Bernard Stiegler

Passare all’atto

COD: 248e84433679 Categorie: , Tag:

Collana:
Numero collana:
104
Pagine:
96
Codice ISBN:
9788881126071
Prezzo cartaceo:
€ 13,00
Data pubblicazione:
25-03-2005

Traduzione di Elena Imbergamo
Prefazione di Roberto Esposito

La stella nascente del pensiero francese in un raffinato e commovente memoir autobiografico-filosofico sulla prigionia e sul modo in cui si diventa filosofi. Questo breve libro di Bernard Stiegler prende le mosse da una conferenza tenuta dall’autore nel 2003 al Centre Pompidou sul tema: «Come si diventa filosofi?». Stiegler vi confessò di essersi avvicinato alla filosofia durante un’incarcerazione per rapina a mano armata, durata ben cinque anni (fra il ’78 e l’83). La rivelazione sconvolse l’uditorio e il mondo culturale francese: nessuno immaginava che l’intellettuale dall’apparenza di «gran borghese» («Libération») e considerato un «aristocratico del pensiero» («Idées») fosse in realtà un ex galeotto. Nell’isolamento, nella sospensione quasi ascetica della prigionia, Stiegler racconta di aver rintracciato proprio nella riflessione filosofica una nuova possibilità vitale. Ma non si tratta solo di una vicenda personale: ripensando l’origine della filosofia occidentale – anche Socrate fu condannato dalle leggi dello Stato –, l’autore spiega attraverso la propria vicenda come nasca “in generale” la necessità di pensare. Passare all’atto è un’opera dai molteplici livelli: un testo filosofico di rara raffinatezza, ma anche un commovente memoir che oltralpe ha generato discussioni sulle tribune più popolari, dai rotocalchi femminili alla televisione.

«Raro ed esemplare. […] Questo testo è un atto e un momento di verità».
«La Quinzaine litteraire»

«Stiegler ha vissuto la prigione come un laboratorio filosofico. Il mondo non c’era più. L’unica speranza che gli restava era la conoscenza, i libri, la scrittura».
«Libération»

PASSARE ALL’ATTO – RECENSIONI

 

Umberto Galimberti, D – REPUBBLICA
– 20/01/2007

 

Il filosofo elettronico

 

 

 

Elio Matassi, L’AVANTI!
– 01/02/2006

 

Stiegler, intrecciare la vita e la filosofia

 

 

 

Sandro Cappelletto, TTL – LA STAMPA
– 19/06/2005

 

Il filosofo della libidine da ex rapinatore alla laurea con Derrida

 

IN quella cella, in cui l’ambiente vitale dell’anima intellettiva, il mondo, mi faceva radical-mente difetto, avevo forse la. possibilità di osservare questo mondo come un pesce volante al di sopra del suo elemento”. Una cella lunga cinque anni, dal 1978 al 1983; oggi, quel trentenne condannato per rapina a mano armata (pensava di autofinanziarsi per ripianare i debiti di un fallimento commerciale) è diret-tore di ricerca dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Socia-les. Si è laureato con Jacques Derrida, ha pubblicato e continua a pubblicare molti libri e pamphlet, le sue capacità orga-nizzative, l’attenzione per le nuo-ve tecnologie, l’insistenza con cui parla della necessità, della “libido” e del modo che le arti possono assumere nell’esprimer-la, hanno persuaso Pierre Boulez a nominarlo direttore dell’Ircam, l’Istituto di Ricerca e Coordina-mento Acustico/ Musica1e che il compositore ha fondato a Parigi e che continua a rappresentare uno dei più creativi laboratori di informatica musicale.
Bernard Stiegler è stato a Ro-ma, per presentare l’edizione ita-liana del suo nuovo libro Passare all’atto e, invitato dal Festival Musica e Scienza e dal Goethe Institut per parlare del “consumo della cultura”. L’attualità pre-meva e il filosofo non ha nasco-sto la sua soddisfazione per la vittoria del “No” al referendum con cui i francesi hanno bocciato la Costituzione europea.

