapposizione bipolare dei due blocchi fece fallire l’operazione. L’iniziativa – come si narra nel volume di Cacace – fu presa dalla Francia del socialista Guy Mollet e dalla Germania e coinvolse, per l’appunto, il nostro Paese.
Le spese e gli investimenti avrebbero dovuto essere affrontati per il novanta per cento da Francia e Germania e per il residuo dieci per cento dall’Italia, ma soprattutto l’operazione nasceva in funzione di netta ripulsa dell’egemonia americana, dopo il fallimento dell’avventura anglo-francese di Suez: se l’Inghilterra di Harold MacMillan decise in quest’occasione che quello che Sergio Romano nell’introduzione definisce il “rapporto speciale con gli Stati Uniti”, il governo francese, al contrario, “decise testardamente che soltanto l’arma atomica le avrebbe permesso di piegare la testa di fronte all’America”. E propose un “patto tripartito”, ovviamente segretissimo, a Germania e Italia.

Se è vero che la nostra partecipazione sarebbe stata di modeste dimensioni, ciò non toglie che l’occasione avrebbe offerto all’Italia “la possibilità di acquisire informazioni e materiali” importanti in un settore di punta della ricerca. E’, del resto, proprio in quegli anni – anche sulla spinta di questi negoziati che avvenivano nel chiuso delle cancellerie – che vengono costruiti i primi impianti italiani – a Latina, nel Garigliano, a Trino Vercellese – destinati alla produzione di energia “civile”. Ma pochi sanno di questo retroscena “militare” dello sviluppo del nucleare italiano, che il libro ricostruisce attraverso numerosi documenti diplomatici e di archivio.
Già nel 1958 il piano dell’atomica europea veniva accantonato, con il ritorno di Charles De Gaulle al potere all’Eliseo: secondo il generale, infatti, la potenza nucleare non poteva essere amministrata in condomini, e Parigi avrebbe dovuto dotarsi di una force de frappe nazionale. Dunque, contrordine: l’atomica europea non avrebbe visto la luce. Anche i due partner facevano cadere l’atomica nell’ultimo cassetto.
Secondo l’autore, proprio in queste pagine è da ritrovare l’origine della dipendenza energetica e militare europea e – in dimensione ancor più accentuata – italiana. E un giudizio sostanzialmente liquidatorio viene dedicato da Romano e Cacace ai successivi movimenti pacifisti ed ecologici, al referendum 1987 (dopo il disastro di Chernobyl) e ai trattati di non proliferazione che negli anni successivi hanno definitivamente sotterrato l’illusione dell’atomica europea.
E’ anche vero però, però, che lo schema ritenuto unanimamente valido fino agli anni Ottanta, secondo cui con il crollo dell’Urss si sarebbe messo fine alla corsa agli armamenti, è saltato. In Europa riprende – al cospetto della minaccia del terrorismo internazionale – il dibattito sulla “sicurezza”, e il libro di Cacace rispecchia una scuola di pensiero che affida nuovamente al rilancio del nucleare e alla costruzione di una forza militare credibile e integrata il compito di colmare una lacuna essenzialmente politica: l’assenza, cioè, di una forte e unitaria politica estera europea.
Di là dagli aspetti tecnici e specialistici, ciò che il libro forse trascura di dire è che quarantacinque anni dopo, tale obiettivo è confinato ancora una volta nel regno delle utopie dalla politica dei governi più ottusamente transatlantici: stavolta al fianco dell’Inghilterra nella corsa alla corte di Bush s’è ritrovata proprio l’Italia di Silvio Berlusconi, e non sembra realistico prevedere che l’”atomica” possa fare da surrogato alla “politica”.

 

 

Antonio Spinosa, AVANTI
– 25/07/2004

 

La storia dell’atomica europea

 

