In occasione dell’uscita di Favola di New York di Victor LaValle, Alessia Ragno ci racconta le sue impressioni sul romanzo.
C’è un qualcosa di sinistro in Favola di New York di Victor LaValle che richiama il senso straordinario di Shirley Jackson per la trasfigurazione dei dolori umani, delle debolezze e della paura che questi innescano, in elementi mostruosi e sovrannaturali. In questa favola horror intrisa di realismo magico, come ammette lo stesso autore (https://www.youtube.com/watch?v=GTXU8CgrQFc), ci si affeziona quasi subito ad Apollo Kagwa, figlio di Lillian Kagwa e di Brian West, due sopravvissuti, a loro modo, alle difficoltà della vita. Poi Brian scompare e Apollo cresce con una madre fortissima, gli incubi che lo tormentano e il suo mantra di resistenza, quello che si rivelerà cruciale in più di una occasione: «Io sono il dio Apollo». E non è un caso che il nome che LaValle sceglie per uno dei suoi personaggi principali, che molto ha del suo vissuto, contenga riferimenti divini e mitologici, forse per dargli fin da subito un’aura magica di entità fallibile, ma non per questo meno potente. L’altra creatura chiave per questo romanzo è Emma Valentine, colei che si legherà ad Apollo e che inquinerà violentemente, almeno in apparenza, la favola che stanno vivendo.
Apollo è un uomo per bene, concentrato per diventare un lavoratore serio, un marito responsabile e poi, infine, un padre invincibile, quello che lui non ha mai avuto per motivi che non conosce. E in questo desiderio fortissimo di perfezione e bravura mette in pausa tutto il resto per dedicarsi, anima e corpo, al piccolo Brian, figlio suo e di Emma. La favola, all’improvviso, prende una piega inaspettata, la prima di tanti capovolgimenti di fronte, di scoperte e verità nascoste che sconvolgeranno i protagonisti in ogni fibra del loro corpo. Echi di Shirley Jackson, si diceva, perché come la maestra dell’horror americano, Victor LaValle dà una forma tangibile alla depressione post partum di Emma, ai tormenti di Apollo e ai mostri che abitano nell’animo di tutti, presi come siamo dal cercare di far andare le cose per il verso giusto, di condurre una vita dignitosa, rispettata, normale. E quando ignori questi mostri, un po’ perché sei impreparato, un po’ perché li temi, loro crescono e si cibano della tua quotidianità, sottraendo terreno alla persona stessa e trasformandoci in ombre.
La normalità di Favola di New York subisce così tanti stravolgimenti che monta un affanno sinistro e insopprimibile mentre le pagine avanzano, in questa struttura regolare di capitoli brevi e precisi, dove tutto viene detto, ma non è così immediato collegare tutti i punti e capire. Il romanzo ribadisce due grandi pilastri della letteratura fantastica/horror: niente è certo, mai, e tutti, anche gli insospettabili, hanno dei segreti, dei lati nascosti. Ignorare questi due pilastri vuol dire abbandonarsi a una dimensione così irreale, a una idea così favolistica della vita – quella che il titolo nella traduzione richiama fortemente – che poi tutto diventa insopportabile e i mostri arrivano a chiedere il conto, nei sogni o nella vita reale.
A contorno di questo tema centrale, LaValle esplora la mostruosità dei social media, elemento tecnologico imprescindibile, ma motore inquietante di curiosità malsana che alimentiamo inconsapevolmente. Il romanzo è, però, anche una favola sulla genitorialità come possibile tappa della vita umana che può rivelarsi divisiva e dolorosa quando si abbandonano i cliché del sentire comune. I cliché, però, tornano prepotenti quando si sopravvive, in un modo o nell’altro, ai momenti più difficili e si scopre una forza dirompente, quasi sovrannaturale. E poi c’è lei, la splendida e viscerale New York, che con i suoi luoghi nascosti, lontani dalle luci di Manhattan, si rivela palcoscenico ideale e spaventoso delle vicende di Apollo e Emma. La città è un personaggio a tutti gli effetti, ma lo sono ancora di più il tumulto interiore, il lutto, la paure e tutto l’ignoto che ci riserva la vita. Apollo insegna, però, che ci si può difendere dalla paura e inseguire decisi il lieto fine che ci spetta di diritto. E l’oscurità rimarrà lì a guardare.
Alessia Ragno