Arnaldo Colasanti

Novanta

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Il conformismo della cultura italiana

Collana:
Numero collana:
4
Pagine:
158
Codice ISBN:
8881120305
Prezzo cartaceo:
€ 11,00
Data pubblicazione:
01-10-1996

Novanta è un saggio polemico e irriverente sullo stato attuale della cultura italiana. Nel più grande successo editoriale di questi anni, il romanzo di Susanna Tamaro, si nasconde, secondo Colasanti, un populismo più o meno chic e becero. Nell’instant book del Papa vengono lette le possibilità e i rischi del cattolicesimo; mentre nell’ultimo libro filosofico di Eugenio Scalfari sono verificate le ambiguità del laicismo. Il fondo vero di ogni saggio è la domanda: in Italia si può essere veramente liberi?

NOVANTA – RECENSIONI

Monica Filograno, LA SCRITTURA
– 03/10/1996

 

Arnaldo Colasanti, Novanta. Il conformismo della cultura italiana.

 

Recensire una raccolta di recensioni, delle quali peraltro alcune già edite in altre circostanze e non tutte propriamente attuali e recenti, significherebbe fare un’operazione simile a quella del borgesiano Pierre Menard che vorrebbe riscrivere il “Don Chisciotte” – sì, proprio quello già scritto da Cervantes -, e si correrebbe così il rischio di dare vita ad un’infinita catena di libri che si riflettono eternamente l’uno nell’altro, senza soluzione di continuità. Se questo è il rischio, teniamocene allora lontani nel proporre alcune riflessioni su “Novanta” di Arnaldo Colasanti, che raccoglie sì una serie di recensioni del capo redattore di “Nuovi Argomenti” – che in verità dai testi recensiti prende più che altro spunti per la discussione -, ma che propone soprattutto un’idea di letteratura, forte e quasi sorprendente per la sua, ormai insolita, “militanza etica”. Al di là del merito dei singoli interventi, come quello su “Va’ dove ti porta il cuore” di Susanna Tamaro ( nel quale purtroppo però non mi sembra accettabile la possibilità di far risalire il populismo del linguaggio e dei buoni sentimenti della Tamaro alla ben più nobile idea di “leggerezza” di Calvino, “piccolo ma insuperabile alchimista dell’ambiguità” che secondo Colasanti sarebbe stato “cattivo maestro del provincialismo e della minorità italiana”! ) , che ovviamente dà adito ad una tirata più che legittima sulle sorti del “senso” nell’attuale ricerca letteraria italiana; oppure quello, tanto insolito quanto interessante, sul “libro del Papa”, “Varcare le soglie della speranza” (in cui, con toni da Michelstaedter, Colasanti lamenta l’assenza di una vera “persuasione”, sacrificata a favore della continuità che dichiara, ma non riesce a reggere il mistero); al di là dei contenuti specifici, si diceva, ciò che preme è l’urgenza di una riflessione sul senso della letteratura che fa da filo rosso a tutti questi testi. Apparentemente estraneo ad un’idea postuma di letteratura o alla ricerca di suoi riferimenti interni, Colasanti predica “l’impellente necessità di un valore”, il bisogno di una letteratura che sia un atto di senso, che non rappresenti la realtà, ma che consenta al reale di incontrarsi con essa, in uno sforzo morale di presenza: presenza del giudizio, concretezza di analisi (appello questo rivolto soprattutto ai critici), serietà nella lettura. In poche parole, valori che potrebbero sembrare retorici solo a chi guardasse ad essi distrattamente, senza considerare quanto poco siano presenti in chi produce cultura (eccezionale è in questo senso la tirata contro i professori universitari) ed è ben lontano dal modello dell'”uomo profondo” – il “persuaso” diremmo ancora con Michelstaedter – che Colasanti addita. In una struttura ben leggibile, nonostante alcune impennate un po’ più ostiche, che procede per giustapposizioni continue e per incessanti insistenza sul valore della letteratura (bella la definizione di scrittura come “teoria”, “etica delle figure”, e l’idea della lettura come gesto simile alla stessa scrittura, perché con esse si vuole comprendere e cambiare il mondo), Colasanti arriva a contrapporre al conformismo da cui era partito la complessità di cui, nell’ultimo capitolo – che propone poi l’unica recensione inedita, quella su “The remains of the day” di Kazuo Ishiguro, di cui colpisce la “concentrazione mentale” e la “profondità teoretica”, su “Faces in the water” di Janet Frame e su alcuni testi di Oe Kenzaburo -, tesse l’elogio. È la complessità che conduce ad una riappropriazione teoretica del vivere: la poesia è qui la richiesta assoluta, la letteratura si fa eversione, conversione, solitudine, “la felicità che cambia la vita” e che conduce, questa volta sì, alla persuasione, allo “slancio del pensiero”, alla verità dello spirito che non dobbiamo mai stancarci di pretendere e di ricercare, perché di riflesso la letteratura cessi di essere un atto di “irresponsabilità”, e si ponga invece come “realtà creativa”, “verità conoscitiva”, continuità che stringa in sé “memoria ed espressività”

