Madame de La Fayette
Zayde
Introduzione di Emanuele Trevi
Traduzione di Catherine McGilvray
Ambientata nella Spagna tra IX e X secolo Zayde è una “histoire éspagnole” e tradisce quel gusto per un esotismo non di maniera che, tra romanzo picaresco e novella araba, non si limita all’intreccio d’evasione, ma sconfina nell’onirica moltiplicazione di fatti, figure e sentimenti, quasi a rispecchiare la realtà nell’illusione fantastica. Zayde è una dama musulmana, segretamente convertita al cristianesimo, che possiede il ritratto di un uomo destinato, secondo le predizioni di un indovino, a sposarla. Si tratta dell’eroe Consalvo che la soccorre durante un naufragio. I due s’innamorano ma Zayde in un primo momento non lo riconosce. Soltanto dopo una serie di avventure viene a sapere che è l’uomo del ritratto.
“Noi non abbiamo nessun potere sulle nostre passioni”.
Scritto a più mani, ma attribuito a Madamr de La Fayette, “Zayde” è il grande romanzo sulla galanteria e sulla vita mondana francese
MAI COSI’ DOLCE FU L’AVVENTURA DI UN NAUFRAGO
Due uomini in fuga dal loro passato si incontrano per caso in un punto remoto della costa spagnola. Entrambi sono stati felici, ricchi e potenti, ma hanno finito per perdere tutto ciò che amavano. Alfonso è tormentato dalla consapevolezza di essere responsabile della propria sventura perché ha lasciato che una folle gelosia distruggesse la sua vita. Consalvo, invece, è stato crudelmente ingannato dalle persone che più gli erano care, dalla donna amata, dall’amico migliore, dal suo stesso principe. Ma ecco che una bellissima straniera, miracolosamente scampata al naufragio della sua nave, viene ad affrancare Consalvo dalle sofferenze del passato e a riaccendere in lui la fiamma della passione amorosa. La misteriosa fanciulla che parla in una lingua sconosciuta si chiama “Zayde” e le sue peripezie, destinate a concludersi con il matrimonio con Consalvo, costituiscono il filo conduttore dell’omonimo romanzo di Madame de La Fayette, oggi riproposto ai lettori italiani dall’editore Fazi nella traduzione di Catherine Mc Gilvray (pagg. 203, lire 25.000). Come ricorda Emanuele Trevi nella sua densa prefazione, “Zayde” è un romanzo sperimentale, di notevole interesse storico letterario, che soffre di figurare nell’intervallo tra due capolavori. I due tomi di “Zayde” vedevano infatti la luce tra l’autunno del 1669 e il gennaio del 1671, sette anni dopo “La Princesse de Montpensier” – il racconto breve che aveva segnato il folgorante debutto narrativo di Madame de La Fayette – e sette anni prima della pubblicazione de “La Princesse de Clèves”. Ed è indubbio che il confronto non giova a “Zayde”. Scritta a più mani, l’opera era il frutto della collaborazione tra alcune delle personalità intellettuali di maggior spicco dell’epoca. Per l’invenzione dell’impianto narrativo, Madame de La Fayette si era infatti avvalsa della consulenza di Segrais che, con le sue “Nouvelles Francaises” (1656), aveva aperto la via al romanzo francese moderno, ed accettava ora di assumere ufficialmente la paternità di “Zayde”. Per un perfetto controllo della lingua e dello stile, la marchesa aveva invece chiesto aiuto al vescovo d’Avranches, il grande erudito Pierre-Daniel Huet. Ma il “sapiente universale” non si era limitato a interventi di carattere formale e aveva scritto per “Zayde” un lungo saggio sull’origine dei romanzi e sul loro statuto letterario, rivendicando piena dignità artistica a un genere fino ad allora disprezzato dai dotti e combattuto dagli uomini di Chiesa, e dotandolo di una antica e illustre genealogia. Appare invece più difficile definire con precisione il contributo dato da La Rochefoucauld a “Zayde”. Esiste un passo autografo del romanzo scritto con la calligrafia del duca che porta sul retro l’indicazione “Monsieur de La Rochefoucauld dà questo da giudicare”. Da circa quattro anni l’autore delle “Maximes” era diventato l’amico del cuore di Madame de La Fayette e il romanzo dovette certamente occupare un posto importante nelle loro conversazioni quotidiane. Ed