Fausto Bertinotti - Lidia Menapace - Marco Revelli
Nonviolenza
Le ragioni del pacifismo
Per un secolo e mezzo, la sinistra di ispirazione marxista ha pensato al cambiamento radicale dei rapporti economici e di potere in maniera mai disgiunta dalla possibilità dell’utilizzo delle armi. In anni recenti, l’emergere dei movimenti pacifisti e antiglobalizzazione, e il dialogo instaurato fra essi e le sinistre radicali hanno condotto a un profondo ripensamento in senso critico della relazione fra cambiamento e violenza. La visione non violenta cattura ormai larghe schiere di elettori e cittadini, uno schieramento trasversale che riempie le piazze dell’Occidente con cadenza e intensità regolari. Oggi più che mai, a una vasta maggioranza dei popoli occidentali, appare necessaria e praticabile l’opzione non violenta in politica estera e nei rapporti sociali. Da angolature differenti, tre fra i più illustri esponenti della sinistra politica e intellettuale affrontano il tema in questo libro. Bertinotti esprime qui nella forma più chiara e concisa la necessità di mutare la cultura della sinistra in una direzione non violenta, nella convinzione che la critica che oggi il movimento porta al capitalismo può prendere corpo e forma solo all’interno di una idea non violenta del mondo e dei rapporti umani. Menapace individua nella storia dei movimenti operaio e femminista i germi delle pratiche e del pensiero non violenti di oggi, e mostra come le socialdemocrazie occidentali e i regimi sovietici abbiano costituito un fronte unico, apologetico della “violenza necessaria”. Revelli denuncia senza conciliazioni i momenti più violenti nella storia dell’ideologia e della politica delle sinistre e s’interroga su come innestare a pieno titolo la non violenza fra i principi irrinunciabili della sinistra. Un pamphlet leggibile e denso, che si rivolge non solo ai lettori della sinistra ma anche a chiunque sia interessato a riflettere sulla reale necessità della violenza, e sulle sue conseguenze disastrose, nel panorama dissestato dei rapporti economici e politici globali.
– 01/08/2007
La precarietà una condizione materiale
– 01/03/2006
Violenza e non violenza
– 04/03/2005
La tigre pacifista
Non si può che salutare come un fatto estremamente positivo l’avvicinamento tra la sinistra, anche quella estrema, e i tanti movimenti cattolici di impegno sociale; tra l’altro, un simile avvicinamento ,con le suore che marciano per la pace insieme a comunisti più o meno rifondati, con anarchici, sindacalisti, giovani dei centri sociali non sempre alieni dallo spinello e dal libero amore, contribuisce potentemente a mettere in luce la differenza tra la Chiesa “vera”, cioè la comunità dei credenti, e la gerarchia cattolica ancora sempre invischiata nella sua cronica soggezione eai poteri vigenti, purché rispettosi dei suoi privilegi. Il senso di edificazione autentica che si prova leggendo i tre saggi che compongono il denso libretto scritto da Bertinotti, Menapace, Revelli per illustrare le ragioni del pacifismo non è dunque affatto ingiustificato: come sembrano lontani i tempi di Renato Curcio che fondava le Br anche ispirato dalla sua formazione cattolica. Bertinotti crede che Brecht avesse torto quando scriveva che “noi che volevamo edificare la gentilezza non potemmo essere gentili”, un motto che ha nutrito tante generazioni di “rivoluzionari”. Per lo più, il discorso del libro professa un pacifismo non assoluto, ma fondato sulle condizioni dell’oggi (atomica ecc.), anche se il giudizio negativo sulla violenza rivoluzionaria sembra spesso estendersi persino alla rivoluzione russa del 1917. Revelli è ben consapevole che oggi la classe operaia è comunque costretta a difendere “a difendere con le unghie e coi denti le sue passate conquiste”. Si condividono certo le tesi dei tre autori; la domanda su come instaurare un mondo pacificato resta, consapevolmente, aperta. Il “balzo di tigre” di Benjamin non potrà comunque mai ridursi allo scodinzolare di un cane.