Massimo Onofri, L’UNITÀ
– 03/10/1996

 

Mio caro saggista, la critica letteraria non è una predica!

 

E’ quanto mai apprezzabile, in tempi come questi, che ‘Novanta, Il conformismo della cultura italiana’, il libro di Arnaldo Colasanti che l’editore Fazi ha da poco stampato, si presenti come un libro propositivo: “Mi piacerebbe che questo libro fosse un’esplosione di desiderio costruttivo, un’occasione che non divida ma unisca nella voglia di lavoro”. Tuttavia mi pare che il modo migliore per onorare questo intento sia proprio quello di spiegare le ragioni che da Colasanti dividono. Voglio prima dire, però, quel che del libro mi ha impressionato: il suo assoluto anacronismo. Che Colasanti non si trovi a suo agio nel tempo che gli è toccato in sorte, è fatto che possiamo dare per assodato: “Si può rischiare di vivere un’intera esistenza in mezzo ai libri, senza però trovare un0esperienza che ti cambi la vita e ti renda più profondo. Non è, in fondo, proprio questa la cosa più importante: come cambiare la vita ?” Ma il punto fondamentale è un altro: la voce di Colasanti è di quelle che vengono da molto lontano, e che, per trovare il giusto tono, non esitano ad annullare, con disinvoltura, le distanze tra i secoli. I classici, per Colasanti, non sono classici, ma gli spiriti magni di una comunità contemporanea, quella che tiene in vita una corrispondenza di amorosi sensi, nel nome dell’unica religione possibile, quella delle lettere. Per la stessa ragione i contemporanei sono tali solo se possono esser letti come classici. Siamo al secondo anacronismo: Colasanti legge i libri con lo stesso fervore con cui, nel 1914, li leggeva Renato Serra. Attenzione però: non il Serra laico e problematico di Ezio Raimondi, piuttosto il “padrone di un discorso che costituisce un enigma”, insomma il Serra di Carlo Bo. Questo anacronismo, nato da posizioni che non potrebbero essere più lontane dalle mie, gli consente, bisogna ammetterlo, una libertà ed una sincerità invidiabili, che meritano attenzione. E’ sempre tale anacronismo a spingere Colasanti sul crinale di una critica “forte”, incauta, ma finalmente ansiosa di gerarchie di valore, di un nuovo canone, in nome di una serietà morale troppo spesso calpestata dal mercato, dal giornalismo, dall’università: è un merito che gli va riconosciuto. Ho parlato di libertà e sincerità: ma può la critica accontentarsi della sincerità di una confessione ? E ancora: può la letteratura valere al pari di una conversione ? Può un saggio tradursi semplicemente nella storia di una dichiarazione di fede, quella, appunto, nella letteratura ? Colasanti non ha dubbi: “La letteratura, se è ancora qualcosa, è quella generosità spirituale, questo desiderio di operare e dio pensare con fede, con abbandono, con nudità”. Generosità spirituale, innocenza, grazia, misericordia, fede, pazienza e dolore: tutto, nel libro di Colasanti, si accende nella luce del riscatto e della redenzione. L’avventura critica in direzione della poesia, quale “splendida debolezza riconciliata”, gli diventa sempre un itinerario cristologico. I moniti di Colasanti, strenuo nemico di ogni piacere del testo, sono quelli di un profeta disarmato, o meglio, armato solo del suo strazio. Ma non è qui, solo qui, il punto dolente, e neppure nell’azzeramento di un’idea della critica come sistema di competenze tecniche, come sfida storico-antropologica, come laicismo integrale, come dialettica etica e civile, come storia dell’errore e memoria di sé: il punto dolente sta piuttosto nel rischio che questo libro, giocato come una suntuosa omelia sempre uguale e sé stessa, finisca per incorrere, per eccesso di passione, proprio nel peccato più detestato da Colasanti: un’indifferenza, tutta speciale in questo caso, nei confronti della realtà. Se la critica diventa un dramma spirituale, sia pure quello della croce, poco conta lo scenario entro cui il dramma si consuma. Peccato che Colasanti, forse il più ingegnoso tra i critici della sua generazione, abbia voluto scrivere un elogio della complessità, quella complessità che abbisogna, appunto, di un’escatologia: il profondiamo, io credo, è una delle insidie più pericolose del Novecento. E tuttavia quando sua musa diventa quella della semplicità, Colasanti è impagabile: come nella pagina, veramente bella, che dedica a Boris Pasternak.