Da una vivace prefazione di Sergio Romano è presentato ai lettori un bel libro di Paolo Cacace, editorialista del “Messaggero”, che ha per titolo “L’atomica europea” sui progetti della guerra fredda e sul ruolo dell’Italia: una storia “paradossalmente ignota” ai più. Il libro (edito da Fazi al prezzo di 19,30 euro, pp. 296) affronta, come reca il sottotitolo, i progetti della guerra fredda, il ruolo dell’Italia e le domande del futuro.
L’autore ci ricorda lo shock subito da milioni di italiani il 30 settembre del 2003 quando la maggior parte di essi rimase senza energia elettrica a causa di un black-out. E ciò avvenne perché le centrali idroelettriche italiane, da sole, non sono sufficienti a sostenere il fabbisogno energetico di un paese che pur ambisce a mantenere un posto fra i grandi della Terra. Ciò ha riaperto un’annosa querelle sulla possibilità di riattivare alcune centrali nucleari, come quella di Caorso o di Trino Vercellese. L’Italia chiuse definitivamente il capitolo sul nucleare con i cinque referendum votati nel novembre del 1987: era trascorso poco più di un anno dall’immane disastro di Cernobyl, in Ucraina, con il triste bilancio di quindicimila vittime e milioni di contaminati in mezza Europa. A gestire quell’inversione di rotta della nostra politica energetica fu il governo presieduto dal democristiano Giovanni Goria che sospese immantinente tutti i progetti di costruzione di altre centrali termonucleari previsti dal Programma Energetico Nazionale. Fu una scelta saggia?
Cacace risponde con un’osservazione fatta in proposito nel 1990 dall’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti: “Se andiamo a rileggere gli atti delle polemiche parlamentari attorno al problema del nucleare c’è da arrossire collettivamente non solo per la mancanza di senso scientifico, ma anche per la miopia delle decisioni prese”.
Eppure in pochi sanno che negli anni Cinquanta L’Italia fu partecipe di un importante e segretissimo programma di ricerche in ambito nucleare con la Francia e la Germania Occidentale. Soltanto oggi cominciano a riemergere molti documenti sigillati come top secret grazie ai quali Cacace ha potuto ricostruire l’intricata storia dell’atomica europea che si svolse negli anni più tesi della Guerra fredda.
Il mondo aveva conosciuto per la prima volta la potenza distruttiva provocata dalla scissione dell’atomo con le due bombe sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto del 1945. Da quel momento gli arsenali americani, prima, e quelli sovietici, poi, si rimpinguarono di testate nucleari tanto da far temere una terza guerra mondiale, sfiorata per poco nei tesissimi giorni della crisi di Cuba nell’autunno del 1962.
Quando nell’estate del 1957 i sovietici misero in orbita la navicella Sputnik 2 con a bordo la mitica cagnetta Laika, l’Europa del patto Atlantico si rese conto del serio pericolo che correva. Fu allora che il premier del governo francese, il socialista Guy Mollet, propose all’Italia e alla Germania di collaborare a un progetto di armamento atomico che potesse servire da salvaguardia comune. Era il 28 novembre del 1957 quando a Parigi, i ministri della Difesa dei tre stati, Paolo Emilio Taviani, Jacques Chaban-Delmas e Joseph Strauss, firmavano un Protocollo tripartito denominato “Fig”, dalle iniziali dei paesi aderenti, che Prevedeva un’ampia e articolata cooperazione per 1e applicazioni militari dell’energia nucleare”.
In Italia erano in pochi a conoscere quegli accordi. Oltre al ministro Taviani ne erano informati il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e il capo del Governo Adone Zoli, alcuni militari e l’onnipotente capoccia dell’Eni, Enrico Mattei, i cui spregiudicati accordi di quegli anni con l’ente petrolifero iraniano avevano creato forti attriti con l’America del burbero presidente Dwight Eisenhower.
Nel giorno di Pasquetta del 1958, a Roma, i firmatari del Protocollo tripartito si accordavano in via definitiva per l’apertura di un impianto atomico in cui produrre l’uranio arricchito: il luogo prescelto fu Pierrelatte, in Francia. L’Italia avrebbe contribuito alle spese con il 10 per cento, gli alleati con il restante 90. Da quel momento le tre nazioni sarebbero potute diventare realmente competitive in ambito nucleare, ma le cose andarono in modo assai diverso. A mandare a monte gli accordi furono i rovesci politici che si verificarono nello stesso ’58 in Italia e in Francia.
A Roma tornava sulla poltrona di Palazzo Chigi il democristiano Amintore Fanfani con la carica ad interim di ministro degli Esteri; a Parigi aveva invece ripreso possesso di Palais-Bourbon il generale Charles de Gaulle. Entrambi erano intenzionati a rompere i “Patti di Pasquetta”. La politica di Fanfani si apriva all’America di Eisenhower permettendo l’installazione in Italia dei missili balistici Jupiter, quella di De Gaulle invece si avviava alla fondazione della Quinta Repubblica, e pertanto desiderava che i vantaggi di un’arma atomica non andassero divisi con altri. Il sogno di un’atomica tripartita italo-franco-tedesca naufragava, ma mentre la Germania e la Francia proseguirono nelle ricerche, l’Italia insabbiò i suoi validi progetti scientifici preferendo ospitare sul suo territorio gli ordigni degli alleati americani, pronti ad essere lanciati contro la temibile Urss, in caso di necessità. Analogamente dopo i referendum del 1987 abbiamo creduto di sfuggire alle micidiali radiazioni atomiche, ma, trovandoci senza energia, ricorriamo ai numerosi impianti termonucleari francesi dislocati lungo il cono del Rodano, e che sono a pochi chilometri dalle nostre frontiere.
Paolo Cacace, nel ripercorrere le tappe di quel segreto accordo tripartito del 1957 e di tutto ciò che ne conseguì in ambito di politica energetica e di difesa, ci invita a riflettere su temi di scottante attualità e su scelte politiche assai miopi di cui oggi l’Italia sta pagando il conto.

