Mantel ha scritto romanzi per decenni prima di raggiungere il successo, e in ognuno di essi si colgono il suo humour nero e le sue capacità stilistiche. Quali sono le sue opere principali oltre ai bestseller della trilogia di Cromwell? In concomitanza con l’arrivo di Wolf Hall sulla BBC, John Mullan sul Guardian ci svela la sua carriera.
Il racconto inizia così: «Quando Mrs Axon scoprì in che condizioni si trovava sua figlia, fu più sorpresa che dispiaciuta; il che non significava che non fosse dispiaciuta». Misteriosamente, Muriel, la figlia di Evelyn Axon, è incinta, e «il suo viso indossava un’espressione di sciocca beatitudine». Qualcosa non va in Muriel, ma prima di capire cosa arriva una visita a casa Axon, nella tenue luce autunnale, in una via periferica di una cittadina inglese. È Mrs Sidney, la quale desidera contattare il suo defunto marito. Evelyn, che evidentemente è una medium, le offre la sua spremuta d’arancia e il calore di una stufetta elettrica a due barre. Invitata a parlare di suo marito, Mrs Sidney inizia ad angosciarsi: «La linea scarlatta del rossetto sul suo labbro superiore si distorceva indipendentemente dalla bocca». Evelyn osserva i suoi crescenti sintomi di ansia. «C’è, rifletteva Evelyn, un’usanza conosciuta come Sati; a giudicare dal loro comportamento, molti sembravano pensare che la sua soppressione fosse un’evoluzione malsana».
Questo è l’inizio del primo romanzo di Hilary Mantel , «Every Day Is Mother’s Day». Chi conosce qualche sua pubblicazione riconoscerà alcuni dei suoi tratti caratteristici: la miscela di ordinarietà e stranezza; il cinico humor nero (di certo il Sati, la cerimonia in cui una vedova hindu si immola sulla pira funeraria del proprio marito defunto); l’uso beffardo del linguaggio. Non si riesce a pensare a un altro scrittore che associ la parola «sciocca» a «beatitudine» – un’espressione colloquiale del nord [Il termine usato nell’originale è daft, appunto un termine colloquiale tipico del Nord] insieme a quella parola religiosamente connotata che sta per benedizione. E poi il sovrannaturale. Evelyn è convinta che la sua casa sia infestata da spiriti maligni, e il racconto abbraccia le sue folli convinzioni. Intere aree della sua abitazione sono state abbandonate perché gli spettri le hanno occupate. Questi ultimi lasciano appunti semianalfabeti e misteriosi aggeggi – un nuovo apriscatole nel mezzo di una stanza – come prova della loro malignità. Lei condivide questa spaventosa consapevolezza solo con un’incurante Muriel, che lentamente scopriremo essere più scaltra di quanto s’immagini, e che ha qualcosa a che vedere con i segnali dell’infestazione. Gli assistenti sociali che a volte visitano casa Axon, e vedono una torva pensionata con figlia inetta a carico, possono redigere lunghi rapporti ma, ovviamente, ignorano perché queste donne si comportino così.
Ora che Hilary Mantel è la Dame Hilary Mantel, e Wolf Hall e Anna Bolena, una questione di famiglia le hanno assicurato la fama, è facile cogliere la sicurezza e la totale stravaganza del suo esordio. È passato in sordina quando è stato pubblicato, ma ora è in ristampa sull’onda della vittoria dei suoi due Man Booker Prize. Dopo anni di relativo anonimato, Mantel è un nome che vende, come hanno confermato prima gli adattamenti teatrali di Wolf Hall e Anna Bolena, una questione di famiglia, messi in scena per otto mesi a Stratford e Londra per poi arrivare a Broadway, e ora la serie tv in onda dal 21 gennaio su BBC2. Per molti amanti di questi libri più recenti, il territorio della sua produzione iniziale resta inesplorato. Eppure Mantel è una romanziera che continua ad affinare le sue abilità narrative da più di tre decenni e la cui opera è più ricca e strana di quella di qualunque scrittore inglese vivente.
La televisione si sta inserendo nell’entusiasmo del lettore comune. Anche se ci sono critici scettici, Wolf Hall e il suo seguito hanno trovato un’ampia comunità di lettori, sposando la valutazione dei giudici del Booker (certo, io sono di parte, visto che ero uno dei giudici nel 2009). Ora è difficile non pensare alla situazione prima dei premi e del successo. Wolf Hall è il decimo romanzo di Mantel, pubblicato all’età di 57 anni; neanche uno dei suoi precedenti nove romanzi figura tra i finalisti del Booker. Ognuno è stato un successo di critica; il suo splendore stilistico era un segreto condiviso da recensori informati e confessato da altri scrittori. Aveva dei fan, ma solo una cerchia ristretta. Nel 2005, quando «Private Eye» diede una bella strigliata ai giudici del Booker ancora una volta, l’assenza tra i finalisti di Beyond Black, il romanzo completato da Mantel prima di intraprendere Wolf Hall, fu presa come prova della loro ottusità.
