Philippe Jaccottet
L’Oscurità
A cura di Gianluca Manzi
Di ritorno da un lungo soggiorno all’estero, un vecchio discepolo decide di rincontrare il suo maestro, l’uomo da cui aveva appreso ad amare la vita. Dopo un’estenuante ricerca, lo troverà segregato in un angusto appartamento di periferia, colpito da un male oscuro. La scoperta è scioccante: il saggio ammirato e onorato ha lasciato il posto a un animale feroce, che vive isolato nell’oscurità, piegato su se stesso, in un’attesa provocatoria e ribelle della morte. L’emozione e lo spavento causati da questo dramma, lo scacco del maestro davanti al suo discepolo, suscitano nel narratore ogni sorta di meditazione. Esiste una ragione che possa qualcosa contro l’orrore di questo ineluttabile annullamento? Apparso nel 1961, L’Oscurità, come l’intera opera di Philippe Jacottet, è un libro segretamente autobiografico, che ci introduce con straordinario pudore e delicatezza di toni nell’intimità del mondo di uno dei più significativi poeti francofoni di questo secolo. “Forse sono i leggeri, i temerari ad aver ragione: non dico i più sicuri di sé, ma coloro che accettano e corrono il rischio di perdersi senza sperare in un compenso”.
– 04/02/1998
JACCOTTET: OLTRE IL MALE DI VIVERE
Il poeta svizzero “Alla luce d’inverno”
Philippe Jaccottet, poeta svizzero che vive in Francia da quasi mezzo secolo, è stato a Milano per una lettura pubblica del libro pubblicato in Italia da Marcos y Marcos, “Alla luce d’inverno”, tradotto da Fabio Pusterla (mentre l’editore Fazi ha raccolto sotto il titolo “L’oscurità” le sue prose, pp. 140, L. 29.000). La lettura è stata uno di quei sorprendenti successi che la poesia riscuote in circostanze pubbliche. I temi di Philippe Jaccottet con malattia, morte, dolore. Molto spesso ci si trova coinvolti in versi che paiono chiusi dall’esperienza del male. Ma la spinta a leggere oltre è la forza di questa poesia, che non sa esistere oltre è la forza di questa poesia, che non sa esistere senza la corsa allo spiraglio (di luce, di colore, di aria, di redenzione). “Tutti conosciamo dolore e sofferenza. Scriverne è inevitabile, ma se si tocca anche fuggevolmente la gioia, è doveroso – per me – comunicarla. Perché è rara, è molto più importante che resti sulla pagina”, Il “gagne-pain” di Jaccottet è da sempre la traduzione letteraria. Il suo lavoro, modellare la parola, piegarla alle esigenze varie della trasposizione: da una lingua all’altra, materialmente o in figura. E’ così che, ancor prima che adolescente, Jaccottet si avvicinò alla poesia: leggendo Rilke e provando istintivamente a tradurlo. “Ero da bambino timido, ritroso. Non amavo i giochi con rumore, mi piaceva leggere. Era un’attrazione spontanea per le parole. Qualche anno dopo scoprii Hölderlin e fu una folgorazione. Scrissi dei versi, di quelli che per lo più poi si chiudono in un cassetto e si dimenticano. Io invece continuai. Da passione per le parole, la poesia diventò per me esigenza vitale, essenzialità”. Andò a Parigi poco più che ventenne, e fece, nel ’46, il suo viaggio in Italia. A Roma, un’amica pittrice lo istigò ad andare da Ungaretti. “Ungaretti allora era giovane, fu molto amichevole. Nel mese che mi trattenni a Roma, era autunno, imparai l’italiano leggendo l'”Allegria”. Tornando a Parigi, mi venne voglia di tradurre poesie di Ungaretti. Lo feci e a lui piacque il mio lavoro. Diventammo amici intimi”. I ricordi legati a quell’amicizia sono tanti. Jaccottet racconta di una delle ultime volte che vide Ungaretti. Era a Parigi, in occasione dell’uscita