 

Raffaello Uboldi, IL TEMPO
– 28/09/2004

 

Perché l’Italia ha detto no all’arma atomica

 

UN LIBRO, questo di Paolo Cacace, scritto sul filo dell’intelligenza, di una analisi acuta dei documenti e fitto di non poche rivelazioni del tutto sconosciute, o poco conosciute prima. Una fa spicco: la vicenda dell’atomica europea sulla base di un patto a tre, Francia, Germania e Italia, perché non vide la luce, e che cosa la ostacolò. Come scrive Sergio Romano nella prefazione, «la storia raccontata in questo libro è paradossalmente ignota all’opinione pubblica italiana e alla classe politica che è andata al governo negli ultimi quindici anni. Non credo che la scomparsa di molti protagonisti basti a spiegare il velo di silenzio che è sceso sulla politica nucleare dei governi italiani dopo la fine della seconda guerra mondiale… La storia che gli italiani ignorano è nota ai governi europei, agli americani, e a tutti coloro che hanno studiato l’influenza dell’energia nucleare sulla politica internazionale negli ultimi sessant’anni. Se in Italia è apparsa , sino al libro di Cacace, marginale o irrilevante, le ragioni, quindi, vanno cercate altrove». In primo luogo – viene spontaneo di osservare – nella “non volontà ” di tanti , troppi nostri governi di porsi quali partners alla pari al fianco del potente alleato americano.I fatti riguardano un progetto di cooperazione intergovernativa che risale agli anni 1957-58, nel pieno della guerra fredda, ma anche in concomitanza con l’entrata in vigore del Mercato Comune e dell’Euratom, cioè il tentativo della Francia (pur impegnata nella guerra d’Algeria) , della Germania occidentale (pur legata alle condizioni di pace) e dell’Italia di costruire una bomba atomica comune. Fino a qualche anno fa i documenti che comprovavano l’esistenza di un tale progetto erano gelosamente custoditi negli archivi diplomatici dei ministeri dei tre paesi interessati. Ora non più, la cortina del silenzio si sta dissolvendo, grazie fra l’altro al libro di Cacace.
Un progetto che avrebbe dato all’Europa ben altro peso e respiro a fronte delle superpotenze americana e sovietica. A pugnalarlo a morte furono tuttavia Charles De Gaulle, tornato al potere nella primavera del ’58, all’insegna di un motto che ben lo caratterizzava: «La capacità atomica non si spartisce». E sul versante italiano Amintore Fanfani, tornato al governo dopo le elezioni di quello stesso anno. Come rivela Cacace, citando una fonte non sospetta: «Fummo noi stessi italiani a cancellare dal bilancio i finanziamenti necessari».
Così si orientava la nostra politica verso una rinnovata fedeltà a Washington, irritata per i piani di penetrazione economica di Mattei sull’altra sponda del Mediterraneo, e preoccupata per le aperture ai socialisti di Pietro Nenni – era noto il suo neutralismo – al fine di consentire allo stesso Fanfani maggiori margini in politica interna. La grande occasione andò perduta. I giochi di palazzo non giovarono all’Europa.
E adesso? Il libro di Cacace non si sottrae alla domanda. Intanto constatando che se con il crollo del comunismo è scomparso all’Est il regno del male, non per questo la proliferazione nucleare ha preso fine. In Europa sono storicamente potenze atomiche Francia e Gran Bretagna; fuori ci sono la Cina, l’India, il Pakistan, probabilmente Israele, senza dimenticare gli “stati canaglia”, quelli che ambiscono a un armamento atomico, o hanno cercato, o sperato di conquistarlo, dalla Corea del Nord, all’Iraq di Saddam Hussein. È in questo contesto che l’Europa deve scegliere, se limitarsi a un ruolo regionale, o dilatare la sua presenza all’insieme del pianeta, il che significa portarsi alla pari anche in campo nucleare con Russia, Stati Uniti e via via. Una scelta non facile ma come minimo da discutere.

 

Marzio Breda, CORRIERE DELLA SERA
– 23/07/2004

 

E l’Italia entrò nel club atomico. Che non nacque mai

 