è inevitabile pensare che fosse la caratterizzazione morale e psicologica dei personaggi ad appassionare maggiormente i due grandi “dilettanti” della scrittura. La somma di tanti talenti doveva produrre un ibrido affascinante dove vecchio e nuovo coabitavano alla ricerca di una impossibile intesa. “Zayde” si differenziava dalla tradizione romanzesca che aveva trionfato nella prima metà del XVII secolo per la concisione dell’opera – solo duecento pagine a fronte del migliaio e più dei romanzi di Mademoiselle de Scudèry – e per l’esattezza dei riferimenti storici. La vicenda aveva come sfondo la Spagna dell’Alto Medioevo e la guerra di liberazione contro gli Arabi, e l’azione principale di “Zayde” si svolgeva tra l’estate del 910 e quella del 911. Ma nonostante la precisione del quadro storico e la cura dei dettagli esotici, i personaggi del romanzo parlavano, sentivano, agivano né più né meno come avrebbero potuto fare i contemporanei di Madame de La Fayette, anche se “l’eleganza dei Mori” e la “cortesia spagnola” erano qui, come lo sarà la “magnificenza” della corte dei Valois nella “Princesse de Clèves”, la trasparente metafora di un ideale cavalleresco diventato obsoleto nella Francia di Re Sole. Al contrario, sul piano dell’impianto narrativo, Madame de La Fayette, invece di rimanere fedele alla scelta vincente fatta con “La Princesse de Montpensier”, di una unica storia raccontata nel suo svolgimento lineare, così come avrebbe potuto realmente accadere, tornava al vecchio complicato congegno delle storie nelle storie e alla pratica dell’inverosimile romanzesco, col suo arsenale di fughe, assedi, duelli, naufragi, colpi di scena, equivoci, travestimenti. Ma è nel grande tema di fondo del romanzo, l’analisi del sentimento amoroso, che “Zayde” rivelava la sua autentica modernità. Fin dai tempi della civiltà cortese l’idealizzazione dell’amore e la sua priorità assoluta nella gerarchia dei valori era stato un connotato distintivo della cultura nobiliare: non diversamente dall’esercizio delle armi, dalla caccia o dalla danza, la galanteria faceva parte, da secoli, del costume aristocratico. Ma se, ancora agli inizi del Seicento, l’immenso successo dell'”Astrèe”, il fluviale romanzo pastorale di Honorè d’Urfè, veniva a confermare la persistente attualità dell’archetipo cortese, verso la metà del secolo quest’ottimismo romanzesco entrava in crisi. La stessa Mademoiselle de Scudèry che, con il suo “Grand- Cyres”, aveva insegnato ad un’intera generazione l’ortodossia amorosa, introduceva nel suo romanzo successivo, “Clèlie”, una distinzione allarmante tra amore e amicizia, dando la preferenza a quest’ultima. Come ha osservato Jean-Michel Pelousera “la prima crepa in un dogma fino ad allora intoccabile, quello della moralità della passione amorosa”. Superata la metà del secolo, chiusasi la parentesi della Fronda, non era solo la morale eroica ad apparire fuori stagione ma anche la idealizzazione dell’Eros. Libertina o preziosa, la società aristocratica avrebbe continuato ad essere galante, a giocare al gioco dell’amore, a analizzare in tutte le loro sfumature i moti del cuore, priva però delle certezze che l’avevano accompagnata fino ad allora. A Parigi come a Versailles, a voce come per iscritto, la voga delle “questions d’amour” – una inesauribile serie di quesiti di casistica amorosa a cui ciascuno era invitato a dare la sua risposta – testimoniava di una società alla ricerca ossessiva di una nuova verità sull’amore. Esso procedeva dalla conoscenza, vale a dire era una scelta consapevole, conforme alla volontà e alla ragione, come sostenevano coloro che non rinunciavano ad avere fiducia nella bontà della natura umana? O nasceva, invece dall’inclinazione, ed era quindi il frutto della fatalità e della passione cieca, come sostenevano i Giansenisti? Dibattuto nei primi anni ’60, nel salotto di Madame de Sablè, l’illustre marchesa con cui La Rochefoucauld aveva progettato di scrivere le sue massime, questo interrogativo è riproposto in “Zayde”. Huet sosteneva nella sua prefazione