Molly Keane
Le buone maniere
Postfazione di Viola Papetti
Traduzione di Cecilia Behmann dell’Elmo
I St. Charles, famiglia anglo-irlandese decaduta, vivono in un insieme di lusso e disagi, rifiutandosi di comprendere la realtà della vita e facendo del contegno e del decoro la base di ogni rapporto. Aroon, la voce narrante, detestata dalla madre e trascurata dal padre, non si rende conto di cosa le accade intorno e si trova continuamente coinvolta in imbarazzanti situazioni tragicomiche, convinta che a tutto si possa porre rimedio con le buone maniere. L’umor nero di Molly Keane, tradotta per la prima volta in Italia, induce a ridere fino alle lacrime, mentre la sua distaccata lucidità arriva a sfiorare il raccapriccio. «”Si tenga sul beige, Miss Aroon”, mi implorava, “e sul semplice”. E quando le portai i modelli per alcuni vestiti di chiffon rosa pallido: “Sembrerà un pergolato in un giardino”, disse intristita. mi sentii un po’ irritata da questo commento non richiesto, ma lo ignorai, ovviamente, e ordinai dieci iarde di chiffon rosa».
«Grande humor, nero come l’inchiostro».
Giulia Borgese, «iO Donna»
«Nero, cattivissimo e implacabilmente ironico».
«Marie Claire»
– 04/09/1999
Se le buone maniere diventano una trappola
Inopportuna per essere una donna che sa comportarsi, tutt’al più può compiacere. Ha un unico talento, è una provetta ballerina in società. Troppo poco per esser amata dalla madre, dalla quale attende, invano e per tutta la vita, una minima approvazione: quando la famiglia finirà in ristrettezze, la madre ordinerà di ridurre il consumo di legna, convinta che “tanto i grassi sentono meno freddo”. Così, con una genitrice che si pensa pittrice, per la quale tacere il dolore – anche quello della morte tragica di un figlio – è “discrezione”; un padre fedifrago, nullafacente ed ubriaco; un fratello bellissimo, omosessuale e tanto sfortunato, Aroon sopravvive alla sua ingenuità con uno stratagemma. Infatti la sua è una meticolosa reinterpretazione della realtà; e quando la verità delle cose – inopinatamente – fa irruzione con il suo carico di scocciature o tragedie, basta tranquillamente ignorarla e ingoiare le lacrime. Perché tanto “nessun dolore dura a lungo”. Gli unici momenti di felicità le vengono regalati dal fratello e dal suo amante, quando la trascinano con loro nel vortice delle feste nel periodo della caccia alla volpe. Dice allora Aroon: “Ero di nuovo un gioco. Ero una persona. Ero qualcosa di cui potevo parlare”. Come dire, la loro mascotte. Tuttavia Aroon riesce a sopravvivere a tutti, sempre ai bordi di un abisso di solitudine, sempre avanti, come le farfalle che aspettano felici il momento di morire, al ritmo di “prima le cose importanti!”. Solitamente il pranzo o l’uscita quotidiana con i cani.
– 02/10/1999
Di buone maniere si può morire
Oggi non può accadere più, da nessuna parte. Siamo perfettamente al sicuro anche da eventuali ricadute: le buone maniere non ci possono più fare alcun danno. Eppure c’erano tempi, neppure tanto lontani, che sono durati fino alla metà di questo secolo, e c’erano luoghi o, meglio, ambienti, in cui la buona educazione, la troppo buona educazione, riusciva tranquillamente strozzare un’esistenza. L’arma di cui si serviva era naturalmente la parola, la mancanza di parola anzi, il glaciale e progressivo irrigidimento del linguaggio – e dunque dei rapporti umani – dentro a formule prestabilite, vuote, senza sangue né cuore. Forse nessuno come la scrittrice irlandese Molly Keane nel suo romanzo «Le buone maniere» ha saputo narrare con altrettanta tragica grazia questa morte per strozzamento, ambientata in una bella casa di campagna irlandese, con molti fiori, cani, cavalli, cameriere e balli. Paralizzati dentro la corazza della buona educazione, delle conversazioni formali; dei gesti misurati, dei silenzi opportuni, degli slanci tenuti a freno, un padre bevitore e donnaiolo, una madre egoista, un figlio omosessuale e una figlia bruttarella si condannano a vicenda alla solitudine e alla disperazione. L’angoscia, all’inizio dissimulata dai bei paesaggi, dai piacevoli usi di una casa ricca e ben servita, cresce un po’ alla volta come nebbia che man mano sale dai prati e finisce per avvolgere sia i personaggi che il lettore. Chi più degli altri finisce strangolata è la più giovane, più debole, la più tendenzialmente esuberante e speranzosa, la giunonica figlia che narra in prima persona il cammino verso la paralisi dei sentimenti, verso l’odio perfetto, forse anche omicida. Stephen King è lontano anni-luce da Molly Keane, eppure si ha la sensazione che, a prescindere dal sangue che scorre abbondante nei romanzi di King, i due, per come riescono a far montare l’angoscia in chi legge, siano quasi parenti.