E’ come uno di quegli ordigni inesplosi che ancor oggi vengono scoperti un po’ dappertutto e ci obbligano a fare i conti con le paure di mezzo secolo fa. Anche questa una bomba “a scoppio ritardato”, uno scoop storico sugli anni della guerra fredda, quando l’Italia stava per entrare – con Francia e Germania – nel club atomico. Una sfida alla quale Parigi, Bonn e Roma lavorarono con l’ambizione di dotarsi di un armamento nucleare autonomo, tale da spezzare il duopolio russo-americano. Un progetto segreto che arrivò alle soglie dell’operatività e di colpo entrò in crisi per tre motivi: 1) perché in anticipo rispetto alla gracile coesione dell’Europa di allora; 2) per i doppi giochi degli stessi negoziatori; 3) per l’improvviso stop dell’Eliseo, dove nel frattempo era tornato Charles De Gaulle che voleva una force de frappe esclusivamente francese. E’ a questo capitolo quasi sconosciuto e comunque rimosso del Novecento che Paolo Cacace, editorialista de Il Messaggero e storico, dedica un saggio ricco di testimonianze e documenti inediti che, partendo dal 1945, si proietta fino ai giorni nostri. L’atomica europea (Fazi Editore, pagine 258, euro 19.50) nasce da un accordo siglato dopo diversi “incontri al caminetto” fra i ministri della Difesa dei tre Paesi, incontri convocati tra il 1956 e il ‘57 e durante i quali si arriva a stendere un protocollo degli armamenti, compresa appunto “l’applicazione militare dell’energia nucleare”.
Quando Jacques Chaban-Delmas, Franz Josef Strauss e Paolo Emifio Taviani avviano le prime trattative, l’atlante geopolitico è scosso dalla crisi di Suez: un evento che segna “il primo grande spartiacque della politica internazionale del secondo dopoguerra”, come puntualizza Sergio Romano nella prefazione al volume. In più, i progressi tecnologici dell’Urss culminati con il lancio dello Sputnik e del primo missile intercontinentale rappresentano una sorta di “Pearl Harbor spaziale” che dissolve ogni certezza di superiorità militare dell’Occidente. Così, dalle frustrazioni della Francia di quei mesi, convinta che “soltanto l’arma atomica le avrebbe permesso di non piegare la testa di fronte all’America”, trova origine la proposta ai partner tedeschi e italiani. L’intesa si chiude nell’aprile 1958 e prevede la costruzione di un impianto a Pierrelatte, Oltralpe, i cui costi saranno coperti per il 90 per cento da Francia e Germania, mentre l’Italia parteciperà con un esiguo ma comunque importante 10 per cento.
Annota Taviani nei suoi diari, con un cenno autocritico: “II punto debole di questi accordi era che si trattava degli aspetti tecnico-economici senza aver chiarito la struttura politica portante. Avremmo dovuto pensare prima all’impianto sopranazionale e passare dopo agli obiettivi… Poi, non fu deciso chi avrebbe tenuto in mano le chiavi della futura arma nucleare. La Francia per tutti e tre? Sarebbe stato inaccettabile”. E’ anche su queste ambiguità di fondo che l’ambiziosa idea di un’eurobomba, in bilico tra obblighi di solidarietà atlantica e sogni d’emancipazione del Vecchio Continente, si perde per strada. Cacace ce ne racconta i retroscena militari e strategici, attingendo a materiali desecretati delle diplomazie e a testimoni diretti, e analizzando anche le chance perdute per un impiego civile del nucleare.
Alla fine affiorano le contraddizioni del presente, che Romano lega al “no al nucleare” deciso anni dopo dall’Italia, per cui “il Paese che ha rinunciato alle armi atomiche in nome della pace ospita basi nucleari straniere”, il Paese “che ha rinunciato al nucleare civile in nome della salute e dell’ambiente è stato esposto alle radiazioni di Chernobyl e importa energia prodotta da impianti nucleari a poche centinaia di chilometri dalle sue frontiere”.

 

Ileana Marzapane, GAZZETTA DEL SUD
– 14/07/2004

 

L’Italia tra il 1956 e il 1958 sognava l’atomica europea

 

Dopo la Crisi di Suez, per due anni, dall’autunno del 1956 al maggio del 1958, l’Italia sostenne un ambizioso progetto franco-tedesco che aveva l’obiettivo di sviluppare un armamento nucleare europeo autonomo rispetto al dispositivo atomico degli Stati Uniti. Paolo Cacace, editorialista del “Messaggero”, ricostruisce questa pagina poco nota della nostra storia in un interessante libro (L’atomica europea, i progetti della guerra fredda, il ruolo dell’Italia, le domande del futuro, Fazi Editore). Il libro è corredato di documenti inediti e di una prefazione storico – diplomatica di Sergio Romano. Inoltre, alla luce degli aumentati fabbisogni energetici, rivelati dal black-out del 30 settembre scorso, Cacace ripropone la controversa questione dell’impiego del nucleare per usi civili: una strada timidamente imboccata, negli anni Sessanta e definitivamente abbandonata in Italia dopo il referendum del 1987.
Fu il ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani a firmare nell’autunno 1956 un accordo segreto tripartito con i suoi colleghi francese, Jacques Chaban-Delmas, e tedesco, Franz Josef Strauss. Fissava nella misura del 10% la partecipazione italiana alle spese di ricerca e sperimentazione nucleare in Alsazia e per la produzione di uranio arricchito nell’impianto di Pierrelatte (Francia), in esercizio dal 1962. Questa scelta collocava la politica estera italiana al fianco dei Paesi europei sostenitori della ricerca, nel settore della Difesa, della piena autonomia dell’Europa rispetto agli Usa. Anche per altri versi la vicenda segna uno snodo storico del dopoguerra. Tutto nasce dallo smacco di Suez. Il 31 ottobre 1956, tre mesi dopo la nazionalizzazione del Canale, Gran Bretagna, Francia e Israele attaccano l’Egitto e bloccano Porto Said, ma l’immediata reazione di Stati Uniti e Urss li costringe a desistere. Londra reagisce cambiando premier e abbracciando una politica filoamericana. Invece il governo di Parigi, guidato dal socialista Guy Mollet, ricorda Romano, mette in campo il patto tripartito per sviluppare l’armamento nucleare e avere così più voce in capitolo. Nel suo libro Cacace ripercorre anche le vicende del movimento anti-nucleare fino alla vittoria del referendum che ha comportato lo smantellamento degli impianti esistenti.