“Ho votato e fatto campagna per il No, ma sono a favore dell’ingresso della Turchia nell’ Unione Europea. Nessuna con-traddizione: credo fermamente nell’Europa, ma le cinquecento, illeggibili pagine di questa Costituzione sanciscono il principio della de-sublimazione, livellano il basso l’idea d’Europa. L’anima soffre, le tecno1ogie hanno colonizzato il nostro bisogno di parte-citazione al divino, ma questa Costituzione si preoccupa solo della libertà di concorrenza. Vo-glio difendere il capitalismo con-tro la sua stessa intossicazione”.
Seducente giocatore del linguaggio, conferenziere che ama tracciare nessi costanti tra il quotidiano e l’eterno, tra le icone di un telefonino e la sentenza di Nietzsche a proposito della “.mor-te di Dio”, Stiegler insiste sulla “necessità del desiderio, che non è calcolabile, mentre oggi vivia-mo nel tempo della calcolabilità generalizzata. Siamo handicappati nel nostro desiderio- dalla compulsione e ripetizione rituale del Cretino”.

A dura conferma dell’oscurità del quotidiano, cita il titolo tom-bale di un rapporto riservato inviato sei mesi fa dalle Prefetture francesi all’Eliseo: “I francesi non credono più a niente”. Inve-ce, “1’Europa si costruisce se si è capaci di creare nuove credenze, nuove consistenze”.
In questa strategia le arti hanno un molo fondamentale, perché “rivelano l’inatteso: come mi accade, ogni volta che vedo un film di Fellini, anche se l’ho già visto e rivisto”. L’artista, oggi, “deve conoscere le dieci parole fondamentali de1 pensiero tecnologico” ,e sapere, che “l’uomo è una bomba libidina-le”. La musica, in particolare, “detemporalizzata”, perché si sottrae aI consumo immediato del tempo, ogni volta ricreando se stessa nell’esecuzione dell’in-terprete che la rende nella propria soggettività e la restituisce nel rapporto col pubblico, cioè “nel circuito sociale della libido che va ricostruito”.
Il libro Passare all’atto, tradot-to con molto scrupolo da Elena Imbergamo, nasce nel 2003 come conferenza tenuta al Centre Geor-ges Pompidou, , su sollecitazione di Marianne Alphant che aveva posto, a numerosi intellettua1i la stessa domanda: “Come si diventa filosofi nell’intimità e nel segre-to della propria vita?”. Allora, Stiegler rivelò il passato carcera-rio, il cammino percorso “nell’im-mobilità paziente del silenzio, nel-la virtù della prigione”. Appassio-nò il pubblico dicendo che “noi tutti in potenza saremmo votati alla filosofia, che allora costitui-rebbe un dono comune a tutti”; ricordò. la riflessione di Sigmund Freud sui bambini quando “fan-no tutte le loro domande a casac-cio, che servono da ricambio a quell’unica domanda che non fan-no e che è la domanda sull’origine”. La filosofia è questo: ricerca dell’origine, “ciò che costituisce ogni individuazione umana, ossia ogni desiderio”.

Infedele al proprio passato, al proprio smarrirsi, fedele alla ricerca di una “attività intensa-mente socializzata, come la scrittura”, in lotta contro l’oblio cui gli uomini oggi subiscono del perché si fa quello che si fa”, Stiegler ben si riflette in quell’immagine del “pesce vo-lante”, quando esce e poi si rituffa nell’acqua che lo nutre, voracemente.

