Naufragio di famiglia in un interno. «Il silenzio di Laura» di Paula Fox

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silenzio laura

Autrice di memoir e svariati romanzi sia per ragazzi che per adulti, tra cui il cult Quello che rimane, nella sua lunga vita conclusasi nel 2017 Paula Fox ha conquistato vari premi, ma solo in tarda età ha ottenuto pieno riconoscimento del suo talento, a cominciare dal giudizio espresso da Jonathan Franzen che la riteneva “la maggiore scrittrice nordamericana vivente”. Malgrado la sua vita sia stata contrassegnata da un’infanzia terribile, abbandoni subiti e agiti, fallimenti matrimoniali e una sterminata serie di lavori precari, l’autrice non si è mai piegata alle avversità, traendone anzi alimento per la sua creatività letteraria. Definita “tesoro morale e letterario degli Stati Uniti d’America”, la Fox è sempre stata piuttosto critica nei loro confronti, a causa di quello che in un’intervista ha definito “grottesco ottimismo”. I suoi connazionali secondo lei vedono “un mondo perfetto che non esiste” e che è antitetico rispetto ai suoi “mondi imperfetti”, il cui principale tratto distintivo è la spietatezza dei rapporti famigliari, dominati da una altalena di sentimenti ambigua quanto feroce. Sentimenti quasi sempre destinati a disvelarsi sullo sfondo di una inquietante New York, schiava di una frenesia dietro cui si cela la tragica conflittualità di un mondo che ha visto disgregarsi molti suoi miti senza riuscire a sostituirli, così che crisi privata e crisi pubblica si fanno ognuna specchio riflettente dell’altra.

Il silenzio di Laura, uscito negli Usa nel 1976 e definito dai critici, per citarne solo alcuni, “un romanzo indimenticabile” e “un’opera degna di Čechov”, è la perfetta summa degli aspetti caratterizzanti l’arte narrativa foxiana, non meno esemplare di Quello che rimane.

In sette capitoli/atti il romanzo mette in scena il tumulto interno a un gruppo famigliare, tramite un impietoso sovrapporsi di specchi deformanti che moltiplicano solitudine e incomunicabilità. Desmond Clapper e sua moglie, la dispotica Laura Maldonada, aspettano in una stanza di albergo l’arrivo del pigro fratello di questa, Carlos, della tormentata figlia di primo letto Clara e dell’amico di vecchia data Peter, per un saluto prima della partenza della coppia per l’Africa. Tra fiumi di whisky e soda, sferzanti battute e buone maniere di facciata, passando dall’hotel alla sala da pranzo di un ristorante, la maschera indossata da ciascuno cede il posto al progressivo disvelamento di mai sopiti rancori, speranze calpestate e feroci j’accuse. Sino alla rivelazione-clou di un doloroso segreto, rispetto al quale Laura ha il “folle” piacere di un’esclusiva che le permette più che mai di esercitare sugli altri il proprio dominio, ma la cui tardiva e reticente condivisione, complice un atteggiamento nuovo da parte di Peter, è destinata a segnare una frattura nei vecchi equilibri e, forse, l’inizio di una decisiva ridefinizione dei reciproci ruoli.

Dotato di una claustrofobica ferocia, tanto più coinvolgente quanto più rarefatta, Il silenzio di Laura è capace di illuminare i lati oscuri del conformismo borghese come una pièce di Ibsen, malinconicamente struggente come un dramma di Čechov, intriso dell’attitudine allo scavo psicoanalitico dei romanzi “psicologici” di Henry James o Doris Lessing, passando per Svevo e Pirandello (con cui condivide anche il tema delle “maschere”). Il suo perno tematico, che trasforma la dialettica tra i personaggi in un gioco al massacro, è il circolo vizioso dell’abbandono, un abbandono il cui corollario di rabbia e dolore tende a far diventare “abbandonante” anche l’abbandonato adulto, e del quale la morte si limita a suggellare la definitività.

Accomunati da un desolante “torpore emotivo” e dal terrore che si suscitano a vicenda – perché il percorso che ha condotto ognuno a una infelicità ritenuta ormai irreversibile ha in sé potenzialità devastanti per l’altro – i protagonisti del romanzo sono troppo chiusi nell’involucro delle loro vite irrisolte per poter entrare in reciproca empatia. I loro tentativi di mettersi in discussione tendono a riavvolgersi su se stessi all’infinito e ripartire da zero, in una sorta di tela di Penelope dell’autoconsapevolezza, che rifiuta di ammettere il proprio compimento per non addossarsi responsabilità troppo pesanti da sopportare. Gli unici ad accettare i propri “spettri”, cercando al contempo di ridurne la distruttività, sono Clara e Peter, ma mentre lei non è abbastanza forte da usare la sua lucidità come mezzo di rinascita, lui impiega la propria per spingerla a spezzare la “morsa di ferro” famigliare e aprirsi a una nuova vita.