che in Francia la fioritura del romanzo era strettamente collegata alla “raffinatezza della galanteria” della vita mondana e alla presenza femminile. E niente più del libro a cui aveva lui stesso così attivamente collaborato si prestava ad illustrare la sua tesi. Frutto maturo della cultura aristocratica, “Zayde” è una riflessione sulla galanteria, nata come gioco di società tra un piccolo gruppo di amici che, alla forma tradizionale della discussione astratta, hanno preferito l’apologo. Non può essere un caso che ciascuna delle storie di cui è intessuto il romanzo sembri ricondurre a un problema di casistica amorosa, rispondere a una “question d’amour”. Non diversamente che nella conversazione mondana, spetterà naturalmente alla dama, a Madame de La Fayette, di condurre il gioco, di metterne in valore i contributi migliori e di tirare le fila, salvo poi a ritrarsi garbatamente davanti al pubblico. Tutti i personaggi di “Zayde” teorizzano o propongono con la loro condotta una diversa idea dell’amore. All’inizio della storia Consalvo dichiara che s’innamorerà solo di chi conoscerà abbastanza per poter stimare; don Garcie sostiene che per lui la passione nasce dalla sorpresa. Mentre Consalvo ambisce a un cuore che non ha mai amato, don Ramire si interessa solo a quelli che sono già impegnati; Alfonso si innamora di Bellisaire per avere la “gloria” di conquistare un cuore insensibile, e Alamir insegue esclusivamente il piacere di essere amato e ignora quello di amare. Il romanzo li metterà tutti alla prova della vita e la somma delle loro esperienze costituirà un chiaro avvertimento contro i possibili disastri dell’amore. Una conoscenza approfondita non impedirà a Consalvo di sbagliare la sua prima scelta sentimentale e il tradimento di Nugna Bella dimostrerà come l’amore sia incompatibile con l’ambizione. Impotente a garantire la felicità, anche il libero arbitrio non può nulla contro le sorprese dell’istinto e la violenza della passione. Così l’irrazionalità dell’amore finisce per avere ragione di tutti i personaggi del romanzo, seminando rarissime gioie e moltissime lacrime. Due sole storie, quella di Consalvo e Zayde, e quella di don Garcie e Hermenesilde, approdano a un lieto fine, ma i loro amori hanno mietuto talmente tante vittime, la loro felicità finale è talmente dipesa dal caso, che il risultato complessivo dell’indagine non cambia. Madame de La Fayette ne trarrà, questa volta da sola, le inevitabili conclusioni ne “La Princesse de Clèves”. Qui la galanteria non sarà più oggetto di una ricerca ma di una terribile requisitoria e per poter conservare accesa, nel più profondo del cuore, “l’ultima fiamma sottile e pura di una fiaba romanzesca incominciata con Tristano e Isotta”, l’eroina di Madame de La Fayette dovrà rinunciare a vivere l’amore.
Gli amori antieroici di Madame de la Fayette. Perché la passione ci lascia inermi.
Quanto poco veritiero sia il verso dantesco “Amor che a nullo amato amar perdona” ce lo dimostra – quasi ve ne fosse bisogno – il romanzo meno noto di Madame de la Fayette pubblicato, con un mediocre successo, in due volume tra il 1669 e il 1671, e di pochi anni precedente il suo capolavoro, “La Princesse de Clèves” (1678). Un libro, ora ripropostoci dalla piccola coraggiosa casa editrice romana, d’amore e sull’amore, con uno dei finali – il principale – fortunato, di contro ai molti altri infelici. Perché l’autrice intreccia qui parecchie storie, che si snodano autonomamente, seguendo questo o quel personaggio, o si distaccano dalla narrazione d’un qualche comprimario, acquistando quindi valore pari se non maggiore a quello della vicenda portante. Madame de la Favette dà infatti prova di una grande perizia nel congegnare la sua macchina narrativa (ma in ciò, e nei riferimenti storici, si è fatta aiutare, ci informa Emanuele Trevi nell’introduzione – da due dotti amici, Segrais e Huet), nel dipanare il filo di tante storie in una. Tutto per sviluppare al meglio il suo argomento preferito, la tematica amorosa, di cui indaga i meccanismi, cerca