Mirella Serri, LA STAMPA
– 03/10/1996

 

“I nuovi scrittori?” Sono solo marionette”

 

Maledetti scrittori di successo. Osserviamo le classifiche del 1996: ci sono Susanna Tamaro, Alessandro Baricco, Enrico Brizzi, paolo Maurensig. Guardateli bene, sono gli emblemi più significativi di una “cultura lenta e imbalsamata. Sono la testimonianza di una civiltà imbarbarita”. Lo sostiene Arnaldo Colasanti nel volume di saggi che sta per andare in libreria, “Novanta”. Il conformismo della cultura italiana (Fazi editore). L’enfant terrible della critica italiana che su Nuovi Argomenti ha spesso lanciato strali e invettive contro i romanzieri italiani, in quest’ultimo libro non rinuncia al suo ruolo, mena botte da orbi e traccia un quadro molto negativo della letteratura di questi anni. La definisce drogata da “mode e topografie generazionali e giovanilistiche”, succube di tutto il chiacchiericcio che si sviluppa sulle pagine dei giornali e che influenza il mercato. Gli scrittori non sono esenti da colpe poiché accettano di traformarsi in pupazzetti segnati da altrettante etichette. Ecco qualche assaggio di scrittore-marionetta secondo Colasanti: “La buonista Zocchi é complementare al cattivo-ésimpatico Ammaniti”; “Giulio Mozzi impersona il falso giovane, il falso ingenuo”. “Barbero si diverte a recitare a memoria Umberto Eco…”. In generale trionfa poi quel populismo che ci ha imposto di vedere “i nostri figli attaccati ai libretti di De Crescenzo, della Tamaro, al vuoto stonato di Maurensig, al rancore di Gesso e di Starnone”. Gli intellettuali italiani in questo drammatico panorama descritto da Colasanti hanno grandi responsabilità impegnati come sono a rispondere a polemiche “inutili e farraginose”, anon reagire all’esemplificazione giornalistica. Chi si salva? Nei confronti di critici e scrittori che non appartengono alla sua generazione il trentenne Colasanti si trasforma in buonista e difende a spada tratta (senza che ve ne sia bisogno dal momento che sono tutti notissimi e apprezzati) un eccellente manipolo che secondo lui sarebbe incompreso dalla maggioranza degli intellettuali e dei lettori. Nel gruppo c’è il presidente della Rai Enzo Siciliano (direttore della rivista che l’ha lanciato come critico): “Con la sua dote straordinaria, la levigatezza, un perfetto colpo d’occhio, quella sensibilità piena di fatica e colma di invenzioni…”; il critico Cesare Garboli con la sua “sagacia, l’intelligenza acutissima”. negli stessi termini entusiastici Colasanti si esprime nei confronti di Pietro Citati e poi parla della “lucidità” di Pier Vincenzo Mengaldo, del “rigore e dell’inquietudine” di Luigi Baldacci, dello “sforzo eversivo e radicale” di Franco Cordelli. Salvo queste rare eccezioni manca dunque nella nostra cultura un senso civile e padagogico. Anche perché gli scritori di successo (soprattutto quelli arrivati agli onori della hit-parade da Andrea De Carlo a Erri De Luca) contribuiscono ad azzerare ogni valore proprio con le loro affermazioni presso il pubblico, gonfiate ad arte da un’editoria e da un mercato perennemente in fibrillazione. Come reagiscono i romanzieri alla provocazione di Colasanti? Sentono poi veramnete il bisogno di impegnarsi in uno sforzo pedagogico? “Colasanti mi apparenta alla Tamaro – sostiene la Mazzucco -, è assurdo. L’unico elemento che abbiamo in comune è che pubblichiamo dalla stessa casa editrice. Non credo affatto poi che la letteratura debba impegnarsi, questa sollecitazione mi ricorda tanto il realismo socialista e i guasti che ha combinato. E’ vero che l’editoria crea mode, ma mi pare che Colasanti stesso si faccia suggestionare. Un critico deve essere coraggioso e andare oltre”. Entusiasta, ovviamente, è Ammaniti: “Le idee di Colasanti mi convincono sempre. Ha scritto sul prossimo numero di Nuovi Argomenti un saggio sul mio libro che mi è sembrato notevole. Non credo che la letteratura debba insegnare qualcosa: magari può curare l’insonnia”. “Giovani” scrittori, narratori della pulp-fiction, “buonisti”, “cannibali”: è proprio vero che i romanzieri tramite l’etichettamento subiscono sulle pagine dei giornali una manipolazione così forte tanto da perdere ogni autorità? “certo. Avverto che la mia immagine viene deformata dalle definizioni che mi vengono appiccicate addosso – osserva il narratore Aldo Nove, nome di punta della recentissima antologia einaudiana Gioventù cannibale – ma d’altra parte capisco che è un mezzo per far conoscere un prodotto”. Insomma la letteratura è libera o prigioniera nelle maglie di questo mostruoso sistema? “Sbaglia Colasanti – osserva Tiziano Scarpa, altro “cannibale” -. Oggi i romanzieri e i poeti sono individui assolutamente privi di potere. E per questo tanto più liberi di dire ciò che vogliono, svincolati da mode e chiacchiericcio culturale”.