Laura, fredda e cinica, è abituata a considerare il mondo “una bolla espansa di sé”. Figlia di immigrati spagnoli di origini ebraiche, per le sue ossessioni razziali è l’emblema delle contraddizioni di un mondo multietnico il cui “grande sogno” cozza contro l’incapacità di garantire a tutti pari dignità e diritti. È una donna capricciosa e impulsiva, che detesta gli inermi e distrugge qualunque certezza, imponendosi sugli altri con la forza di carattere e l’incantevole voce “modulata apposta per colpire”. Capace di tutto pur di ottenere ciò che vuole, possiede uno straordinario acume spesso asservito all’istinto di vendetta e con le sue battute caustiche denuda impietosamente “lo spettacolo di varietà” inscenato da lei stessa e dagli altri per nascondere i propri veri sentimenti. Solo a tratti riaffiorano in lei brandelli di un’umanità tanto dolente da avere scelto di annullarsi a favore di apatia e cinismo, strade quasi obbligate – lascia intuire l’autrice di Il silenzio di Laura, con la grottesca accusa rivolta dalla madre a Clara “Mi hai rubato la voce!” (che ricorda il “mamma dammi il sole!” di Spettri) – per evitare l’osvaldiano rifugio nella follia. E il grido “devo fare qualcosa …qualcosa …” ha la stessa forza straziante del cechoviano “A Mosca! A Mosca!”

I fratelli Eugenio e Carlos, stravaganti e ingordi pur fingendosi indifferenti ai soldi, come lei sono al di fuori di qualunque “contratto sociale” e ignari del “mondo al di là delle loro finestre”, verso il quale nutrono un profondo disprezzo.

Desmond, legato alla moglie Laura da un rapporto di amore/odio, perché da un lato ne è dipendente, essendo l’unica persona in grado di farlo sentire vivo, dall’altro non ne tollera più eccessi e capricci, si rifugia nell’alcool e nell’ ostentazione della sua ricchezza per dimenticare l’angoscioso vuoto esistenziale.

Clara è tormentata dalla sensazione di essersi “intrufolata come una ladra” nella vita di Laura, la quale non ha mai accettato “la realtà irriducibile della sua esistenza”. Incapace ciò malgrado di sottrarsi al potere materno, prova un estenuante disgusto di sé per aver “ereditato” l’inerzia dei Maldonada e per non saper ricomporre le contraddizioni che la dilaniano. Da un lato infatti Clara ha un disperato bisogno d’amore che la spinge a mendicare l’affetto di Laura e a diventare un’altra rispetto a ciò che è nella sua vita “normale” quando lei è presente. Dall’altro lato è ossessionata dalla voglia di rinfacciarle tutto il male che le ha fatto, abbandonandola subito dopo la nascita per affidarla alle cure della nonna Alma, povera, malata e resa infelice dall’indifferenza dei suoi figli che, quando era giovane, era spesso costretta dal lavoro a lasciare a sua volta soli per giorni. Un abbandono incrociato che ha fatto sì che Laura maturasse rancore per la madre e gelosia per la figlia, l’unica che Alma non abbia mai trascurato, e che Clara trascorresse infanzia e adolescenza in un “puzzle d’infelicità”, per non essere costretta a ricordare il quale, pur colpevolizzandosene, va a trovare la nonna ricoverata in istituto solo molto raramente. Particolarmente intensa la descrizione dei suoi goffi tentativi di avvicinarsi a Laura usando il linguaggio del corpo.

CLARA, UDENDO QUEL LAMENTO UMANO CHE LE PROVOCÒ IL BATTICUORE, FACENDOLE DUBITARE DI AVERE IL DIRITTO DI SENTIRLO, SI PORTÒ ACCANTO AL LETTO. LAURA NON ALZÒ GLI OCCHI. SUA FIGLIA CROLLÒ DI FIANCO A LEI, POI SI CHINÒ INDIETRO APPOGGIANDOSI CONTRO IL SUO CORPO COME SE UNA CONFORTEVOLE VICINANZA DELLA CARNE POTESSE CALMARE ENTRAMBE, RIPORTANDOLE A UN SIMULACRO DI VITA NORMALE

Il riservato e fedele Peter è unito a Laura da un “asservimento a opposte tirannie” – lei all’impulso, lui all’inibizione – sebbene la dedizione che ha sempre avuto per lei, nel vederla interagire con la figlia, inizi gradualmente a trasformarsi in avversione. Stanco di una vita tutta lavoro e gelo emotivo, il cui unico piacere è stata proprio l’amicizia con la “fuorilegge” Laura, disgustato da un mondo basato sull’esibizione di maschere, indossando le quali ognuno s’illude di poter essere altro da sé, è il solo a mostrarsi capace di uscire dal proprio egoistico involucro per andare verso gli altri. Non a caso nell’ultima parte del romanzo riesce a riscuotersi dalla passività con cui si è sempre sottomesso ai voleri dell’amica, per aiutare l’unica persona, tra i Maldonada/Hansen, cui la giovinezza permette ancora di salvarsi (e forse, tramite lei, tentare di salvare anche se stesso).

La penna foxiana affonda nelle viscere dei rapporti umani con implacabile nitore. Fa muovere i suoi protagonisti in un tempo quasi metafisicamente sospeso, caratterizzato da un immobilismo comportamentale che riflette l’inerzia interiore di persone assorbite dalla fatica del vivere, in uno spossante confronto con se stessi e le proprie inadeguatezze, la cui responsabilità, in un illusorio tentativo di autoassolversi, viene scaricata sugli altri. Un valore tanto più simbolicamente dirompente acquista in tale contesto l’atto di “ribellione” di Peter e Clara che chiude il romanzo. Una rivolta apparentemente insignificante, ma tuttavia capace di rompere consolidati equilibri e di aprire, pur nella totale incertezza di ciò che sarà, uno spiraglio alle possibilità di un futuro diverso.

Il silenzio di Laura: il caos famigliare negli impareggiabili “mondi imperfetti” di Paula Fox.

 

Giorgia Rovere

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