 

Maurizio Schoepflin, AVVENIRE
– 23/09/2005

 

Stiegler dal carcere alla filosofia con Derrida

 

 

 

Beppe Sebaste, L’UNITÀ
– 18/04/2005

 

Siamo animali politici. Perciò amiamo l’Arte

 

“Come si diventa filosofi?”. E’ il titolo di una serie di conferenze organizzate un paio d’anni fa al Centre Pompidou di Parigi. Una di esse, tenuta da Bernard Stiegler – noto soprattutto per un dialogo con Jaques Derida sul tema del trattamento mediatico della verità (Echographies de la télévision, 1996), è stata tradotta da testimonianza si Stiegler riguarda l’origine del suo divenire filosofo: i cinque anni – dal 1978 al 1983 – trascorsi in carcere per scontare un crimine comune. La rivelazione fece scalpore, anche perché nulla nei successivi venticinque anni di vita del filosofo, tantomeno il suo aspetto e il suo eloquio, avevano fatto supporre questo “segreto”.
il divenire filosofi, spiega Stiegler, non è una vocazione come si intende ad esempio per l’artista o il poeta. Non è la risposta a un appello, né la filosofia è un dono speciale, ma connaturata a ogni uomo, almeno in potenza. Il “passare all’atto” (la formula platonica è rielaborata da Aristotele) è una conversione, o trasformazione, innescata magari da un “accidente” (un twist of fate, cantava Bob Dylan), come fu il carcere e la conseguente mancanza del mondo nella vita di Stiegler. Tuttavia non si tratta di un’autobiografia, ma di una riflessione sull’ origine e la posta in gioco del filosofare. Precisando che vale nella filosofia il principio della performatività che fu enunciata da Austin: “dire è fare”. In particolare la filosofia è un dire che è già fare anche nel senso di Marx, secondo il quale si dovrebbe passare dall’interpretazione alla trasformazione (del mondo); ovvero, in linguaggio filosofico, perseguire l’interpretazione dell’essere mediante la sua trasformazione nel divenire.
E’ il cuore del pensiero di Bernard Stiegler: l’uomo nasce mancante, in difetto, e il ricorso alla tecnica risale al mito dei fratelli Epimeteo e Prometeo. Il primo, incaricato da Zeus di distribuire le qualità proprie a ogni specie vivente, si dimenticò di dotare gli “uomini”, già mortali, della loro qualità. Il secondo cercò di sopperire al difetto rubando il fuoco agli dei, ma rendendolo così definitivo. “Tecnica” vuol dire naturalmente anche la scrittura (e io suoi derivati sempre più artificiali), condannata da Platone come farmaco peggiore del male, “ipomnesi”, di contro all’anamnesi che è la vera memoria e la vera conoscenza. La scrittura è protesi, ma anche le leggi, la medicina, la scienza, la costruzione di patti civili, sociale e giuridici. La tecnica, come l’essere difettoso, è insomma connaturata all’uomo, che proprio per questo si proietta nel divenire. Ovvero innesta la sua originaria potenzialità filosofica nella politica, concatenando l’”io” al noi della comunità (della città, direbbe Socrate). Poiché il problema dell’origine – Stiegler lo chiama l’oriente – si dà solo nei modi del disorientamento, e filosofia è cercare di orientare gli latri uomini e se stessi. Allora la domanda è, era da sempre, “come si diventa politici?”. Se l’uomo è già un “animale politico” a quali competenze deve affidarsi il politico di professione? La domanda è tra i compiti che ci proponiamo, nella speranza, forse anche nel timore, suscitate qui e ora dalle aspettative di un nuovo orizzonte, di un diverso “oriente”. Politico.