di afferrare le dinamiche, sondando i cuori di coloro che sono affetti dal mal d’amore. Vera e propria malattia, che indebolisce fino a rendere assolutamente inermi: il motivo della “faiblesse” – intesa solo e soltanto in tal senso – informa appunto le varie avventure delle “amorose persone” di cui si tratta. Amore, insomma, non più quale agone in cui temprare le proprie forze, esercitare il proprio “eroismo”, ma la forza cieca e distruttiva, condanna senza appello e senza speranza: “Noi non abbiamo nessun potere sulle nostre passioni” recita un amante sventurato. Sullo sfondo d’una Spagna contesa tra Cristiani e Mori (il genere era allora alquanto in voga) nascono e si consumano gli amori infelici di Consalve e Nuña Bella, di Alphonse e Bélasire, di Alamir e Félime, degli uomini e delle donne (tutti di straordinaria bellezza e nobiltà d’animo: non esiste meschineria, nel mondo della scrittrice) innamorati di qualcuno e non riamati, e amati da qualcun altro senza poter a loro volta corrispondere: ciascuno anello dell’insensata catena che conosciamo. L’amore sarebbe dunque una pura perdita? Madame de la Fayette, che dimostra di intendersene e non poco, parrebbe rispondere di sì; il lieto fine della storia di Consalve e Zayde rappresenterebbe un magnifico quanto raro accidente. Fine psicologa, questa gran dama del “gran siècle”, amica di Madame de Sévigné, di La Rochefoucauld: con i suoi personaggi e con il lettore. Per esso costruisce un’opera che lo tenga fino all’ultimo in tensione, con effetti assai simili alla moderna “suspense”; nella prima parte del libro tesse la trama, ma occorre attendere molto, addirittura le estreme pagine, perché il disegno si configuri. La serie delle congiunture negative sembra davvero infinita, e pare debba da un momento all’altro sopraffare e dividere gli amanti. In quanto a coloro che abitano il romanzo, l’autrice sa bene quanto l’amore sia il regno del dubbio, della contraddizione per farli adagiare anche per un brevissimo istante in un’ipoteca certezza; tra furiose deleterie gelosie, equivoci, incontri mancati, ritratti perduti e ritrovati, abbandoni ed improvvise agnizioni, morti ingiuste e felicità a troppo caro prezzo conquistate non v’è pace per questi personaggi; né per noi che li accompagniamo. La sarabanda dell’amore in fondo è una gran fatica, concluderemo scimmiottando Byron.
CLASSICI: LA FAYETTE
La passione li consuma
In “Zeyda” l’infuocato ritratto della Francia nel 1600, e la scrittrice, già anticipando Proust, mette in scena l’amore come dev’essere: lacerato, talora senza “happy end”.
C’è un testo di Cartesio poco conosciuto in Italia (ma anche in Francia), che ha avuto un’influenza massiccia sui drammaturghi e sui romanzieri del Secolo d’Oro francese: il “Trattato delle passioni”. Qui il filosofo mostra le sue immense doti di psicologo e a partire da un minimo di teoria dispiega un quadro delle passioni che affliggono e esaltano l’animo umano. Quella che ci interessa è l’ideologia di fondo: la passione è un male, perché turba l’animo nel suo potere giudicante. Ne nasce una strategia di contenimento e di repressione delle passioni (le anti-passioni, come la “generosità”). Non si potrebbe capire il teatro di Corneille, tutto intessuto sull’opposizione desiderio/dovere, se non si tenesse conto dell’aureo libretto di Cartesio. Senza di esso è anche difficile penetrare nel mondo romanzesco di Mme de La Fayette (l’iniziatrice del moderno romanzo d’analisi), giacché il dramma che si svolge nel cuore dei personaggi è tutto giocato sulla minore o maggiore potenza delle passioni. “Noi non abbiamo nessun potere sulle nostre passioni”, afferma Mme de La Fayette, seguendo il tragico Racine. Di fatto i suoi romanzi costituiscono un campo di battaglia in cui la passione d’amore guerreggia furibonda, strenuamente inseguita e talvolta vanamente imbrigliata dalle ragioni dell’onore, del decoro, della nobiltà d’animo. Quando Mme de La Fayette comincia a scrivere (nei primi anni del 1660), il panorama letterario – teatro a parte – è dominato da