Giovanna Zucconi, L’UNITÀ
– 11/04/1996

 

Fede e letteratura

 

Le prime pagine del romanzo “A voce alta” di Bernhard Schlink, appena pubblicato da Garzanti, sono bellissime. C’è un erotismo diffuso, senza pudori e senza rancori (è la storia dell’amore, nella Germania degli anni Cinquanta, fra un quindicenne di buona famiglia e una donna molto più vecchia di lui dal passato oscuro che emergerà, in maniera dolorosa e commovente, nella seconda parte del libro). C’è, nel racconto do questa educazione sentimentale che mette fra parenti ogni differenza di classe e di età, un’atmosfera che può essere descritta soltanto con un aggettivo un po’ all’antica: struggente. Così come serenamente all’antica è la scrittura, moderata e cantabile. Parlo del romanzo di Bernhard Schlink anche perché mette in scena un’idea che trovo enunciata, in forma teorica, in un libro che esce in questi giorni: la raccolta di saggi del critico romano Arnaldo Colasanti intitolato “Novanta”; il sottotitolo è “Il conformismo della cultura italiana”, l’editore è Fazi. Nonostante il titolo e,, ancora una volta, la quarta di copertina (che recita: “la letteratura italiana contemporanea? Ormai è diventata un giochino. La poesia? Una questione risolta, con la tecnica delle riserve indiane. E la tanto acclamata critica letteraria? Niente di che: stremata e diabetica fra giornalismo e accademia), quello di Colasanti non è un pamphlet più o meno polemico sull’industria culturale. E’, invece, una preghiera, un atto di fede nella letteratura, nella sua “complessività e profondità”. C’è una frase che si ripete, come una mantra, come un credo: “I libri devono cambiare la vita”. Nel romanzo di Schlink, questo accade, fa parte del racconto: la lettura è dapprima un gioco erotico (il ragazzino legge “a voce alta” alla donna, ed è anche questo un modo per scoprire la passione), poi è l’elemento che deciderà la vita dei due personaggi. Naturalmente, Colasanti non scrive romanzi ma saggi critici. Leggere alcune sue pagine è davvero come guardare qualcuno che prega: ti affascina ma non lo capisci bene, è al di là. Le frasi avanzano per astrazioni e per elisioni, con una forza centrifuga (è quello che succede, nella narrativa, in uno scrittore coetaneo di Colasanti, Aurelio Picca). Forse non è un modo per non concedere nulla a quella leggibilità e quella leggerezza che Colasanti stigmatizza come il Male, ovvero il “conformismo della cultura italiana”, la sua frivolezza, il suo populismo. Conformismo di chi? Di quelli che Colasanti chiama i poteri forti: “nulla, né il mercato editoriale, né la politica culturale dei partiti, né l’università e tanto meno il giornalismo, sanno pensare gerarchie e strutture per informare davvero su ciò che conti, su ciò che è vero della nostra cultura contemporanea e su ciò che , viceversa, risulta prodotto di intrattenimento”. i valori, dunque, e la verità: “… un libro è vero e bello solo se nutre, se resta una ricerca di profondità, se è un modo per non scantonare se stessi ma per dichiarare la necessità di una motivazione reale… I libri dei nostri contemporanei devono essere letti così, come si farebbe per i classici. cioè con fede”. E poi: “una cultura incapace di assumersi la capacità di “educare”, di costruire sui valori un ideale di comunità, è una cultura del ricatto, è una cultura in cui è impossibile pensare la libertà, il progetto, persino la poesia”. Fede, educazione, progetto: quella che parla così è una critica idealista, che con Colasanti e altri riaffiora oggi dopo gli anni dell’ideologia, della semiotica, dell’analisi testuale; che ha i suoi progenitori in Giovanni Boine o in Renato Serra, che crede nella letteratura come strumento morale, se non moralistico. Che ha talvolta la forza dell’invettiva e dell’indignazione (“Accuso Susanna Tamaro di simonia”, dice ad esempio Colasanti in un saggio che fece qualche scalpore quando uscì, come altri qui racconti, su “Nuovi argomenti”). Ma in nome di che cosa, da quale punto di vista? il ripetuto appello allo studio, all’educazione, ai “libri che cambiano la vita”, forse lo chiarisce: lettura e critica sono un esercizio spirituale, alla ricerca personale di una fede. E i libri vengono “attraversati” non tanto per acquisirne il valore letterario ma per ricercarvi altro: un’etica, un’ideale, una forma di preghiera.