– 28/11/2004
I comunisti ci ripensano, il fine non giustifica più
Prima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti combattono. Poi vinci”. Se fino a qualche anno fa ci avessero detto che questa celebre frase di Gandhi sarebbe stata adottata e fatta propria da alcuni dei maggiori esponenti della sinistra più radicale ci avremmo creduto a stento. Come infatti conciliare alcune, tesi portate avanti dai padri del comunismo, da Marx a Engels a Kautsky a Trotzkij, per non parlare di Lenin o Stalin; gli eccessi e le vendette di alcune frange della nostra Resistenza; o, infine, le rivendicazioni operaie e studentesche degli anni settanta (quelle del “lotta dura senza paura”, de “il codice penale deve essere cambiato, uccidere un fascista non e reato” del “se questo è il prezzo vogliamo la “guerra; vogliamo vedervi finir sottoterra”), con questa professione di non violenza che diventa elemento indissolubile dall’essere comunisti oggi? Semplice, non si conciliano. Si ripensano, si indagano con occhio critico nel tentativo di capire cosa non ha.funzionino e M cerca di salvare quello che ancora è vivo di quella storia e che può facilmente essere indicato come una linea di continuità con il neopacifismo odierno: i movimenti femministi di inizio secolo, Rosa Luxemburg, le prime lotte operaie e sindacali. E quanto fanno in un breve e in-tensissimo saggio tre tra i più autorevoli esponenti della sinistra, il leader di Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti, l’ex staffetta della resistenza e una delle “madri fondatrici” de “il manifesto” Lidia Menapace, e il politologo Marco Revelli, che in questo “Nonviolenza” difendono la necessità e la concretezza di una scelta pacifista come baluardo contro la barbarie globale, unica opzione in grado di promuovere un cambiamento reale.
Quel “fine che giustifica i mezzi” che, da Machiavelli in poi, ha caratterizzato tutta la storia della politica dell’età moderna, oggi non giustifica più nulla. “Abbiamo creduto – scrive Bertinotti – che tutto si potesse giustificare, anche le cose più terribili, di fronte al grande cambiamento promesso, all’utopia che finalmente si realizzava. Oggi quei mezzi non solo sono terribili e orribili, ma sono inefficaci, non hanno alcuna possibilità di portarci alla vittoria, non producono neppure nell’immaginario un’alternativa eli società. Oggi non i- più proponibile un’autonomia dei mez-L i dai fini”. La presa di distanza dal passato è netta e da parte del leader di Rifondazione molto più coraggiosa, tenendo conto del suo elettorato, di alcune
timide ammissioni avanzate dagli esponenti Pci-Pds-Ds nelle varie tappe della loro evoluzione. “Nel Novecento noi abbiamo perso. Nel secolo in cui si è realizzata la più intensa ascesa delle masse alla politica e si è tentato di distruggere la società capitalistica, noi non abbiamo vinto la sfida (…). Dobbiamo ripensare cosa in quel secolo non ha funzionato. Siamo cos’i sicuri, per esempio, che fosse necessario che i marinai di Kron-stadt fossero massacrati dall’Armata Rossa? E siamo cosi sicuri che per difendere la rivoluzione si dovessero costruire Stati autoritari? E ancora: siamo cosi certi che i gulag fossero l’unico modo possibile per tenere a freno gli egoismi di una popolazione che era definita nemica della rivoluzione? (…) Noi siamo stati definitivamente sconfitti ma portiamo nel nostro bagaglio una colpa storica grandissima, di cui dobbiamo liberarci per guardare al futuro”. Oggi, di fronte al nuovo sfruttamento umano e al nuovo modo di produzione capitalistico, alla guerra preventiva di Bush, che non fa che peggiorare la situazione e che viene giustificata con il “fine”, al terrorismo, “repellente anche nel fine, perche propone un modello politico regressivo e un modello di società distruttivo delle persone e delle libertà”, la risposta sta per il leader di Rifondazione all’interno di una visione pacifica dei rapporti umani. La svolta, secondo i tre autori, è in quel movimento pacifista globale, al momento “ignorato”, “deriso” e “combattuto” come hanno dimostrato i terribili eventi del G8 di Genova, e nella risposta che ha saputo dare, rifiutando di scendere sul terreno al quale la repressione dell’avversario voleva costringerli. Dal movimento pacifista parte un percorso alternativo che necessita una “discontinuità nella nostra cultura” un “balzo di tigre”, un deporre il paradigma “guerra alla guerra” per sostituirlo con “pace versus guerra”. È questa secondo Menapace l’unica alternativa alla barbarie: “A Genova avvenne un superamento del machiavellismo e l’affermazione etica della necessità che la mutazione delle cose presenti, parta dalla critica della separazione e non coerenza tra mezzi e fini”. Del passato appunto si salvano i movimenti femminili e quelli sindacali, ma anche coloro che durante la guerra e la dittatura fecero resistenza passiva, il resto va rifiutato..