 

Alessandra Iadicicco, IL GIORNALE
– 09/05/2005

 

Una filosofia da galera

 

Né l’atto puro, né l’atto primo (e unico) di un socratico dramma sceneggiato dal migliore degli allievi sui monologhi originali del maestro. Impuro anzi: colpevole, criminale era stato l’atto di Bernard Stiegler che, se non ebbe l’incotaminata idealità del gesto gentiliano, pure non era privo di una drammaticità tutta filosofica e ben degna di Socrate.
Come Socrate, anche il filosofo francese oggi, poco più che cinquantenne, è da oltre un ventennio considerato tra i più significativi pensatori d’Oltralpe fu rinchiuso tra le mura di una prigione prima di attingere la suprema libertà del pensiero. Con una differenza. Il grande greco subì l’esecuzione alla fine della carriera: un gallo ad Asclepio, una tazza di cicuta e via, fuori dal carcere ateniese, dai vincoli legali della polis giustizialista, dalla prigionia del corpo, barriera mortale all’immortalità dell’anima. Il transalpino, invece, compì l’azione prima ancora di sapersi filosofo: per potersi scoprire un filosofo.
Aveva ventisei anni quando –nel 1979 – azzardò “passare all’atto” e si arrischiò in un tentativo di rapina. Al giovinastro, ignaro del proprio destino e del tutto ignorante di filosofia -“fino a quella data non avevo mai fatto filosofia, non ho neanche frequentato l’ultimo anno delle superiori”, avrebbe ricordato in seguito -, non andò bene. Colto sul fatto, fu arrestato, processato e condannato a un quinquennio di detenzione scontata tra il carcere di Saint Michel a Tolosa e il centro di Muret. Fu allora che, sull’eco dell’appello dio una corte, udì il richiamo inappellabile della vocazione speculativa. Consentì docilmente alla sua sorte: non aveva alternative. Né ebbe l’occasione di sfoderare il socratico coraggio rifiutando un invito all’evasione: gli mancava un Critone che, discepolo devoto e complice, gliene desse la chance. Ma fece talmente sul serio con l’occasione “rieducativa” offerta dall’istituto penitenziario della terza repubblica che, dopo cinque anni – giusto la durata di un corso di laurea – ne uscì maître à penser.
Che cosa gli capitò dietro le sbarre racconta l’ex detenuto e ormai veterano teoreta nel discorso sul Passare all’atto (Fazi, pagg. 90, euro 12,50) che, pronunciato davanti a un pubblico di professori al Centre Pompidou nel 2003, non suonava come un’autodifesa né come un’Apologia, ma fu (e resta) un’impressionante confessione e rivelazione. Colpisce, ovvio, venire a sapere che il teorico più originale della generazione successiva “ai valori Deleuze, Foucault Lyotard” (tale lo presenta il politologo Roberto Esposito nella prefazione), interlocutore privilegiato di Derida (con cui scrisse a quattro mani l’Ecografia della televisione, edito da Raffaello Cortina nel 1997), direttore dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, prolifico saggista e autore di una monumentale pentalogia sulla tecnica (La Tecnique et les temps)venga fuori da giovanili precedenti malavitosi e – letteralmente – dalla gattabuia. Più ancora colpisce, però, la singolare similarità tra l’esperienza filosofica e l’esperienza carceraria.
A sedurlo alla passione per l’essenziale fu, infatti, l’essenziale nudità di quella cella in cui, sulla panca dove dormiva, mangiava e lavorava aveva inciso il motto di Mallarmé: “La mia fame che frutti qui non gusta, ritrova / in loro dotta mancanza un uguale sapore”. A introdurlo all’interrogazione speculativa era stato l’interrogatorio della corte che lo aveva messo di fronte alla più radicale questione di responsabilità. Il rituale giudiziario del processo, infine, gli avrebbe aperto uno dopo l’altro tutti i passaggi di quel “processo di individuazione” attraversato fino all’apertura dei cancelli della sua gabbia e teorizzato poi dalle cattedre dell’università. Tutte metafore da prendere alla lettera: si confronti la successiva produzione saggistica con la sua fedina penale.
Il primo varco si era dunque rotto con la vergognosa infrazione, costata quella reclusione che lo avrebbe calato – racconta Stiegler senza giri di parole – dentro il modello originario di ogni esistenza filosofica, quello socratico. Non solo nei panni del Socrate galeotto: dopo la rottura, infatti, il primo passo di riparazione fu quello della ricerca delle origini, condotta con la domanda sull’archè, il principio primo, che appunto inaugura la storia della filosofia. In principio, con Socrate, Stiegler trovò non già un peccato originale – sebbene, ammessa la propria colpa, lo eleggesse come guida assimilando la propria condizione a quella di un condannato a morte -, bensì la paradossale posizione dell’individuo eccezionale, identificato e escluso come tale dalla collettività. Sensibilizzato dalla dialettica dell’ateniese, poi, toccò quei limiti costituivi della libertà (vigilata dall’occhiuta giustizia) che, maldestramente, aveva cercato di travalicare con la trasgressione e che, quotidianamente, misurava sul perimetro della sua stanza blindata.
Guardando il sole, a scacchi, indosso la tuta a strisce, avvertita penosamente l’estrazione da una normalità che, fuori nel mondo, non era mai riuscito a vedere. Come un pesce preso nella rete e tirato a riva: “L’acqua è ciò che il pesce vede sempre e non vede mai”, gli insegnava Aristotele incoraggiandolo a tradurre “in atto” un talento riflessivo ancora tutto potenziale. Con il filosofo peripatetico il passo all’atto prese un significato tutto diverso: divenne passaggio all’”attività” immobile e silenziosa (“evitavo perfino le “passeggiate” che rompevano quel silenzio che ho imparato ad amare”) della lettura e della scrittura. Divenne molto muto “soliloquio di pensiero” intrattenuto, via via che procedeva nello studio, con Husserl, Heiddeger, Wittgenstein, Derrida…Guardacaso tutti critici che, con un colpo di coda, si erano tratti fuori dall’umano elemento – il linguaggio – per sfiorarne la superficie e sondarne le profondità. Come loro (e con loro) filosoficamente fuor d’acqua. Stiegler alla fine fu rigettato nel mondo, nel 1983. Da allora ci nuota con destrezza, ma non senza qualche rimpianto: “nei venticinque anni trascorsi da allora – racconta oggi ripensando al vecchio bagno penale – il mondo si è rivelato spaventosamente inospitale”. Ambigua conclusione della sua avventura : vale tanto come un invito a pensare quanto come un’istigazione al delitto. Ma, nei due casi, è la degna conclusione della parabola di un maestro di pensiero: Socrate non fu forse accusato di corrompere i suoi fidati discepoli?

