Rivoluzione vista mare (in Cornovaglia)

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In occasione dell’uscita del terzo volume sulla storia segreta della rivoluzione francese, I giorni del terrore, pubblichiamo l’intervista di Isabella Bossi Fedrigotti a Hilary Mantel, regina del romanzo del storico, apparsa su La Lettura del Corriere della Sera il 24 maggio 2015.

 

La scrittrice abita qui, in fondo all’Inghilterra, nell’estremo lembo della Cornovaglia. Sotto casa c’è il mare, non come il nostro Mediterraneo, ma comunque mare, e a lei piace. Se n’è innamorata a sedici anni, quando con la sua assai precaria famiglia ha passato qui una settimana di vacanza in roulotte, piazzata in alto sul promontorio dove ancora oggi c’è un parcheggio turistico, non più per roulotte però, bensì per elegantissimi e giganteschi camper. Quella settimana — ricorda oggi la scrittrice — fu tremenda, perché nello spazio angusto del caravan i suoi litigarono più del solito. «Tuttavia — rammenta — lassù da quel promontorio m’incantava guardare il piccolo paese di pescatori giù in basso sotto di me e mi ripromisi che un giorno sarei venuta a stare qui».

Da quattro anni, dopo aver vissuto in Botswana, in Arabia Saudita e in diversi luoghi in Inghilterra, Hilary Mantel, la più famosa, la più premiata e probabilmente la più ispirata scrittrice inglese vivente, non a caso nobilitata dalla regina, abita dunque qui. È autrice di una potente trilogia sulla Rivoluzione francese — non saggio storico, ma romanzo — di cui l’ultimo volume esce giovedì 28 maggio in Italia con il titolo I giorni del terrore. La storia segreta della Rivoluzione (Fazi), nonché, tra le altre numerose opere, di una trilogia dedicata a Thomas Cromwell, ministro di Enrico VIII e suo «facilitatore» nei molteplici, complessi e pericolosi affari matrimoniali: anche questo romanzo e non biografia, di cui per il momento esistono soltanto i primi due volumi, Wolf Hall e Anna Bolena, una questione di famiglia.

Ancora assai poco conosciuta in Italia, in Inghilterra Hilary Mantel è, però, una autentica diva. La si va a visitare, perciò, con una certa apprensione perché, si sa, le dive possono essere impazienti, annoiate o di cattivo umore. Invece è paziente, cordiale, familiare, e si lascia interrogare per due ore buone senza dar segni di stanchezza. E cosa fa il marito, il geologo Gerald MacEwan — un tempo ex marito, poi di nuovo rientrato nel suo primitivo ruolo — mentre in soggiorno la sua famosissima moglie concede l’intervista? Sudato, arruffato, in cucina, cerca, all’apparenza invano, di aggiustare la lavatrice in panne. Segno che anche nell’idilliaco Devon, anche per le scrittrici di chiara fama, gli idraulici sono rari ed esosi esattamente come nel resto del mondo. Poi, abbandonati gli attrezzi, Gerry serve tè nerissimo e su invito della consorte («Darling, some cookies please») va a prendere i biscotti.

Studi di storia? «Soltanto a scuola. All’università ho fatto legge, ma non ho trovato impiego nel campo, perciò sono andata a lavorare in un ospedale geriatrico. Scrivere? Certo che volevo scrivere, lo volevo fin da ragazza, mi sarebbe piaciuto tenere un diario, ma sapevo che in casa ci sarebbe stato sempre qualcuno che l’avrebbe letto. Nell’attesa elaboravo racconti nella mia mente. Quando non ne ho potuto più di non scrivere, mi sono licenziata e ho fatto la commessa in un grande magazzino, di modo da avere il cervello libero per pensare alle mie storie».

Hilary Mantel aveva ventisei anni quando terminò la trilogia sulla Rivoluzione, l’avvenimento, secondo lei, in assoluto più interessante della storia del mondo, ma la vide pubblicata soltanto dopo i quaranta e non prima di averla in qualche parte riscritta dando più spazio e più peso ai personaggi femminili che ruotavano attorno a Danton, Robespierre e Desmoulins.