due tipi di narrazione: quella enfatica, “romanzesca” e preziosa (oltre che fluviale) dei romanzi di La Calprenède e di Mlle de Scudery e quella – reattiva, comico-burlesca, “realista” – di Scarron, di Furetière e di Sorel. Parente di Mme de Sévigné, legata a un’amicizia d’amore intensa col grande moralista La Rochefoucault, grande ammiratrice del teatro di Racine, intima dei letterati più raffinati e colti del secolo, Mme de La Fayette debutta sotto i migliori auspici, sorretta da un “clan” di primissimo ordine. Giungerà al capolavoro nel 1678 con “La Princesse de Clèves”. “Zayde” (1669 -’71) – oggi presentataci da un editore raffinatissimo che ci abitua solo a prelibatezze un po’ dimenticate, diciamo Fazi di Roma – si presenta indubbiamente come un romanzo minore, ma sicuramente precorritore del gran testo del 1678: Mme de La Fayette, “Zayde” (Fazi, pagg. 203, lire 25 mila), molto ben curato da Emanuele Trevi. “Si è molto deboli quando si è innamorati”, constata il comprimario della “Princesse de Montpensier”; e Con salve, in “Zayde”, lo riecheggia: “Come sono debole!”. Anche se alla fine il nostro eroe potrà sposare l’ardua Zayde, l’analisi del fenomeno amoroso precorre indubbiamente Proust: il romanzo stesso si regge sui disastri prodotti dalla passione d’amore (personaggi e ambientazione moresca sono tratti da cronache o novelle precedenti). E’ Alphonse, sodale di Consalve, che con la sua gelosia imprime il sigillo tragico all’amore lafayettiano. Al di là dell’accattivante “storia spagnola”, è la patologia amorosa che interessa all’autrice (come a Proust), la sua natura “oscura e selvaggia”. Si può ben dire (col curatore) che nessuno, tranne Cervantes, ha sentito così profondamente la gelosia come porzione nucleare dell’amore; ed è lì che va a scavare con quel suo timbro personalissimo che le deriva dalla sua preoccupazione più autentica, “quella necessità di perlustrare fino all’ultimo sotterraneo la prigione passionale, di condurre il nitore della scrittura nell’oscurità del desiderio”. E non è che l’autrice si smarrisca nel tessuto apparentemente di contorno delle peripezie romanzesche e di genere: è attraverso la “contrainte” (costrizione) che l’autore classico (si veda Racine) dà il meglio di sé. Qui il fatto che Zayde, cresciuta a Cipro, conosca il greco mentre il suo innamorato lo ignori, dà luogo a un vero dramma dell’incomunicabilità, a quel carattere di “peripezia” che possiede ogni grande amore. E se il lieto fine, in extremis, salva il romanzo dal tragico, non così avverrà per la coppia minore e speculare – Alamire e Félime – che consumeranno nella morte la loro passione non corrisposta. Anche il mistero di cui è depositario Con salve (rischiarato solo alla fine) contribuisce a tenere il lettore inchiodato, in una tensione prepotente e dolorosa che pure fa parte della struttura del vero amore. Forse aiutata da altri, la giovane La Fayette aveva trasformato la Spagna in una “regione del cuore”.
Gli amori antieroici di Madame de la Fayette. Perchè la passione ci lascia inermi.
Quanto poco veritiero sia il verso dantesco “Amor che a nullo amato amar perdona” ce lo dimostra – quasi ve ne fosse bisogno – il romanzo meno noto di Madame de la Fayette pubblicato con un mediocre successo in due volumi tra il 1669 e il 1671, e di pochi anni precedente il suo capolavoro, ‘La Princesse de Cléves’ ( 1678 ). Un libro ora ripropostoci dalla piccola coraggiosa casa editrice romana d’amore e sull’amore con uno dei finali – il principale – fortunato di contro ai molti altri infelici. Perché l’autrice intreccia qui parecchie storie che si snodano autonomamente seguendo questo o quel personaggio o si distaccano dalla narrazione d’un qualche comprimario acquistando quindi valore pari se non maggiore a quello della vicenda portante. Madame de la Fayette dà infatti prova di una grande perizia nel congegnare la sua macchina narrativa ( ma in ciò e nei riferimenti storici si è fatta aiutare – ci informa Emanuele Trevi nell’introduzione – da due dotti amici, Segrais e Huet ), nel