Niente nella carriera di Mantel fa pensare a una scrittrice in cerca di popolarità. Dopo Every Day Is Mother’s Day ha scritto il seguito Vacant Possession; non c’era bisogno di leggere il primo, il cui scopo era di fornire all’autrice gli ingredienti per le sue nuove diaboliche trame. Dieci anni dopo, un’ancor più demoniaca Muriel viene scarcerata da un manicomio per infliggere la sua vendetta su diversi personaggi del romanzo precedente, che pensavano di averla fatta franca, ma che erano ancora intrappolati in un romanzo di Hilary Mantel, come provano i loro vizi e le loro follie. In una nerissima commedia di coincidenze preparate accuratamente, le debolezze e le autoindulgenze sono punite a dovere.
Negli anni seguenti Mantel ha voluto provare qualcosa di nuovo con ogni nuovo romanzo, e in un modo che deve aver preoccupato editori e agenti. Di norma, avrebbe costruito uno strano universo narrativo a partire da alcuni frammenti autobiografici (nei primi due romanzi si trattava della sua esperienza nei servizi sociali). Eight Months on Gazzah Street, pubblicato nel 1988, si basa sui quattro anni trascorsi in Arabia Saudita mentre il marito Gerald lavorava come geologo. Dall’etichetta relativa alla socializzazione con altre donne sposate alle abitudini della polizia religiosa e al metodo di fermentazione del gin di Gedda (patate e agrumi, più acqua, zucchero e lievito), si percepisce la conoscenza in prima persona. La sconcertata attenzione al dettaglio dev’essere basata sull’esperienza personale, specialmente quando si tratta della condizione delle donne, viste in Arabia Saudita con orrore – o ignorate del tutto. Un uomo non incrocia lo sguardo con una donna e spesso non le parla affatto. Frances vive l’altro lato di questo velo quando cammina per strada a Gedda e s’imbatte in autisti che rallentano per urlarle sconcezze e insulti, o quando un impiegato di un hotel, che saluta e parla solo al marito, la guarda e lei gli legge in volto «per un istante un’atroce avidità repressa, una brama distruttiva e puerile».
Il romanzo di Mantel rende Gedda un posto da incubo dove Frances sperimenta qualcosa simile all’annullamento totale. Trascende il mero sessismo per arrivare in territorio kafkiano, come se lo Stato stesso fosse stato fondato sull’orrore per la donna. Il punto di vista varia di rado. Una narrazione in terza persona ci dà conto perlopiù delle vicende di Frances, ma a volte adottiamo il punto di vista del marito e ci vengono presentati degli estratti dall’incerto diario di Frances. In modo brillante, il romanzo lascia sfociare il senso di rabbia e disperazione represse in una calma sinistra, ma inquieta anche, lasciando alcuni misteri irrisolti. Sta succedendo qualcosa di strano nell’appartamento, presumibilmente vuoto, sopra Frances e Andrew; qualcuno ci si sta nascondendo o lo sta usando per dei trasferimenti. Un giorno, una figura travestita esce da lì. Viene usato un contenitore da imballaggio per far sparire qualcosa, o qualcuno. Uno straniero arriva dall’Inghilterra e in breve viene trovato morto a seguito di un improbabile incidente stradale. Se siamo attirati dalla curiosità di Frances, è inevitabile ritrovarci sconfitti, come lei. Alla fine del romanzo è ancora lì, in un cupo complesso tra il deserto e la superstrada, imprigionata.
Mantel ritorna in questo mondo opprimente, dove le donne sono private in toto del potere d’agire, anche di muoversi, nel primo racconto della sua nuova raccolta, The Assassination of Margaret Thatcher. “Sorry to Disturb” è una storiella deliziosamente inquietante narrata da una donna inglese che vive in Arabia Saudita con il marito. Stringe amicizia con un uomo d’affari pachistano, ma in seguito inizia a trovare indesiderate le sue attenzioni. Le strategie dell’uomo sono al tempo stesso grottesche e in qualche modo minacciose (un classico mix di Mantel). Eppure la sua invadenza è solo il sintomo più imbarazzante di un’angoscia più ampia. Lei è intrappolata dal caldo, dalla routine religiosa rispettata da tutti, dalla sua stessa mancanza di scopo. Il suo tormento psicologico ha strani effetti: a volte, i mobili sembrano essersi spostati da soli; in un altro caso, le pesanti porte del suo armadio a muro sono state miracolosamente rimosse e riattaccate dai loro cardini inferiori così che svolazzano «come le ali di una qualche sgangherata macchina volante». L’influenza di questo spettro sul racconto è ancor più spiazzante quando si viene a sapere che la storia fu pubblicata per la prima volta sul «London Review of Books» come memoir, con il titolo leggermente diverso di “Someone to Disturb”.