di “Innocence et mémoire”. Ungaretti era vecchio. “Qualcuno lo avvicinò e gli mise in mano un libro di Gombrowicz. Era l’editore francese del libro. Un libro in cui Gombrowicz demolisce Dante. Quando quell’editore se ne fu andato, noi entrammo in un ristorante di lusso per pranzare. Ungaretti, furioso come non lo avevo visto mai, si mise a strappare il libro rumorosamente, urlando. Ci vuole molta forza e molta rabbia per stracciare un libro in tutto il suo spessore. Ungaretti non si calmò finché non ebbe finito. Tutto il ristorante si era bloccato a guardarlo. E’ un ricordo magnifico”. Traduttore anche di romanzieri italiani, come Cassola e Fruttero e Lucentini, Jaccottet è più legato però, affettivamente, alla nostra poesia: Luzi, Bigongiari, Bertolucci, Erba. Gli inglesi li conosce meno e li sente più distanti. Mentre un incontro molto importante è stato quello con la poesia russa. Un incontro tardivo, che risale ai primi Anni Ottanta, quando Jaccottet lesse Mandelstam. “Lo lessi in traduzione francese, e tale fu il potere di seduzione che volli imparare il russo per poterlo leggere in lingua originale. Arrivai a conoscerlo al punto da poterne fare io una traduzione in francese. Posso dire che dopo Hölderlin, Mandelstam è stato il più grande choc della mia vita, l’incontro poetico più emozionante”. Quanto ai francesi, “i primi, più importanti, sono stati Baudelaire, Rimbaud e Verlaine. Sono stato un grande ammiratore anche di Claudel, malgrado il suo cattolicesimo rigido, perché nonostante questo resta nel tempo, è un genio. Mentre curiosamente lo stesso non si può dire per Valéry. Nel ’47 poi, a Parigi, conobbi Francis Ponge, che è stato per me un amico molto caro anche se molto diverso da me. Dello stesso gruppo, ho apprezzato Jean Tardieu, più facile d’accesso, sorprendente di umorismo, fantasia, e sempre un po’ bambino. In quegli anni conobbi anche Yves Bonnefoy, che cominciava allora a pubblicare, buonissimo amico. Altro mio riferimento è André du Bouchet, poeta forte, ermetico”. I giovani, Jaccottet cerca di seguirli, anche se riconosce di leggere meno adesso di un tempo. “Non è un periodo ricco, questo. In Francia, il libro di poesia migliore degli ultimi vent’anni è uscito nel ’96, ed è “Ostinato”, di René Louis des Forêts, non precisamente un giovane. Un libro magnifico Louis-René des Forêts è una specie di vecchio gentleman, deve avere più di ottant’anni, vive in un castello in Bretagna, avrebbe voluto navigare, ama l’oceano. Uomo di grandi sofferenze, la figlia morì annegata adolescente”. Il nostro tempo però è quello della scomparsa del sacro. I problemi dell’attualità sono grevi, non favorevoli alla creazione. “Ci si perde nella parodia, nel nichilismo. E’ triste”., dice Jaccottet. Un rischio cui lui cerca di sottrarsi tenendo sempre fermo il proposito di essere profondo e vero. In “Paesaggi con figure assenti” (trad. di Fabio Posterla, Armando Dadò ed., 1996), un libro di prose poetiche, è attraverso la relazione con il mondo naturale, un mondo scoperto andando a vivere a Grignan, nel Sud della Francia, che Jaccottet ha trovato una voce: “E’ una voce che si manifesta soprattutto quando lo spirito è tranquillo, nel silenzio della campagna, o sentendo musica. Allora le immagini vengono da sole, rapide. Una buona poesia è quella che nasce in fretta, in cui ha parte il lavoro dell’inconscio”. E’ allora che sulla pagina lascia tracce l ‘ “inafferrabile ovunque del presente”, “nutrito del suo rifiuto di rispondere, vivo perché impenetrabile, meraviglioso perché terribile”.