 

APBISCOM – UFFICIO STAMPA QUIRINALE
– 08/07/2004

 

Quando l’Italia ambiva ad entrare nel ‘club atomico’

 

Roma, 8 lug. (Apcom) – Dagli archivi ‘top secret’ della Guerra Fredda emergono documenti inediti che raccontano delle ambizioni. dell’Italia di entrare a far parte del ‘club atomico’. Oggi Roma ha riposto definitivamente qualsiasi opzione nucleare, aderendo illimitatamente nel 1995 al Trattato di Non Proliferazione e, prima ancora, confermando la sua scelta radicale con il referendum del 1987. Eppure, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, i governi che si succedettero a Palazzo Chigi portarono avanti con decisione passi riservatissimi volti a far diventare il nostro Paese una potenza nucleare al pari della Francia, degli Usa o della Russia, dotandola di armi atomiche. Il capitolo storico che l’opinione pubblica ignora riguarda il passo che nel 1958 l’allora ministro della Difesa, Paolo Emilio Taviani intraprese assieme ai suoi omologhi francese e tedesco, firmando un accordo tripartito. Il negoziato in questione durò due anni. Si concluse con una serie di incontri tra Roma e Parigi tra i ministri Taviani, Chaban-Delmas e Strass ed un progetto congiunto per la realizzazione di una centrale per la produzione di uranio arricchito. A rivelare tutte le fasi delle trattative, il quadro storico in cui avvennero, i progetti della Guerra Fredda e la corsa al nucleare fino alla situazione attuale dove esiste un Trattato ma la proliferazione di armi atomiche si espande a macchia d’olio coinvolgendo Stati incontrollabili, è l’editorialista e quirinalista del ‘Messaggero’, Paolo Cacace in un libro appena pubblicato da Fazi Editore intitolato: “L’atomica europea”.

Nell’autunno del 1956 il governo francese presieduto dal socialista Mollet decise di sottoporre ai governi di Roma e Bonn, suoi partner europei, un accordo a tre per la collaborazione atomica in campo militare. Di questa proposta se ne era parlato segretamente nei mesi precedenti anche a seguito del fallimento della spedizione anglo-francese a Suez e del ‘silenzio’ della Nato davanti alla guerra che i francesi stavano combattendo in Algeria. Il governo di Mollet era fermamente convinto che solo un’arma atomica poteva garantire alla Francia e all’Europa una certa autonomia di posizione rispetto agli Stati Uniti.

Al termine del primo vertice (che si tenne a Parigi) fu firmata una convenzione “per lo sviluppo delle attività dell’Istituto di ricerche di Saint Louis di Alzaia in cui erano comprese verosimilmente iniziative di studio e sperimentazione in campo nucleare”. Il secondo, invece, si svolse a Roma e sfociò nella piena collaborazione nel settore delle armi convenzionali. Francia, Italia e Germania raggiunsero un “accordo segreto per la costruzione di un impianto di separazione isotopica per la produzione di uranio arricchito a Pierrelatte, in Francia”. La partecipazione dell’Italia era modesta ma dava la possibilità di acquisire informazioni e materiali.

Fu in quell’anno che fu avviata la costruzione della centrale nucleare di Latina. Nel frattempo erano iniziati i lavori per la centrale di Garigliano. Nel frattempo la Fiat e la Montecatini si mossero in questo settore. Un reattore di ricerca fu installato a Trino Vercellese e cominciò a produrre energia nel 1964. L’ex ambasciatore Sergio Romano che firma la prefazione del libro sottolinea che in Italia negli anni Sessanta esistevano le condizioni per una politica nucleare che avrebbe “permesso al Paese di affrontare con maggiore tranquillità e indipendenza le grandi crisi energetiche del 1973 e 1979”.