 

Massimo Nava, CORRIERE DELLA SERA
– 30/05/2005

 

Stiegler, dal mitra agli studi di filosofia

 

PARIGI – Per il prigioniero, le pareti di una cella sono un sempre e un mai. Anche l’individuo senza conoscenza si muove nel mondo-prigione come il pesce nell’acqua, ambiente naturale, però invisibile e incompreso, secondo la metafora di Aristotele. L’uomo, se si trasforma in pesce volante, diventa un surfista del sapere: la momentanea estraniazione dall’acqua illumina la mente. E fa ritrovare, come in Proust, il linguaggio del tempo e della memoria, che è forse l’unico trucco che l’uomo ha a disposizione per inventarsi un senso e chiamarlo Dio, o per riconoscere gli altri esseri, nella comunione dei codici e dei valori. Allora la cella diventa una forma di libertà. Il mondo a scacchi, dietro le sbarre, è più riconoscibile. Il silenzio dell’isolamento fa parlare l’anima. Il monastero benedettino, la navigazione solitaria, l’esilio volontario, la vacanza nell’eremo, con molti libri, sono altre forme di “surf” filosofico.
Bernard Stiegler il pesce volante lo ha fatto per cinque anni nel penitenziario di Tolosa, dal 1978 al 1983. Le rapine in banca a mano armata prevedevano una pena molto più lunga, ma i giudici avevano in mente I Miserabili quando pronunciarono la sentenza. Riconobbero l’attenuante della giovane età o forse intuirono le qualità nascoste dall’alcool, dalla delusione della militanza politica, dal divorzio e dai debiti, dallo spirito ribelle che, per molti di quella generazione, avrebbe potuto risolversi nel tunnel del terrorismo.
La galera divenne condizione totalizzante: niente visite, nessun compagno di cella, rifiuto di permessi e persino dell’ora d’aria. Cinque anni di silenzio, di letture nella biblioteca del carcere, di pensieri e scritti, ripercorrendo la storia della filosofia, da Socrate ad Heiddeger. Nel penitenziario, Stiegler, che non aveva finito il liceo, si laureò con Derrida. I suoi scritti cominciarono a circolare nel mondo accademico.
Sono passati vent’anni da quel “trauma necessario di sospensione dell’esperienza di esistere”. Oggi è uno dei pensatori francesi più originali, con studi che abbracciano la psicoanalisi, il pensiero scientifico e le comunicazioni di massa, che Stiegler considera campo fondamentale della moderna esplorazione. ” Il dominio delle nuove tecniche – sostiene – offre un’inedita possibilità di civilizzazione, di interpretazione dell’altro, di conoscenza interdisciplinare, di nuovo Illuminismo, come al tempo dell’Enciclopedia di Diderot. Non è assurdo parlare di tecnologia dello spirito”. Se Paul Ricoeur e Pierre Bourdieu hanno un erede, oggi è probabilmente Stiegler.
Non si diventa “surfisti” dell’anima se non si comprende che il mondo esterno, il mondo delle libertà, sta diventando una “spaventosa prigione inospitale”, Babele di linguaggi indistinti in cui l’alternativa, come nella cella di Tolosa, è il risveglio nel soliloquio. “L’umanità – dice – passa ore davanti alla televisione. Il mio passato e la mia memoria diventano il passato e la memoria della televisione. Praticamente, un passato e una memoria uguale per tutti, omologati da guru dell’informazione, i quali confondono anziché chiarire, annebbiano anziché illuminare, essendo i nuovi profeti del virtuale”.