dipanare il filo di tante storie in una. Tutto per sviluppare al meglio il suo argomento preferito la tematica amorosa di cui indaga i meccanismi cerca di afferrare le dinamiche sondando i cuori di coloro che sono affetti dal mal d’amore. Vera e propria malattia, che indebolisce fino a rendere assolutamente inermi: il motivo della ‘faiblesse’ – intesa solo e soltanto in tal senso – informa appunto le varie avventure delle “amorose persone” di cui si tratta. Amore, insomma, non più quale agone in cui temprare le proprie forze esercitare il proprio “eroismo” ma forza cieca e distruttiva condanna senza appello e senza speranza: “Noi non abbiamo nessun potere sulle nostre passioni” recita un amante sventurato. Sullo sfondo d’una Spagna contesa tra Cristiani e mori (il genere era allora alquanto in voga) nascono e si consumano gli amori infelici di Consalve e Nuna Bella, di Alphonse e Bélasire di Alamir e Félime, degli uomini e delle donne (tutti di straordinaria bellezza e nobiltà d’animo: non esiste meschineria nel mondo della scrittrice) innamorati di qualcuno e non riamati, e amati da qualcun altro senza poter a loro volta corrispondere: ciascuno anello dell’insensata catena che conosciamo. L’amore sarebbe rispondere di sì; il lieto fine della storia di Consalve e Zayde rappresenterebbe un magnifico quanto raro accidente. Fine psicologa questa gran dama del grand siécle amica di Madame de Sévigné, di La Rochefoucauld: con i suoi personaggi e con il lettore. Per esso costruisce un’opera che lo tenga fino all’ultimo in tensione con effetti assai simili alla moderna ‘suspense’; nella prima parte del libro tesse la trama ma occorre attendere molto addirittura le estreme pagine, perché il disegno si configuri. La serie delle congiunture negative sembra davvero infinita e pare debba da un momento all’altro sopraffare e dividere gli amanti. In quanto a coloro che abitano il romanzo, l’autrice sa bene quanto l’amore sia il regno del dubbio, della contraddizione per farli adagiare anche un brevissimo istante in un’ipotetica certezza; tra furiose deleterie gelosie, equivoci incontri mancati ritratti perduti e ritrovati, abbandoni ed improvvise agnizioni, morti ingiuste e felicità a troppo caro prezzo conquistare non v’è pace per questi personaggi ; né per noi che li accompagniamo. La sarabanda dell’amore in fondo è una gran fatica, concluderemo scimmiottando Byron.
– 05/01/1997
Critico
I preziosi gioielli che adornano i capelli del ‘Ritratto di donna’ attribuito ad Anthonis Mor la mirabile ‘Schiava turca’ del Parmigianino? Queste le due scelte iconografiche per le copertine di un romanzo che ci viene proposto quasi in contemporanea da due editori. In entrambi i casi, la scelta dell’immagine contrassegna un romanzo tutto al femminile, non soltanto perché scritto da una donna ma perché incentrato su di una storia d’amore in cui la donna è indubbiamente l’elemento forte e predominante. Le due copertine possono essere anche utili per evidenziare i vari aspetti che formano l’indiscutibile fascino di ‘Zaide’; il ricco diadema prescelto da Luciana Tufani può indicare la stringata preziosità dello stile che riesce a condensare in un’ammirevole sintesi le complesse peperizie tipiche del romanzo secentesco, senza rinunciare al gusto per il dettaglio che dispiega nella raffinatissima casistica amorosa. Il ritratto del Parmigianino utilizzato dall’editore Fazi sembra invece offrirci con il suo sguardo ironico e invitante il volto dell’enigmatica protagonista del romanzo che suscita l’amore con la sua sola bellezza e l’alone di mistero amoroso e tutte le sue possibili interpretazioni sono infatti all’origine di questo romanzo che narra le vicissitudini del giovane spagnolo Con salve, innamorato di una splendida sconosciuta di cui non comprende il misterioso linguaggio. Il mistero verrà infine svelato – Zayde, figlia di un arabo e allevata a Cipro parla in realtà greco – e tutto si concluderà con i preparativi delle nozze, che si svolgeranno “con tutta eleganza dei Mori e tutta la cortesia di Spagna”.