Gli editori, così ricorda, neppure leggevano, spaventati dalle ottocento pagine dell’opera; temevano che si trattasse di un romanzo storico nel senso di amori e avventure in costume, e inutilmente tentava di spiegare che non era così. Soprattutto, all’epoca, per seguire suo marito, viveva in Botswana, e ci volevano mesi perché un manoscritto andasse e tornasse dall’Inghilterra, il che non facilitava le trattative. Ci sono poi voluti altri vent’anni perché il gran romanzo venisse tradotto anche da noi. Mantel si dice affascinata oggi come ieri dalla vicenda dei tre rivoluzionari i quali, poco più che trentenni, riuscirono nella straordinaria impresa di abbattere la monarchia, istituzione antica di secoli, solida e radicatissima nel Paese.

Il suo libro rievoca la loro parabola, tre figure scelte in mezzo alla folla, ingrandite con la lente concentrata su di loro: è questa la tecnica con la quale trasforma un personaggio storico nel protagonista di un romanzo. «Ho privilegiato gli individui — dice — benché questo contrastasse nettamente con la mia fede marxista di allora, secondo la quale sono le masse che contano, non i singoli».

Stesso procedimento nell’altra trilogia, quella a cui sta ancora lavorando, sulla figura del ministro di Enrico VIII: lente su di lui, scelto nella folla dei possibili personaggi che si muovevano attorno al sovrano. «Mi interessava quest’uomo di umili origini, che parlava sei lingue tra cui l’italiano, essendo stato vari anni al servizio della famiglia Frescobaldi. Mi interessava la sua parabola iniziata dal basso, giunta in alto che più in alto non si può e poi precipitata giù fino alle mani del boia. Volevo capire che cosa lo muoveva, che cosa pensava, se era avido, se era ambizioso, se era privo di scrupoli, se aveva fede religiosa o se si limitava a fingere: volevo osservarlo da dentro».

E, in effetti, la sensazione che, leggendo, si ha, è che la scrittrice lo segua a ogni passo, macchina da presa sulla sua spalla che vede i gesti, registra le frasi e spia i sentimenti; tecnica cinematografica quasi, si direbbe. Cinema alla Tarantino, peraltro, con frequenti scene di sangue, delle quali lei conferma di non avere paura. Scene che, non a caso, abbondano, ovviamente, anche nella trilogia sulla Rivoluzione.

È una lavoratrice indefessa, Hilary Mantel; scrive tutti i giorni, anche quando è in viaggio; e mentre sta ancora terminando il terzo romanzo della serie dedicata a Cromwell, ha già avviato un saggio sul teatro, frutto della recente esperienza di adattamento teatrale di Wolf Hall a Broadway.

Se non scrive, prende appunti; e, infatti, durante l’intervista si alza un paio di volte per scribacchiare qualcosa su un foglietto: «Altrimenti dimentico». La fase che l’appassiona di più del suo lavoro? La ricerca storica, l’ideazione, la scrittura? «Direi l’istante magico in cui trovo la tessera mancante per il mosaico, che, come in un gioco per bambini, fa accendere una luce quando la colloco al posto giusto. Una specie di lampo. Succede per esempio quando una mia fantasia trova conferma nella storia o quando un personaggio finalmente diventa vivo. A volte ho dovuto attendere per anni questo lampo. È un’illusione, infatti, che lo scrittore possieda una lampada con la quale illumina l’oscurità; piuttosto è come un servo che deve aspettare a piè fermo nel buio fin quando il lampo non arriva».

Spiega ancora la signora che non sa mai bene dove ha origine un romanzo; un po’ più facile è capire dove va a finire. «Non sempre tuttavia, perché è vero che il capitano della nave sono io, e che sono io a decidere la rotta delle mie storie, però c’è l’incognita del vento al quale non si comanda». E aggiunge anche che in tutti i suoi libri c’è materiale della sua vita, a volte anche cose vecchie di vent’anni, cose di cui si era scordata e che tornano a galla chissà come e perché. A questo proposito cita il suo racconto, che suscitò controversie non soltanto in Inghilterra, L’assassinio di Margaret Thatcher. «Avevo letto che il suo libro preferito era Il giorno dello sciacallo e, combinazione, lei andò a farsi curare un occhio in un ospedale di Windsor, esattamente di fronte a casa mia. Dalla finestra vedevo la folla dei giornalisti in attesa, la polizia che controllava il percorso e poi ecco che arriva lei con la scorta. Le avrei potuto sparare, come tenta di fare il protagonista di quel romanzo, un killer a caccia del generale de Gaulle. Ne ho fatto un racconto come altre volte ho fatto con piccoli episodi che mi sono capitati». E conclude: «È ben vero che detestavo la Thatcher, però quella era letteratura, non istigazione a delinquere come all’epoca azzardò qualcuno!».

Isabella Bossi Fedrigotti
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