“L’oscurità” del francese Philippe Jaccottet
Maledetto tempo che passi e non torni
La scoperta del primo cappello bianco per molti è rivelatrice dello scorrere del tempo. Se poi coincide col “mezzo di cammin di nostra vita” può essere foriera di inquietanti interrogativi che indagano le profondità della nostra esistenza. Le possibili risposte solo in alcuni casi si distribuiscono nelle categorie opposte del sì e del no, spesso invece costituiscono un adattamento (sia nell’accezione positiva che negativa) al rimanente lasso di tempo che ci separa dalla morte. Jaccottet, uno dei maggiori poeti francesi ma autore anche di numerose prose e saggi , descrive l’inciampo, lo “scandalo” provocato dallo sperimentare su di sé l’esperienza del tempo e la paura della morte attraverso “L’oscurità” (Fazi Editore, 121 pagg., 29 mila), un’opera di narrativa estremamente lirica, molto probabilmente autobiografica. Un allievo ormai maturo decide di rivedere il maestro lasciato alcuni anni prima all’apice della notorietà, baciato dal successo e dalla gloria, famoso per le sue lezioni e i suoi scritti, appagato dagli affetti familiari e dalla raggiunta serenità d’animo. Lo ritrova solo, in una stanza buia di un anonimo palazzo in una anonima periferia urbana: si è condannato alla solitudine e al buio, privandosi dello studio e della fama. Lo sconcerto dell’allievo è totale. Il racconto si snoda per la prima parte attraverso il lungo monologo del maestro che fornirà solo alcuni indizi per comprendere le ragioni della sua disperazione, la ricerca delle quali sarà l’oggetto della seconda parte, insieme alla decisione maturata dall’allievo. Il maestro aveva teorizzato l’esercizio della serenità e della positività anche di fronte al male, visto come sfida e non come scacco ma non aveva però retto ; nella pratica, al vissuto della sofferenza. L’allievo che, lasciato il maestro al suo amaro destino di oscurità, non si sente di aderire alla capitolazione di colui del quale aveva pur condiviso di sentire, dovrà tuttavia passare attraverso le stesse prove. L’opere di Jaccottet costituisce la limpida analisi del vissuto della finitezza. Sgomento , angoscia di fronte a un passato ormai trascorso e a un futuro che ha un unico esito certo. Ogni uomo sensibile e ragionevole dovrà consapevolmente o no adottare una soluzione. L’autore si serve dell’antitesi luce/oscurità, speranza/disperazione., positivo/negativo, ma alla fine ci indica anche un’altra soluzione che sembra ricomporre gli estremi: un “ragionevole dubbio”, un’umiltà che ci fa riconoscere che non siamo i depositari della verità (perché proprio io?), un riconoscimento del mistero. Così scrive alla fine: “Non ho smesso di respirare; non smetto di sentire qualcosa che respira davanti a me nella notte. Non posso dire altro. L’autentico amore è un soffio che si direbbe non possa interrompersi mai”.
– 08/11/1998
Philippe Jaccottet
Le parole su azzurri stendardi
Proposto in Italia lo scrittore franco-svizzero (73 anni). Ora le liriche “Alla luce d’Inverno”
È giunta l’ora anche in Italia di scoprire Philippe Jaccottet, il poeta svizzero dai toni dimessi, anzi sommessi. Nel ’92 fu Einaudi a squarciare il velo dell'”indifferenza” editoriale verso questo poeta e saggista nonché traduttore, seguito ormai da un nutrito gruppo di ammiratori “con l’affetto riservato a un maestro”. Ed ora arrivano in libreria le sue prose con il titolo “L’oscurità” (da Fazi ed., pp.140, L. 29.000). Ma soprattutto appare la raccolta di liriche “Alla luce d’inverno”. Pensieri sotto le nuvole (curata, come sempre, da Fabio Pusteria per i tipi di Marcos y Marcos, pp. 271, L. 24.000).Philippe Jaccottet è nato nel 1925 a Moudon nella Svizzera romanda, ma vive ormai da quarant’anni nel sud della Francia. È un poeta dalla vita “moderata”, non eclatante per scelte chiaccherate, ripiegata sulle parole: il suo “lavoro” è quello di traslitteratore, di traduttore letterario (è stato lui, nell’immediato dopoguerra, il traduttore francese dell’opera di Ungaretti). Si comprende dunque il rovello, così esplicito nei suoi versi, di voler modellare le parole, di volerle piegare i bisogni dell’emozione di misurare in termini. Soprattutto si comprende il “vizio” di andare alla ricerca “delle cose che abitano le parole”, “quelle che s’impennano contro di loro, le sconvolgono, le distruggono”.C’è da credere all’elogio che gli ha intessuto nel 1971 Jean Starobinski: secondo il filosofo francese, Jaccottet deve la fiducia suscitata nel lettore alla regola di “rendersi garante di ogni parola scritta”; alla consuetudine di tenersi “lontano dall’eccesso, dalla solennità, dalla magniloquenza”, del diffidare delle immagini troppo smaglianti, di aborrire la gratuità.Un assillo pervade la raccolta “Alla luce d’inverno”. “Pensieri sotto le nuvole” (ed ha la mestizia di una stagione opaca, la fugacità di nubi passanti): è la vanità della nostra vita. Alla quale si legano meditazioni sulla vecchiaia con “i chiodi