Questo non vuoi dire di certo che si rinuncia a combattere il capitalismo, che “non può essere non violento” o che ubbia ragione la socialdemocrazia europea, in crisi secondo l’autrice, appunto perché pensa “che il capitalismo sia riformabile”, anche se dimenn’ca di spiegarci quale possa essere l’alternativa viste le performance non certo brillanti del comunismo anche sul fronte economico, ma semplicemente che va contrastato con mezzi non violenti. Cos’i come vanno contrastate le guerre, perché “la violenza militare legittimata dagli Stati può essere deposta dalla renitenza popolare, sconfitta dal rifiuto, resa inutile dalla non collaborazione”. La sinistra deve per potersi dichiarare tale, “per t’orza superare 11 milìtarismo”. Come? E qui si scende nel terreno dell’ipotetico, teorifzando Stati senza spese militari, l’uscita dalla Nato, un’Europa neutrale, una riforma dell’Orni, del Consiglio di sicurezza, del potere di veto.
Tutto questo richiederà, come sottolinea Revelli, “una metamorfosi esistenziale”, un “mutamento antropologico che bandisca dal proprio repertorio comportamentale ogni forma concreta, ma anche linguistica di violenza”. Il che può essere senza dubbio augurabile e positivo, ma ‘emiamo che . compagni comunisti pass..:-.•.. da un’utopia a un’altra. Il rischio c’è, ed e concreto, anche se questa dovrebbe fare meno danni dalla precedente.
– 10/12/2004
Quando Bertinotti dialoga con Gandhi
Prima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti combattono. Poi vinci», diceva il Mahatma Gandhi. Aveva ragione lui, ovvio, ma viviamo in una civiltà che si sarà anche buttata alle spalle “gli orrori del Novecento” – ma no di certo, se d buongiorno si vede dal mattino, quelli del Duemila .. – e dove, insieme, tutto è mercé. Consumata e logora anche agli occhi di chi la fabbrica, non solo di chi la usa. Dalle magliette del Che indossate da giovani no global come “logo”e che nulla sanno di lui ai voti dei cattolici (e protestanti) strappati, negli Usa e forse anche in Europa, in futuro, m nome di un Imperochevuolecolpi-rcancora e in cambio di un misero piatto di lenticchie su aborto e famiglia. E anche Gandhi campeggia su cartelloni pubbh-citari che chiedono, come m un asfissiante bmovie: «Se avesse potuto comunicare cosi, oggi che mondo sarebbe?». Un mondo orribile, appunto «Un altro mondo è possibile», ha provato a dire per anni, invece, almeno da Seartle in poi – l’abbiamo presa un po’ larga, per una recensione, è vero – il Movimento Al segretario di Rifondazione, Fausto Bertinotti, che pochi giorni fa ha presentato le tesi per il VI (e forse ultimo) congresso del Prc, le maiuscole piacciono. Bertinoni però di recente non ne sbaglia una: da «Gli Usa non sono “il Nemico”, i terroristi islamici si» a « De Gasperi grande statista del secolo». Fino, appunto, alla migliore di tutte, leit motiv delle sue tesi congressuali contro cui si sono scagliati i (suoi) detriti del Novecento, dai post stalinisti ai post trotzkisti: «la violenza non e una virtù».
Deve anche essersi accorto, Bertinotti, che qualcosa non funziona più nell’analisi sul popolo no-new global che dovrebbe cambiare il mondo sostituendosi – nei suoi desiderata – alla classe operaia Lo si vede, per dire, dalla polemica – che francamente speravamo tutù di poterci risparmiare – sugli “espropri proletari”. Pratica collettiva che molti giovani no global approvano e Bertinotti condanna. Il leader di Rifondazione ha chiamato da tempo alcuni tra i cervelli migliori nell’area della “sinistra alternativa” per cercare di affrontare il compito inane Quella della ricostruzione di uno spazio e di un agire politico che vada, appunto, ben “oltre il Novecento”. Il volumetto, denso e intelligente, s’intitola Nonviolenza. Le ragioni del pacifismo ed è stato scritto a sei inani da lui, Lidia Menapace e Marco Revelli. Vale la pena leggerlo. Gli autori lo definiscono di «rara urgenza». Siamo d’accordo.