Una società basata sull’individualità dei desideri e sulla libertà della scelta diventa paradossalmente una società senza sogni e uniforme, in balia di stereotipi del linguaggio, comportamenti, sessuali e persino biologici. Per Stiegler, la chirurgia estetica è una forma di perversione del singolo che non accetta il tempo, i ricordi, la memoria. La tele-realtà è una forma di perversione sessuale dell’individuo che non riesce più a stare con gli altri, ad amare gl ialtri. La pubblicità, il cui principio attivo è la cattura della libido del consumatore, ha reso invece indifferenti gli oggetti del desidero.
“Ma è inutile piangere sui limiti del mezzo: occorre studiare il modo di riappropriarsene per arrestare la discesa verso l’asocialità. La libido, anziché favorire la civilizzazione, come sosteneva Freud, rimane allo stato di pulsione, con tutte le sue forme patologiche di annientamento delle coscienze e delle personalità. Questo annientamento è all’origine del mondo-prigione. La polis di cui parlava Socrate, la città con i suoi codici, i suoi valori e le sue leggi, non è più la forma della civilizzazione, ma un contenitore di messaggi indistinguibili al cittadino telespettatore, che perde capacità di attenzione e di “critica”.
Per Stiegler, la “patologia della televisione” è la metafora e il segnale dell’ultimo stadio di crisi del modello capitalistico: il capitalismo finanziario senza produttori e senza consumatori, avviato all’autodistruzione per saturazione. “Non occorre essere marxisti, come non lo sono più io, per comprendere un percorso sotto gli occhi di tutti. E’ questa discesa verso l’asocialità che produce violenza, terrorismo, paura dell’altro, scontro di culture e civiltà, passività di fronte a qualsiasi evento, anche il più tragico come la guerra. Anche il linguaggio della guerra è incomprensibile: non si parla di morte, ma di danni collaterali”.
La filosofia diventa un processo di riconciliazione dell’Io con gli altri, una forma di ecologia dello spirito:”L’indivisibilità dell’individuo è in costante contraddizione con la ricerca dell’unità con gli altri. Si definisce così un’individuazione psichica e collettiva”.
In fondo, quello di Stiegler, è un ritorno alle origini della filosofia, all’animale politico di Aristotele, al rapporto di Socrate con le leggi della polische lo condanna a morte, alla ricerca del bene e dell’origine del mondo di Platone. Il ritorno di Stiegler è il “riconoscimento” del mondo dentro la cella della nostra mente, la nascita di una nuova spiritualità e di un nuovo umanesimo. “Ero della generazione convinta che Dio fosse morto. La prigionia non mi ha fatto trovare Dio e nemmeno l’ascesi, ma mi ha fatto capire che la speculazione filosofica passa da sempre per la “gestione” di Dio, delle nostre origini, del senso della nostra esistenza. Non ho avuto la rivelazione spirituale, ma ho scoperto che l’assenza dal mondo provocava in me, come in un naufrago della storia o come nella sublimazione della poesia, una percezione più brillante della realtà. Le rapine in banca non erano un atto di ribellione ideologia, ma una forma di suicidio o di alienazione completa: un episodio traumatico, non molto diverso da quelli che possono capitare a qualsiasi essere umano. Il sogno da interpretare, l’incontro rivelatore, il colpo di fulmine, la tragedia personale. Quando sono uscito di prigione, ho avvertito un atto d’more verso il mondo. Avevo ritrovato i codici”.