Madame de La Fayette
“Zayde”
Vive più infelice chi è causa delle proprie sventure, o invece chi è vittima del tradimento altrui? La nobile gara, tra due perfetti sconosciuti ch ela sorte ha fatto incontrare su una spiaggia della Catalogna, apre “Zayde” e ne offre subito la chiave di lettura. Adolphe e Consalve pesano infatti sulla bilancia le proprie sofferenze amorose: uno si è giocato la felicità per troppa gelosia, l’altro è stato abbandonato senza colpa. E poiché siamo in un romanzo di Madame de La Fayette, l’argomentazione è sottile e raffinatissima, estesa fino agli angolini più nascosti di un cuore infiammato e poi deluso. Un piccolo trattato, insomma, simile a quelli scritti nella stessa epoca da filosofi e moralisti, nascosto però nella trama di un racconto pieno di misteri e colpi di scena. Scritto nel 1669, “Zayde” precede di quasi un decennio “la principessa Cleves”, a cui si fa risalire di solito l’invenzione del romanzo europeo, nato sulle ceneri degli interminabili volumi di moda all’epoca. Fino ad allora, con l’etichetta “romanzo” si vendevano (e si leggevano avidamente) colossali elenchi di peripezie, lunghi fino a settemila pagine, che tenevano avvinto il lettore rimandando con ogni artificio l’obbligatorio lieto fine. I personaggi erano figure idealizzate e prive di spessore, semplici segnaposto in un turbine di intrighi cortigiani o pastorali. Madame de La Fayette comincia col tagliare drasticamente il numero della pagine. E riduce con altrettanta decisione l’orizzonte: tutto quel che accade di interessante, nella “Principessa di Cleves”, accade nella testa e nel cuore della protagonista, sposata a un uomo che non ama e messa in guardia dalla madre contro i pericoli della passione. Tutto procede senza intoppi finchè la virtuosa principessa non incontra sulla sua strada il duca di Nemours, uno dei gentiluomini più in vista alla corte di fulmine, palpiti, fitte di gelosia e sensi di colpa. A questo punto, non c’è bisogno di equivoci, di terremoti, di veleni, di guerre e di separazioni forzate: pensieri ed emozioni risultano già da solli abbastanza carichi di spunti drammatici per far funzionare la macchina narrativa. Oltre che per inaugurare la lunghissima galleria di adultere (qui solo nel pensiero) di cui è zeppa la letteratura dei due secoli successivi.Possimo leggere “Zayde” come una tappa di avvicinamento alla perfetta architettura messa a punto da Madame de La Fayette (nata Marie-Madeleine Pioche deLa Vergne) nel suo capolavoro. Il lieto fine e l’ambientazione spagnolo-moresca retrodatata al decimo secolo sono ancora una concessione al gusto dell’epoca, come lo è il naufragio che getta la bella Zayde tra le braccia di Consalve. Piuttosto originale è invece la scelta di impedire ogni comunicazione tra i due mettenddo come ostacolo la lingua: cresciuta a Cipro, la sconosciuta parla solo il greco. Così ognuno è solo con i suoi tormenti, senza che le convenzioni e i rituali della schermaglia amorosa possano minimamente venire in aiuto. Consalve ricorre allora a un disegno, che non aiuta affatto a chiarire i rispettivi sentimenti, mentre soltanto alla fine si scoprirà il ruolo avuto nella vicenda da un altro attore muto: un ritratto.Qualche decennio prima, Cartesio aveva collocato al centro della sua filosofia, come unico punto d’appoggio affidavile, il pensiero rigoroso. Madame de La Fayette si incammina invece sul terreno opposto, quello della passione che scardina ogni certezza. “Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce” le fa eco Blaise Pascal in uno dei suoi “Pensieri”, usciti lo stesso anno in cui l’editore più alla moda di Parigi pubblica “Zayde”. Senza il nome dell’autrice, che preferisce non svelarsi, e rimane uno dei personaggi più enigmatici del suo tempo, curiosa dei cuori altrui quanto avara del suo.
La Fayette
Nel Seicento di Zayde passioni a lieto fine
Amori e avventure, misteri e colpi di scena. La secentesca Madame de La Fayette contemporanea di Racine e di Pascal, in attesa di comporre il capolavoro, “La principessa di Cleves” ,cesella l’intreccio a lieto fine che è Zayde. Ovvero: non abbiamo nessun potere sulle nostre passioni. Introduzione di Emanuele trevi. Traduzione di Catherine Mc Gilvray.