– 01/11/2004
C’è chi alla sinistra
C’è chi alla sinistra estrema non si è dato pace per la svolta non violenta del segretario di Rifondazione comunista. E c’è chi invece (e sono moltissimi) ha accolto la scelta pacifista con sollievo, e non solo nell’ala moderata del centrosinistra. Ora arriva anche un libro a spiegare per bocca (o penna) dello stesso Fausto Bertinotti, di Lidia Menapace e Marco Rovelli, questa “svolta storica”. Lo pubblica con grande tempismo Fazi col titolo inequivocabile “Non violenza. Manifesto per una sinistra pacifista”. Gli autori ricorrono alla storia del movimento operaio per individuare i germi del pensiero non violento di oggi, con lo scopo di dimostrare agli scettici che di scelta coerente e legittima si tratta.
– 13/11/2004
La non violenza opzione della sinistra
Tutto comincia a Trieste nel dicembre 2003 con un discorso ormai famoso sulle foibe e sull”orrore che non giustifica altro orrore. La Grande alleanza democratica non esiste ancora e l”idea di far parte di una ampia coalizione di centrosinistra che contempla anche i riformisti, se c”è, non è ancora né precisa né definita. Ma Fausto Bertinotti prende il toro per le corna e apre all”interno della sinistra radicale il dibattito-tanto arduo quanto ineludibile – sull”uso politico della violenza. E per quello che si definisce il partito della «Rifondazione comunista» – uno degli eredi del più grande partito comunista d”occidente – la cosa, se pur tardiva, non è indolore. Lo testimonia con chiarezza il forum collettivo ancora aperto su Liberazione, lo mostrano le cronache più recenti. Nel corteo del shopssurfing di sabato scorso a Roma uno degli striscioni portati dai Disobbedienti riguardava proprio il segretario del Prc: «Bertinotti, o sei una parte del problema o sei parte della soluzione». Va da sé, a una bella fetta del movimento, a cui il segretario sostiene di dovere molto sul piano strettamente politico, non va giù l”alleanza con Prodi. Ma la madre di ogni dissenso ha la sua radice proprio lì, in quell”abiura della violenza che per gli antagonisti cancella il diritto alla resistenza di fronte all”aggressività indiscriminata di un sistema che delegittima ogni forma di diritto scaricando tonnellate di bombe sulle popolazioni inermi. L”analisi da cui è partito di Bertinotti trova spazio e sviluppo in un volume agile in libreria oggi – Non violenza. Le ragioni del pacifismo – edito da Fazi Editore e firmato, oltre che dal segretario del Prc, da Lidia Menapace e Marco Revelli. Affini per storia e cultura, gli autori affrontano però la questione da angoli di visuale differenti. Mentre Menapace ragiona sul rapporto fra il pacifismo e il movimento delle donne, Revelli, da filosofo marxista, legge la relazione fra non violenza e marxismo denunciando i momenti più violenti nella storia delle ideologie rivoluzionarie. Quella di Bertinotti è naturalmente una prospettiva tutta politica: «Quando parlo di non violenza e quando dico, insieme a molti altri che la non violenza è oggi un punto Importante di approdo, ma anche un punto di partenza verso un”ulteriore ricerca, sono mosso da una convinzione precisa. La non violenza è la condizione essenziale per portare alla luce e far vivere la radicalità di una critica alla società contemporanea». Un”opzione dirompente che nella storia del movimento operaio del Novecento «non ha avuto un ruolo forte ed egemone» ma che oggi risulta determinate per vincere la sfida politica posta dal nuovo scenario, intemo e internazionale, che la globalizzazione porta con sé. Una sfida che nel ”900 si è persa ma che invece, per Bertinotti, si può e si deve vincere: battendosi anche con la radicalità più estrema, ma fuori dalla logica della violenza.