ORTI DI GUERRA – RECENSIONI
Edoardo Albinati ORTI DI GUERRA Fazi, 189 pp. – lire 25.000
“Un’economia di guerra applicata alla prosa”. Aforismi e invettive, lettere e traduzioni di canzoni, ritagli di giornali e aneddoti”, così è costruito il libro – diario di Edoardo Albinati. All’inizio dell’assedio di Sarajevo sui muri di un ufficio postale fu scritto: “Questa è Serbia!”. Un’altra mano aveva aggiunto poco sotto: “No, idiota, questo è un ufficio postale !”. Semi gettati qua e là nel corso di tre anni. Un po’ a caso un po’ per gioco. A volte per riflettere. Coltivati in piccoli spazi strappati all’aridità della vita. Simili agli orti di guerra. Piccoli appezzamenti buoni, in tempo di penuria per fa crescere le poche cose necessarie . orti in cui prolificano una quantità di semi diversi: Dante Alighieri e i Led Zeppelin, Louis Ferdinand Céline e Hieronymus Bosch, memorie e desideri, col disincanto di chi ente di aver alle spalle la gioventù: “All’epoca in cui l’uomo più famoso d’Italia era un giudice rapito dalle Br e il secondo Eddie Merckx”. E oggi si trova a fare i conti con un mondo totalmente altro. “I miei studenti ( i meglio! ) leggono Julius Evola, vogliono tornare pagani, si rasano metà della testa, mi prestano il giubbotto, la moto, mi chiedono chi è Evola e perché non mi piace: ma come posso spiegarglielo? Chi sono io?”.
I frutti proibiti della terra insanguinata e l’amorevole cura di un singolare cecchino all’incontrario
“Orti di Guerra” è un libro di doloranti, divertenti, divertite, dolorose micro-scritture, non riconducibili né alla forma letteraria del racconto né alla poesia. Semmai, nella loro coerente, vermeeriana precisione e nella legittima ambizione di raccontare, gli Orti mi pare si avvicinino di più a un’idea frammentata e (scusate, bisogna proprio che lo scriva, non trovo aggettivo migliore) fuzzy di romanzo. Questo librarsi sopra l’idea stessa di forma letteraria, però, non porta con sé nessuno dei suoi usuali sottoprodotti: arroganza, autorialità, elitarietà compaciuta. No, negli Orti viene semplicemente ad esser mostrata la brillantezza del lavoro di uno scrittore importante; di un poeta che ha intrapreso per noi l’impaniante viaggio nel guano del quotidiano, e ce l’ha raccontato. A noi che stiamo a casa nostra, e si vive tutto in un altro modo, e si guarda la televisione; e si ha altri pensieri. A noi che poeti non siamo davvero. Ed è commovente l’esibito, disperato sforzo di Albinati di mantenere una distanza dal materiale esplosivo che maneggia, proprio mentre si sente, si sente bene che ogni cosa che scrive lo dilania; tantoché a leggere il libro, l’autore mi è parso diventare, certe volte, una specie di lewiscarrolesco cecchino all’incontrario, che invece di uccidere, venga ferito da ogni cosa entri nel mirino crociato del suo fucile di precisione, e ciò nonostante debba continuare a guardare, tutto e tutti. E’ un libro pieno di perle: quel commosso, totalmente inatteso ricordo di Kurt Cobain (orto n. 124), i fiori da portare sulla tomba del topo Algernon (orto n. 12), e via e via e via. Si sarà capito, io sono un fan di Edoardo Albinati. Quando ho cominciato a scrivere, era a lui e a Sandro veronesi che volevo assomigliare. Alla loro qualità di scrittura, aspiravo. E a leggere oggi, dopo dieci anni, un libro come “Orti di guerra” mi é venuto da pensare che sarebbe bello se qualche Principe dei commentatori letterari italiani provasse a sortire dall’Argomento dell’Anno, quella impronunciabile parola americana di quattro lettere che no, non é fuck, e si occupasse, invece, solo dei libri scritti da chi Sa Scrivere. Mica per niente, ma se questo accadesse, forse tra vent’anni libri come “Orti di guerra’” o “Gli sfiorati” sarebbero ancora disponibili in libreria, e letti nelle scuole, e i miei figlioli non avrebbero da chiedermi le ormai vetuste e sottolineate copie, di cui lo so già, sarò molto, molto geloso.