IL FOGLIO
– 03/10/1996

 

Gli scrittori alla moda sotto il tiro di Colasanti, gli anni 80 sotto quello di Alfabeta

 

Qualcosa, sicuramente, è andato storto in una comunità letteraria che ha sostituito la domanda “si può ancora scrivere dopo Auschwitz?” con “si può ancora scrivere dopo Pulp Fiction?”. Perlomeno, é sfuggito il senso delle proporzioni. Ma si é anche perso per strada, suggerisce Arnaldo Colasanti, un ideale di letteratura legato alla profondità dell’esperienza umana, una letteratura che sia insieme “radicale e poetica”: e dunque non consolatoria, non smarrita tra la ricerca del consenso e la vuota leggerezza del gioco formale. Sotto accusa, ci sono gli scrittori alla moda, le scelte mercantili degli editori, i giornalisti culturali, e infine, per completare questo cahier de doleances alimentato dal fuoco dell’invettiva, gli accademici, impegnati a coltivare soprattutto l’orticello del proprio potere. Dei sei capitoli, la “pars construens” è affidata all’ultimo, in cui Colasanti, come un sopravvissuto che si aggiri in uno scenario post-atomico, cerca di ritrovare tra i libri letti le voci più intense e significative. Come quelle, spesso considerate difficili, di Kazuo Ishiguro e Oe Kenzaburo, anglogiapponese il primo, giapponese doc il secondo. Ci sono la neozelandese Janet Frame e l’israeliano Yaakov Shabtai, ma di italiani neanche l’ombra. Gli unici nomi di casa nostra, peraltro confinati nella “pars destruens” sono autori “anomali”, tre casi limite in cui “il combattimento quotidiano dello scrittore con le parole” (Anthony Burgess) passa in secondo piano. In ordine di apparizione : Susanna Tamaro, Papa, Eugenio Scalfari. Alla fine, resta la curiosità di sapere se, tra le centinaia di titoli usciti, ci sia oppure no qualche nome su cui scommettere. O se invece il romanzo italiano é davvero, come par di capire tra le righe, “tutto sbagliato, tutto da rifare”. Colasanti si schiera a favore di un’attività critica che sia “una notizia vera intorno all’esistenza”. Ma così, togliendo il ruolo più umile di scrittura ancillare, che serva da guida al lettore, ci lascia in mare aperto senza bussola.

Novanta - RASSEGNA STAMPA

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