alla gola”, sulla morte incombente.Cos’è in fondo un uomo nel creato? Solo “un nodo d’aria”. Ed è, perciò, inconcepibile che per disciogliere questo “nodo d’aria” ci voglia un “ferro così tagliente”, una lacerazione tanto dolorosa come è la morte.In fondo ,il poeta Jaccottet non è uno che si vanti di aver affrontato temi fuori dal comune, o si glori di dire qualcosa di nuovo. Pervicacemente, a lui preme di esprimere ossessioni universali: morte, dolore, vecchiaia… Ma con lo stupore dell’innocenza, di un primo passo sulla neve incontaminata. Con quale carica di incredulità, per esempio, ci proietta su un oltretomba, troppo algida ai suoi occhi “pagani”: “Davvero l’anima – si domanda -, così freddolosa, così imbronciata,/ dovrà camminare per sempre su questo ghiacciaio, / a piedi nudi, e sola, neppure capace di compitare/ la sua preghiera d’infanzia, / per sempre punita col freddo della sua freddezza?”. Il poeta affronta sempre e solo quello che crede di “poter” dire. Per esempio, il destino della vecchiaia ormai sperimentata, che è poi quello di tutti i vecchi: “rappezzare d’invisibile il giorno”. Di poterlo dire attraverso l’effimero della parola poetica: momento irripetibile, attimo “prima che ceda l’aria cui ti addossi” / ancora per un po’, il bel muro blu”. E di poterlo dire non più che “con frammenti”, con quelle parole che sembrano “prese dalle pieghe di azzurri stendardi / che un vento ignoto esalta, e tu non puoi / leggervi alcuna frase fino in fondo”.
L’oscurità
L’oscurità “ci chiama ogni volta a non farci mai detentori del dono di luce che ci viene offerto, bensì a riconoscerci debitori dell’istante di coloro senza i quali questa luce sarebbe inservibile”; l’oscurità non è forzatamente la morte, se una morte in vita, il vuoto. La vicenda è quella di un Maestro e di Allievo uno che si nega e l’atro che vuol capire. È la vita che passa, e che sembra mutare all’approssimarsi del giro di boa. Jacottet è un poeta la sua prosa mi appassiona meno che i suoi versi, ma occorre riconoscere che il tema da lui proposto è denso, densissimo.
– 08/09/1998
Un testo in prosa del poeta svizzero Philippe Jaccottet
L’oscurità melanconica
Di Philippe Jaccottet, settantatreenne poeta e scrittore svizzero di lingua e residenza francese, Fazi pubblica L’oscurità, un testo in prosa del ‘61 tradotto e curato da Gianluca Manzi; poesie di Jaccottet, invece, sono state tradotte da Fabio Pusterla per Einaudi e Marcos y Marcos e da Antonella Anedda per la Fondazione Piazzolla.L’oscurità offre un perfetto ritratto della condizione spirituale in cui si trova il melanconico, colpito da un male che é esperienza gnoseologica, incontro con la verità che “nulla é, eccetto il male di saperlo”. Jaccottet descrive molto bene il sentimento del melanconico di fronte al proliferare delle forme vitali, percepito come spreco, caos; e il suo sentimento del tempo come potere che deforma, rendendoli vani e insignificanti, i “frammenti più chiari del nostro passato”. La prosa é aulica, eloquente, astratta; certa particolare sensibilità, per gli effetti di luce, per esempio, o per le sotterranee relazioni fra i fenomeni, ci ricordano che Jaccottet é un poeta e che per lui il reale si trasforma facilmente in visione.La trama, anche se a rigore non si dovrebbe parlare di trama per un libro del genere, piuttosto di un pretesto per la dolorosa escursione dell’autore fra confessione, riflessione e saggio, é presto detta: il narratore torna dopo una lunga assenza nella grande città (Parigi) della sua giovinezza, e scopre che il maestro, la persona di cui aveva cercato l’amicizia e gli insegnamenti negli anni di formazione, ha abbandonato tutto per nascondersi in attesa della morte nello squallore e nella solitudine di una tana di periferia.E’ qui che il nostro narratore gli fa visita: l’incontro notturno é occupato dal penoso monologo del prigioniero dell’oscurità, che cerca di spiegare le ragioni di quella che il suo discepolo vede come una resa, un tradimento dei suoi stessi insegnamenti. Nella seconda parte del racconto l’antico discepolo ripercorre il passato alla ricerca dell’errore, del punto esatto in cui nel suo cammino l’amico ha imboccato la strada sbagliata. O era quella caduta, per il suo maestro e per ogni uomo lucido, inevitabile? La risposta che egli trova dopo essere uscito a sua volta dal cerchio magico della luce, dopo essere stato raggiunto “dal soffio del tempo”, da quella che il romanziere Martin Amis ha chiamato “l’informazione”, e cioé dalla rivelazione che la morte non é solo una minaccia spaventosa e tuttavia lontana, ma “ciò che da quel momento distrugge la vita”; la risposta è che “è proprio a partire da quell’arresto che tutto comincia, al contrario, e che prima d’aver conosciuto quel rifiuto la vita non é che un sogno distruttibile; che, a partire da quello, essa diventa indistruttibile pericolo”. La citazione é lunga, non lascia spazio ad altro, ma in essa Jaccottet dice l’essenziale.
