In occasione dell’uscita di Favola di New York di Victor LaValle, abbiamo chiesto alla traduttrice Sabina Terziani di raccontarci la sua esperienza con il romanzo.
Tra il 2017 e il 2018, ovvero i due anni successivi alla sua pubblicazione, The Changeling — questo è il titolo originale del romanzo — ha vinto diversi premi, ed è interessante menzionarne i nomi. Ha partecipato al World Fantasy Award e ha vinto come Best Novel; per il British Fantasy Award e per il Dragon Award ha vinto come Best Horror Novel; è arrivato finalista al Mythopoietic Award nella sezione fantasy e allo Shirley Jackson Award. Quindi: fantasy, horror, mito, tre generi a cui ne aggiungerei un quarto, ma solo dopo aver parlato dei primi tre. Va da sé che gli scambi e le contaminazioni tra generi sono talmente diffusi che in ognuno c’è sempre qualcosa degli altri e Favola di New York non fa eccezione.
In Favola di New York c’è del mito, ma anche una sua lettura radicale, una torsione ipercontemporanea, ovvero il suo riflesso distorto nei/dai social, mitopoietici, appunto, creatori di immaginario. Facebook è certamente una macchina capace di rigenerare il mito, di ricomporre il mostro un pezzo dopo l’altro con i cascami dell’immaginario, ma è al tempo stesso lo stesso mostro che evoca. E LaValle fa della compulsione a condividere ogni momento che crediamo significativo della nostra vita l’occasione in cui apriamo la porta al mostro; letteralmente: al troll.
Per tradurre un romanzo in cui si alternano e si ibridano almeno tre generi è quindi necessario saper riconoscere i tratti stilistici di ciascuno e valorizzare le parole chiave che li segnalano. Penso soprattutto all’horror e alle parole che esprimono la violenza sul corpo e sulla mente e a quanto sia necessario rispettare la crudezza delle descrizioni senza cercare di attenuarla. L’horror di LaValle è classico, canonico, così come, nelle due occasioni in cui i personaggi raccontano fiabe, la sua dizione cambia per adattarsi al ritmo del racconto mitico-fiabesco.
Fantasy: la possibilità che su un’isola dell’East River viva una comunità di donne guidate da una sorta di sciamana capace di dare vita alle fiabe e di respingere gli attacchi di un mostro antichissimo. Ma anche: che una madre possa esprimere tre desideri e che uno di questi la trasformi in un essere sovrannaturale capace di impossessarsi della mente degli uomini per spingerli a fare ciò che vuole.
Horror: quando il confine tra la vita e la morte è nebuloso e la violenza dell’allucinazione si installa nel quotidiano (come insegna Stephen King).
Mito: le fiabe che tramandano paure e insegnamenti ancestrali. Alla base di questo romanzo ce ne sono due, una antica — Raperonzolo — e una moderna ma soltanto nella forma, Outside Over There, di Maurice Sendak. Nella seconda, infatti, si racconta il mito universale del bambino scambiato nella culla, il changeling, ma nel contesto del romanzo è come se la storia di Raperonzolo, narrata dal punto di vista dei genitori, ne fosse il preludio.
Ed è proprio nell’innestarsi della fiaba antica in quella raccontata con gli stilemi della modernità (vicenda contemporanea, illustrazioni fuse con il testo) che si manifesta il quarto genere cui accennavo prima: la cautionary tale, ovvero la fiaba portatrice di una morale, di una lezione, genere di cui fanno parte, per intenderci, le storie di Pierino Porcospino (Struwwelpeter).
Allora, qual è la morale di Favola di New York? Per individuarla vorrei chiedere aiuto alla psicoanalisi e al modo che ha di leggere il rapporto tra genitori e figli. In Apollo (a proposito di mito!), il padre del piccolo Brian — il bambino perduto — mi è sembrato di vedere un genitore che crea una relazione puramente duale (immaginaria, secondo la teoria lacaniana) con il figlio, una relazione rispecchiante, simbiotica, non mediata: nonostante provi un amore travolgente per Brian, Apollo lo mette in pericolo e poi lo perde, proprio perché non vede altro che il figlio e la propria passione (ovvero se stesso in lui) che lo spinge a scattare decine di foto del bambino da condividere sui social. Il loro rapporto non riesce ad accedere alla dimensione simbolica perché nella psiche di Apollo manca un terzo (la madre invece capisce da subito cosa c’è Outside over there e infatti scompare per salvare il figlio), un’istanza esterna capace di rompere lo specchio e mostrare cosa ci sia dietro: il bambino reale. Apollo non vede che la porta di casa è aperta e che qualcuno è entrato: l’orco, che si è sostituito al genitore incapace di vedere realmente, e quindi difendere, il figlio.
Così Apollo attraversa il proprio mito famigliare, la storia di come suo padre sia stato per lui l’orco a cui, bambino, ha aperto la porta, e il sanguinoso, doloroso tentativo di far nascere suo figlio e, insieme, se stesso come padre.
Sabina Terziani