 

PSYCHOLOGIES
– 01/04/2005

 

LA FRASE “La prigione è un buon pensare”

 

Per paradossale che possa sembrare, Stiegler, il filosofo acclamato dal mondo culturale francese e direttore dell’Ircam di Parigi (Institut de recherche er coordination acoustique/musique) definisce i 5 anni (fra il ’78 e l’83) trascorsi dietro le sbarre per rapina a mano armata “anni di gioia”. Nella sospensione quasi ascetica del carcere racconta di aver trovato, proprio nella riflessione filosofica, “una nuova possibilità vitale”. Ma la vicenda personale è solo il punto di partenza per una complessa dissertazione sulla necessità di tornare a pensare. “Più gli uomini pensano, più sono liberi”. Un j’accuse contro il “pensiero unico”, dilagante nel mondo globalizzato.

 

 

Massimiliano Panarari, IL GIORNALE DI REGGIO
– 18/04/2005

 

UN LIBRO DI FILOSOFIA DI ALTISSIMO LIVELLO

 

Un piccolo aureo libretto; l’opera di un filosofo francese sofisticato e raffinato, scelto con attenzione da Vincenzo Ostuni, capo editor delle collane di saggistica della casa editrice Fazi. Passare all’atto (Fazi, pp. 96, euro 14,50) di Bernard Stiegler è il testo di quello che il mondo culturale transalpino ha di volta in volta definito un “aristocratico del pensiero” e un “gran borghese”, in ogni caso la stella nascente del firmamento intellettuale della “Repubblica delle lettere”. L’elemento interessante, e stupefacente, è che questo libro venne concepito in carcere; e non da un “prigioniero politico”, ma da una persona reclusa (tra 1978 e ’83) per “rapina a mano armata”, destinata in seguito a diventare uno degli intellettuali più interessanti oggi in circolazione (direttore di ricerca all’Ecole des Hautes Etudes e direttore dell’Ircam, l’avveniristico e multidisciplinare istituto parigino di ricerche e sperimentazioni sulla musica e l’acustica). Intrecciando esperienza autobiografica e riflessione di alto livello, e rammentandoci come la filosofia occidentale prese le mosse proprio dalla reclusione di Socrate, Stiegler ci consegna una toccante e profonda raccolta di pensieri su cosa muove gli uomini e le donne a porsi domande e riflettere; su quali sono, in una parola, le motivazioni che inducono a fare filosofia.

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