Nonostante ambiziosi programmi per l’impiego civile dell’energia nucleare, gli avvenimenti della politica italiana a partire dagli anni Settanta, soprattutto dopo la crisi del centro sinistra e le elezioni del 1972 che ebbero l’effetto di riaprire la discussione nel governo sulla scelta atomica della politica estera del Paese, l’Italia si avviò a percorrere il sentiero del ‘no nukes’. Cosi dopo essere stata una delle nazioni più avanzate nel campo delle ricerche nucleari procedeva a smantellare progressivamente ciò che aveva costruito nei decenni precedenti. Una scelta che al Paese costò cara poiché di fatto gli fece perdere prestigio e potere negoziale, rendendolo tra l’altro più vulnerabile sul fronte energetico.

L’autore del volume si chiede se ora è possibile ipotizzare un ritorno al nucleare. La risposta di Cacace è affermativa, specie dopo il black out energetico del settembre del 2003, benché ogni decisione in merito debba transitare da Bruxelles: “ancora una volta la via migliore per cercare di affrontare la questione ovvero per imprimere un cambiamento alla nostra politica nucleare era rappresentata dall’Europa”.

 

Sergio Romano, IL MESSAGGERO
– 13/07/2004

 

Le nostre rimozioni, le nostre rinunce

 


La storia raccontata in questo libro è paradossalmente ignota all’opinione pubblica italiana e alla classe politica che è andata al governo negli ultimi quindici anni. Non credo che la scomparsa di molti protagonisti- Scelba, Pella, Mattei, Ippolito, Saragat, Fanfani, Taviani, gli ambasciatori a Parigi, Bonn, Washington, Londra- basti a spiegare il velo di silenzio che è sceso sulla politica nucleare dei governi italiani dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ci restano i diari di Paolo Emilio Taviani, ministro della Difesa dal 1953 al 1958, gli scritti di Felice Ippolito, segretario generale del Cnen (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare)e di Achille Albonetti, responsabile del Comitato per i rapporti internazionali. Ci restano i saggi e le memorie di Roberto Gaja, segretario generale del ministero degli Esteri negli anni in cui il governo italiano ratificò il Trattato di Non Proliferazione. Ci restano soprattutto i documenti degli archivi italiani e quelli dei due paesi( Francia e Germania) che firmarono con l’Italia un accordo tripartito. La storia che gli italiani ignorano è nota ai governi europei, agli americani e a tutti coloro che hanno studiato l’influenza dell’energia nucleare sulla politica internazionale negli ultimi sessant’anni. Se in Italia è apparsa, sino al libro di Cacace, marginale o irrilevante, le ragioni, quindi, vanno cercate altrove… “Molto di ciò che accade negli anni successivi, dai laboriosi programmi energetici adottati dopo gli shock petroliferi al fatale referendum del novembre 1987 con cui i programmi del nucleare civile vennero resi impossibile, è il risultato delle due grandi rinunce degli anni Cinquanta e Sessanta. Dopo esser stato uno dei paesi più avanzati e intraprendenti nel campo delle ricerche nucleari, l’Italia aveva progressivamente smantellato le sue migliori istituzioni ed era uscita da uno dei settori decisivi e più promettenti della scienza moderna. Il danno è stato irreparabile. Il paese ha perduto prestigio e potere negoziale, è diventato, per le sue necessità energetiche, pericolosamente vulnerabile, non è più in grado di tenere il passo con la scienza e la tecnologia dei paesi più dinamici. Non basta. Gli argomenti che hanno giustificato queste scelte sono clamorosamente contraddetti dalla realtà. Il paese che ha rinunciato alle armi atomiche in nome della pace ospita basi nucleari straniere. Il paese che ha rinunciato al nucleare civile in nome della salute e dell’ambiente è stato esposto alle radiazioni di Cernobyl e importa energia elettrica prodotta da impianti nucleari a poche centinaia di chilometri a poche centinaia di chilometri dalle sue frontiere. La responsabilità, in ultima analisi, è di un sistema politico fragile, oscillante, più attento agli umori della pubblica opinione che agli interessi fondamentali del paese. E questa è credo la ragione per cui la storia raccontata da Cacace è poco nota. Gli italiani, evidentemente,preferiscono dimenticare i loro errori.

 

IL MESSAGGERO
– 13/07/2004

 

La storia segreta dell’atomica europea

 