Queste storie ambientate in Arabia Saudita sono esempi eccellenti dell’attenzione continua di Mantel per quelli che si possono definire i tormenti della femminilità. Questo era l’argomento della sua conferenza, e del conseguente articolo sul «London Review of Books», incentrati sull’oggettivazione delle donne della famiglia reale, che inaspettatamente hanno suscitato un dibattito. Nel febbraio 2013 è stata attaccata dal «Sun» e dal «Daily Mail» per aver detto che la duchessa di Cambridge era stata «progettata da un team e costruita da artigiani, con un perfetto sorriso plastico e i fuscelli dei suoi arti levigati e lucidati». Paragonando lei e la principessa Diana alle nobildonne del passato, Anna Bolena e Maria Antonietta, stava parlando di come una donna viene resa una «bambola snodabile» dai media e dai pr reali. Kate Middleton, di fatto, è diventata prigioniera dei desideri di una cultura, una metafora di Mantel per il continuo relegamento delle donne a poche funzioni: l’umiliazione per mezzo dell’idealizzazione.
Per molti dei personaggi femminili dei suoi romanzi non c’è alcuna via d’uscita dal potere esercitato su di loro. Carmel, la laureata protagonista di An Experiment in Love (1995), pensa che avere un’istruzione sarà sufficiente, ma è disillusa. Le sgobbone «hanno rinunciato all’oggi per il domani, ma l’aspettativa non è stata soddisfatta; sono diventate asessuate, neutre, senza il potere degli uomini né i compiti delle donne». Nel suo memoir, I fantasmi di una vita, ricorda lo sprezzo adirato del patrigno per le sue ambizioni accademiche trasformarsi progressivamente in borbottii sull’intero genere femminile. «“Fanno sempre questo”, o “fanno sempre quello”, scherniva. Mi sentii come se fossi una sopravvissuta, una reliquia, un piccolo esemplare di una razza soggiogata».
La protagonista di Eight Months on Ghazzah Street gioca col fuoco evitando di comportarsi sempre da espatriata altezzosa. In particolare, Frances è interessata alla religione, e mette a disagio le due mogli musulmane che ha conosciuto mostrando curiosità teologica per le loro credenze. Spesso la teologia è viva e vegeta nella narrativa di Mantel. Cresciuta come cattolica, formata dalla sua esperienza giovanile della dottrina cattolica e poi dagli scontri d’astuzia con le suore nella sua scuola. Nel suo romanzo seguente, Fludd, ambientato negli anni Cinquanta, dà vita a un bizzarro villaggio al confine di un paese nordafricano dove la Chiesa di Roma mantiene la sua roccaforte. Modificato dai suoi ricordi di Glossop, il suo paese natio nel Derbyshire, rappresenta un’altra delle prigioni dello spirito di Mantel. Fetherhoughton è guidato da un prete, Padre Angwin, che sembra aver perso la sua fede in Dio e aver mantenuto la sua atterrita credenza nel diavolo, e dall’inquietante Madre Perpetua, la madre superiora del convento locale. In questo mondo arretrato arriva il parroco Fludd, un alchimista spirituale capace di liberare chiunque l’ascolti – in particolare Sorella Filomena – con l’influenza della sua benefica magia. È l’unico romanzo di Mantel con un lieto fine.
La religione incide sempre sulla narrativa di Mantel, ma non perché la usi in modo provvidenziale per modellare gli eventi, come i cattolici convertiti Muriel Spark e Graham Greene, che ha letto con diligenza. Emma, una dei protagonisti di A Change of Climate, pubblicato nel 1994, vede la Chiesa cattolica come un negozio di cianfrusaglie, persino quando, in lutto, visita un santuario per attingere alla sua magia benevola. La religione rispecchia le necessità e le paure dei suoi potenziali credenti e di chi non crede più. A Change of Climate, che spazia tra il presente e il passato, Norfolk e l’Africa, s’incentra su una coppia sposata, Ralph e Anna, che spinti inizialmente dall’idealismo cristiano si sono dedicati al lavoro umanitario. Ralph è un “cristiano professionista”, ma il romanzo mette alla prova qualunque fede cristiana nella bontà umana. Ma non c’è sdegno nei confronti della religiosità: può darsi che la religione possa dirci molto sulla nostra debolezza umana, sulla vanità e sulla schiavitù del desiderio. I personaggi di Mantel tendono ad avere i loro demoni, per così dire, e i salti temporali del romanzo sono concepiti, in pieno stile Mantel, per mostrare come queste brave persone siano perseguitate da brutti ricordi rimossi a stento.
Traduzione di Daniele Mosca