L’oscurità per Jacottet
Il 24 ottobre c’é l’assegnazione del Premio Mondello nell’edizione 1998. Il riconoscimento per “l’opera poetica di autore straniero” é assegnato a Philippe Jacottet. Ad Alba Donati, per la raccolta La repubblica contadina, edizioni City Lights Italia, è stato assegnato il riconoscimento per “l’opera prima poetica o narrativa di autore italiano” : un segno di attenzione per l’intensità umana, e quasi per una rinnovata coralità, anche generazionale, di questa raccolta.Philippe Jacottet, è stato molto tradotto in Italia, con partecipazione, da parte di giovani autori ( se ne è data sempre notizia su queste pagine). L’occasione più recente, nell’anno in corso, è l’Oscurità per le edizioni Fazi. La cura è di Gianluca Manzi che aveva già tradotto di Jacottet Elementi di un sogno. si tratta di una traduzione condotta con rigore, duttilità. Un saggio in postfazione, dal titolo Metà della vita, offre una cifra di lettura per un testo di non facile catalogazione: un apprezzamento non secondario va forse dato alla limpidezza espressiva, nell’orizzonte dei riferimenti, degli stimoli critici.L’Oscurità é una prosa, una narrazione riconducibile a diversi piani di lettura: c’é certamente una componente autobiografica, psicologica; e c’é una riflessione sulla scrittura nella sua frontiera terminale di oscurità e di bagliore del vuoto, di smarrimento. Il libro, uscito nel 1961 da Gallimard, cadeva in un momento di interrogazione, di crisi da parte dell’autore. Era la condizione ( come è detto nelle ultime pagine) di “metà della vita”, dove lungi dall’aver raggiunto l’acme dell’esistenza, si vedeva davanti l’amarezza, la privazione d’amore, l’anima disillusa. E’ la “metà della vita”, come condizione non strettamente anagrafica, dove l’orizzonte infinito dello stupore, della passione, cede al limite irriducibile dell’esistenza. Nelle ragioni espressive della narrazione, un discepolo, dopo un soggiorno all’estero, decide di incontrare il suo maestro, l’uomo che aveva rappresentato il punto più significativo di luce intellettuale. Ritrova il maestro solo, in una stanza, in un anonimo palazzo, di un’anonima periferia. Con sconcerto, ritrova ora nella figura del maestro la stizza, il rancore, il “sipario dell’oscurità”.Il maestro é una proiezione speculare; é quel punto di non ritorno, di oscurità, da cui solo può nascere un principio di scrittura: “Non ho smesso di respirare, non smetto di sentire qualcosa che respira davanti a me nella notte. Non posso dire altro. L’autentico amore é un soffio…”.Philippe Jacottet é nato nel 1925 a Moudon in Svizzera. Ha trovato le sue ragioni culturali ed espressive a Parigi. Da molti anni vive a Grignan, un paesino della Provenza settentrionale. In questo suo libro che ha pagine toccanti di nudità, di tersità, di inverno interiore, forse si avverte maggiormente (rispetto ad altri suoi libri) l’originaria componente svizzera: il non luogo, l’irrealtà, non “una qualche natura preesistente” (come ha scritto Starobinski per Jacottet): quel puro enigma del volto umano nel silenzio del cielo, di ogni illusione.