Prende corpo, in questa fase, la determinazione francese a stringere i tempi e a coinvolgere non solo la Germania ma anche l’Italia non solo in un vero e proprio accordo tripartito tale da prevedere la collaborazione nel settore delle armi convenzionali, ma soprattutto una cooperazione segreta per realizzare l’arma atomica comune. Il 15 novembre 1957, il presidente del consigli Guillard tiene un vertice con il ministro della Difesa, Chaban-Delmas, con quello degli Esteri , Maurice Faure, per definire una strategia più incisiva dopo il dramma dello Sputnik e in vista del consiglio Nato convocato a Parigi per il mese successivo. Il governo francese dà via libera ad un programma di cooperazione con la Germania e con l’Italia per la produzione di armi nucleari “essendo inteso che tali armi sarebbero state prodotte in Francia con il concorso scientifico e finanziario dei partner”. Insomma, Parigi mette subito in chiaro che vuole mantenere l’assoluto controllo dell’operazione. Non è definito e non lo sarà mai in modo netto il significato strategico del progetto. Se esso deve intendersi in senso apertamente ed esclusivamente antiamericano oppure se, in qualche modo, esso mira ad ingerirsi nell’ambiente atlantico. Ognuno dei protagonisti lo intende secondo propri calcoli ed obiettivi. C’è comunque un dato significativo di cui tener conto. La spinta francese per coinvolgere la Germania Occidentale nel programma nucleare è dettata soprattutto dalla volontà di evitare che il governo tedesco possa dar vita ad un progetto mirante a costruire un solo ( o magari con l’appoggio britannico) una propria bomba, anche se gli accordi internazionali glielo impediscono. La paura dell’atomica tedesca è sempre stata in una generazione reduce dalla seconda guerra mondiale e figurerà tra le ragioni che indurranno l’Italia ad inserirsi nell’iniziativa nucleare. Dopo la riunione parigina si moltiplicano i contatti per passare rapidamente alla fase operativa. Maurice Faure incontra a Bonn il cancelliere Adenauer, Chaban-Delmas riceve a Parigi il ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani (16 novembre 1957). I colloqui sono coperti dal più totale riserbo. “ Bisogna accogliere la proposta francese. Adenauer ha subito afferrato il significato europeo della cosa. Ha detto . “ Significa risuscitare per quanto possibile , la Ced”, scrive in un rapporto riservato l’ambasciatore a Parigi , Quadroni, al ministro Pella. Il protocollo tripartito viene firmato segretamente a Parigi da Chaban-Delmas, Taviani e Strass, il 28 novembre 1957. Con il ritorno al potere di Charles de Gaulle , nel maggio 1958, l’accordo tripartito viene repentinamente accantonato e svanisce il sogno di una atomica europea. Ma la decisione del generale non è priva di aspetti contraddittori ed incertezze. Tra i protagonisti ei testimoni non mancano le voci discordi. Ad esempio, Achille Albonetti sostiene che fu Amintore Fanfani, tornato al potere dopo le elezioni del 1958, ad affossare l’iniziativa ma chi sapeva in Italia del progetto nucleare? E quali interessi esso muoveva? Non vi sono prove che fosse a conoscenza dell’intesa Enrico Mattei, allora potentissimo presidente dell’Eni, che in quegli anni influenzava in modo considerevole tutta la politica estera italiana, ma è difficile che Mattei fosse all’oscuro del dossier nucleare. A quasi cinquant’anni di distanza dall’accordo tripartito per l’atomica europea l’Italia sembra aver riposto definitivamente nel cassetto qualunque opzione nucleare. L’adesione all’efficacia illimitata del Trattato di Non Proliferazione, nel 1995, ha confermato una scelta antinucleare risalente alla fina degli anni Sessanta che lega il nostro paese ad altri partner europei come la Germania. Con un vincolo ulteriore, non indifferente: l’abbandono di qualsiasi iniziativa anche nel campo della ricerca e dell’attività nucleare civile per effetto dell’esito del referendum popolare del 1987. Diverso sarebbe il discorso europeo poiché il nostro governo al momento della firma del Tnp, tra le varie riserve, chiedeva ed otteneva l’inserimento della cosiddetta Clausola europea che stabiliva la compatibilità del trattato con un eventuale deterrente nucleare europeo ed è allora possibile immaginare almeno in prospettiva, un progetto per cui Francia e Gran Bretagna mettano i rispettivi arsenali nucleari al servizio dell’Unione europea?La questione è aperta. Per l’Europa il problema fondamentale è e resta politico strategico…

 

Tonino Bucci, LIBERAZIONE
– 30/06/2004

 

L’Europa sotto l’ombrello dell’atomica

 


Da tempo esiste una vasta letteratura sul nucleare. Storici, scienziati e politici hanno in vari modi affrontato la questione fin da quando l’umanità si è trovata davanti al rischio concreto della distruzione di ogni forma di vita. Meno indagata, invece, è sul piano storico – per non parlare dell’attualità – l’influenza dell’energia nucleare sulla politica internazionale negli ultimi sessant’anni. La storia che racconta Paolo Cacace – editorialista del “Messaggero” e già autore di saggi storici – nel suo ultimo libro L’atomica europea. I progetti della guerra fredda, il ruolo dell’Italia, le domande del futuro (Fazi Editore, pp. 260, euro 19,50) interviene in questa lacuna.
Attraverso i documenti ricostruisce le fasi di un progetto intrapreso nell’autunno del 1956, soprattutto per iniziativa del governo francese, di collaborazione atomica in campo militare tra Francia, Germania e Italia. Fino a tutti gli anni Sessanta il nostro paese possiede, almeno nel settore energetico, le condizioni per sviluppare una politica nucleare. La parte militare di un programma comune ai tre paesi cade tuttavia lungo la strada, un po’ per la difficoltà di segnare un’autonomia dagli Usa, un po’ per la pressione dei grandi movimenti pacifisti e antiatomici intorno al ’68. Il distacco dell’Italia avviene in maniera più marcata nel ’75 quando il governo ratifica il trattato di non proliferazione delle armi nucleari. L’altro passo decisivo sarà il referendum del 1987 con il quale gli italiani rifiutano anche l’impiego civile del nucleare, un passo – a dire il vero – commentato con un pizzico di rammarico da Cacace e, ancor più, da Sergio Romano, autore della prefazione, pronto a cogliere nella rinuncia al nucleare un «danno irreparabile».