– 04/10/1997
Madame De La Fayette
Uomini, donne e fraintendimenti. Torna “Zaide”
Le relazioni tra donne e uomini sono una questione di linguaggio: questo è quanto pare suggerire o confermare, a oltre tre secoli di distanza, Madame de Lafayette nel suo romanzo Zaide, pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1669-1671, la cui attualità è dimostrata da due edizioni che a pochi mesi di distanza ne propongono per la prima volta al pubblico la versione integrale italiana: la prima di Luciana Tufani editore, la seconda di Fazi. Singolare coincidenza che conferma la modernità di un romanzo fatto di conversazioni che s’intrecciano in esso così come s’intrecciarono nella vita di Marie Madeleine de Lafayette, più nota come autrice di quella splendida gemma letteraria qual è La principessa di Clèves.Amica intima di Madame de Sévigné, con lei condivise il gusto raffinato per una conversazione che per molti versi ricorda quel parlare tra donne che ha avuto nell’autocoscienza degli anni 70 un momento alto anche se a volte drammatico. Esse ne fecero arte sovrana del vivere, forma di analisi e autoanalisi delle modalità delle relazioni sociali che non scindeva volutamente tra forme del pubblico e del privato. Perché si è uomini e donne, oggi come allora, e solo a partire da questo si può pensare e gustare la carnalità dello stare al mondo, una carnalità fatta di corpi in relazione tra loro, di tentativi di dare parola a esperienze diverse del proprio sé: e Madame de Lafayette, Madame de Sevigné e le amiche nella Parigi della seconda metà del 600 ne fecero un’arte così analitica da divenire sofistica al punto di essere denominate le “preziose”, termine che se da un lato indica la rarefazione intellettuale di un percorso appunto di autocoscienza, dall’altro non rende fino in fondo loro giustizia.Le “preziose”, infatti, avevano tra i loro obiettivi la chiarezza espressiva di contro all’oscurità linguistica e terminologica, perché ritenevano di massima importanza capire e farsi capire. Se grande è il disordine che regna nelle relazioni tra i due sessi non complichiamolo con questioni di linguaggio. Cui, appunto, è dedicato Zaide, che con uno stile narrativo piano racconta la storia di Zaide e del suo amante Consalvo, ma anche le storie degli uomini e delle donne che li circondano legati da intrecci sentimentali di vario genere. La macchina narrativa ha però il suo punto focale non tanto sull’amore, sentimento sublime, quanto sulle parole dell’incomunicabilità che intercorrono tra Zaide e il suo amante: perché essi non parlano la stessa lingua, per una serie di casi romanzeschi non sanno niente l’una dell’altro, e tutto questo produce una serie di conseguenze interpretative la cui erroneità molto dà da pensare sulle possibilità comunicative tra uomini e donne.Emblematico l’incontro tra i due protagonisti, quando Zaide per la prima volta dopo un lungo silenzio parla in una lingua sconosciuta a Consalvo, ed egli, pensandola araba e conoscendo quella lingua, non dubita di farsi intendere: “Le parlò in quella lingua e fu ancora più sorpreso nel constatare che lei non lo comprendeva affatto. Le parlò in spagnolo e in italiano, ma fu tutto inutile (…) Consalvo ascoltò tutte le sue parole, sembrandogli che a forza di ascoltarla sarebbe arrivato a comprenderla”. Ovviamente non è così semplice. Non che le relazioni tra uomini e donne che parlino la stessa lingua siano più semplici, anzi: le storie che si intrecciano come una scatola cinese in questo romanzo ambientato nella Spagna divisa tra mori e cristiani sono tutte all’insegna del fraintendimento. Come Zaide e Consalvo, così gli altri protagonisti sono preda dell’incomprensione di se stessi e degli altri, soprattutto se di un sesso diverso dal proprio. Le relazioni uomo-donna sono quindi una questione di linguaggio, suggerisce Madame de Lafayette e con lei le “preziose”. Ma più ancora, nel corso della narrazione si acquisisce un ulteriore elemento di riflessione, tutto moderno nella sua sconcertante attualità: è possibile arrivare a una comunicazione aperta, chiara, solo se si ha cognizione di sé e del proprio sentire, di cui i sentimenti, d’amore, gelosia, invidia, amicizia, la stessa ambizione, costituiscono aspetti diffratti della propria identità.Tanto più interessante risulta quindi la lettura delle Introduzioni alle due edizioni: l’una, di Luciana Tufani, è incentrata sull’originalità dell’esperienza di vita e di scrittura di Madame de Lafayette e delle “preziose”; l’altra, di Emanuele Trevi, è volta a tracciare un quadro della Francia di Racine e Corneille, Pascal e La Rochefoucauld, una Francia in cui Madame de Lafayette si inserisce con l’agio e la levità che le sono propri, in virtù di uno stile che le ha dato un’autorità indiscussa ma non trasparente. A distanza di tre secoli Madame de Lafayette gioca ancora a nascondino con i suoi interpreti, dando di sé ritratti diversi, a volte complementari, a volte addirittura divergenti, come dimostrano le due introduzioni. Ognuna a suo modo strabica, ognuna a suo modo preziosa per lo squarcio di visione che apre sulle verità molteplici di un romanzo meritoriamente consegnato al giudizio dei lettori.