Oggi potrebbe sembrare che, dopo la fine della guerra fredda, il peso del nucleare sia radicalmente scemato. Eppure non è così. Soltanto nel 2002 gli Usa di George W. Bush formulano una nuova dottrina nucleare, la Nuclear Posture Review (“Revisione della posizione sul nucleare”), che mescola tra loro «le strategie di impiego delle armi convenzionali e nucleari» e ammette la possibilità di utilizzare per primi l’arma atomica. Russia e Stati Uniti disponevano complessivamente, a metà dello scorso anno, di circa ventimila testate nucleari pronte all’uso. Né diminuiscono le risorse economiche e intellettuali investite nella ricerca e produzione di armi atomiche. «Una prova inoppugnabile è data dal budget statunitense per la difesa (il Defense Authorization Bill) che per l’anno fiscale 2004 ha raggiunto la somma da capogiro di 401,3 miliardi di dollari, la più elevata della storia».

Lo stesso accordo siglato nel 2002 tra George W. Bush e Vladimir Putin per ridurre di due terzi i rispettivi arsenali nucleari entro il 2012, è in realtà intessuto di «clausole flessibili e poco controllabili».

I nuovi orientamenti degli Usa trapelano dal già citato Nuclear Posture Review, formulato dal segretario alla Difesa Rumsfeld sempre nel 2002. La novità rilevante nei piani del Pentagono è lo «sviluppo di nuove armi nucleari più accurate e di potenza più bassa: le cosiddette mini-nukes, le “mini-bombe” il cui compito dovrebbe essere di distruggere obiettivi posti a grande profondità nel terreno». Il «passaggio più interessante del rapporto» riguarda una direttiva top secret nella quale «si autorizzano attacchi preventivi contro Stati e gruppi terroristici che siano vicini ad acquisire armi di distruzione di massa. E’ la strategia dell’attacco preventivo che introduce una sostanziale novità nella strategia nucleare americana. C’è la possibilità concreta che gli Stati Uniti adoperino preventivamente anche armi atomiche per neutralizzare paesi in procinto di procurarsi armamento nucleare». Affiorano i nomi dei paesi nel mirino americano: l’Iraq, l’Iran, la Siria, la Corea del Nord, Cuba, il Sudan.

E l’Europa? «La questione nucleare non figura tra i dossier dell’Unione Europea. Elusa. Ufficialmente inesistente. Esiste, beninteso, una politica comunitaria in senso inverso, nei confronti della non proliferazione». Il tema della sicurezza viene affrontato nel consiglio europeo di Helsinki. Si stabilisce che l’Ue, entro la fine del 2003, «avrebbe dovuto essere in grado di schierare, con un preavviso di sessanta giorni, un contingente di 60mila uomini, per almeno un anno». La risposta americana ai piani europei di difesa comune è improntata al distacco. L’amministrazione Clinton evitò di interferire anche se la strategia degli Usa era chiara: «avrebbe appoggiato volentieri un maggior impegno economico europeo nelle spese di difesa collettiva, ma si sarebbe opposta a un’iniziativa mirante a costituire un polo europeo in qualche modo autonomo rispetto all’Alleanza Atlantica e quindi tale da insidiare la leadership statunitense». Di pari passo si avvia un dibattito in Europa, ripercorso nelle sue varie tappe da Cacace, sulla costruzione di una «forza militare credibile, in grado di far contare davvero l’Unione sullo scacchiere mondiale». Sulla questione nucleare si formano due posizioni: da una parte, l’idea di mettere in comune gli arsenali di Francia e Gran Bretagna, unici due paesi con una forza autonoma; dall’altra, la possibilità di costruire ex novo un sistema nucleare. E’ qui che il carattere documentario del libro di Cacace lascia il posto a un giudizio visibilmente favorevole a una politica atomica, non solo nella produzione di energia – dove l’Ue è tradizionalmente debole e dipendente dall’importazione – ma anche nel settore militare. E’ come se, a volte, si intravedesse nel nucleare un surrogato capace di colmare l’autentico problema, l’assenza cioè di una visione politica forte dell’Europa nel mondo.

L’atomica europea - RASSEGNA STAMPA

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