– 03/04/1999
Le inedite “Buone maniere” di una dama del romanzo
Non sono molti gli scrittori, soprattutto ai nostri giorni, ad avere la fortuna di un’origine così intensamente romanzesca che non solo fornisce un cospicuo spunto per l’opera ma la dota inoltre di un elegante retrogusto non letterario. Molly Keane, che è una delle dame del romanzo del Novecento ancora sconosciuta ai lettori italiani, ha avuto questa fortuna. E ora che Fazi pubblica Le buone maniere (traduzione di Cecilia Behmann dell’Elmo), non sarà male almeno per una volta cominciare a leggere il libro dalla postfazione, un bel saggio di Viola Papetti.Tanto per cominciare con le eccentricità pittoresche, anche i dati bibliografici della Keane sono anomali. Nata nel 1904 nella contea di Kildare in una famiglia della gentry anglo-irlandese, interessata solo «ai cavalli e al divertimento», a diciassette anni scrive il suo primo romanzo, The knight of the Cheerful Countenance, per integrare l’assegno per i vestiti, ma decide di usare lo pseudonimo M.J. Farrell per nascondere il suo lato letterario agli amici sportivi. Con tale pseudonimo pubblica dieci romanzi e numerose commedie di successo tra il 1939 e il 1961. Poi, nel 1961, quando muore l’amatissimo marito Robert Keane, più nulla per vent’anni, infine un ritorno senza timidezza sulla scena letteraria nel 1981 con Le buone maniere, firmato a quel punto col suo vero nome, come i successivi due romanzi, tutti trasformati in film dalla tv inglese.Tra l’altro, prima della morte, avvenuta nel suo novantaduesimo anno, trova il tempo di rilasciare una lunga intervista a una giornalista americana, che è uno spregiudicato autoritratto, e di compilare insieme alla figlia un’antologia di autori irlandesi, in cui tra l’altro scrive: «Solo il bel linguaggio della caccia alla volpe, delle corse, della caccia e della pesca era condiviso e rompeva il silenzio tra le classi nella grande unità dello sport che non si cura della politica ed è innocente di terrorismo».Molly la politica e il terrorismo li ha conosciuti in modo diretto a sedici anni, quando la casa paterna è stata data alle fiamme dall’Ira. Ma la sua ispirazione è tuta rivolta al mondo che bruciava, con i suoi intrighi, i suoi pettegolezzi, i suoi odi familiari più devastanti di ogni incendio. Questo è anche il mondo di Aroon, la voce narrante delle Buone maniere, come la Keane detestata dalla madre e trascurata dal padre, che, prima di raccontarci la sua tragicomica storia di confusionaria, disperata e sfortunata devota del good behaviour, entra trionfalmente in scena come nelle migliori tragedie in veste di matricida: brandendo contro la vecchissima mamma invalida una micidiale e infallibile mousse di coniglio.«Storia, Richard? Ma non abbiamo storia questa settimana». Mrs. Brock si girò verso il pianoforte dove, prima che il ragazzo entrasse, stava suonando e cantando a bassa voce E tu mi aspetterai. In quel momento la sua voce gutturale, quasi animale, riempì l’aria della stanza, alla stessa maniera in cui un odore si impadronisce dei sensi. E mentre l’aria cominciò a vibrargli intorno, Richard si dimenticò di tutte le regole. Quando Mrs. Brock, anche lei in lacrime, si girò sullo sgabello del pianoforte verso di lui, egli ruppe ogni freno e le si gettò tra le braccia singhiozzando disperatamente. Mrs. Brock se lo strinse al petto, dove il ragazzo rintanò la testa nella confortevole oscurità di quel seno così severamente coperto. Avrebbe ricordato per tutta la vita l’odore di sicurezza di quell’abbraccio in cui acqua di colonia Rimmel e papier poudré combatterono una battaglia persa contro la calda, generosa carne umana.
– 04/01/1999
Le buone maniere non salvano i gentleman
Molly Keane (1904-96), discesa da una famiglia di possidenti angloirlandesi, scrisse negli anni Venti e Trenta storie fantasiose sotto pseudonimo, quindi passò a comporre romanzi ambientati nella vacua società a lei ben nota, fra cani, cavalli gentiluomini nullafacenti (magari studiosi di genealogie), madri crudeli per noia, figlie aggrappate a inconsistenti storie d’amore. In seguito si sposò, rimase vedova, mise il suo talento per i dialoghi al servizio del teatro, anche con molto successo; infine, ormai semidimenticata, avvicinandosi agli anni Ottanta, riprese i suoi temi giovanili per rielaborarli in una chiave così cupa e pessimista, che gli editori respinsero il risultato, fin quando uno di loro, più intraprendente, lo accettò. Le buone maniere si rivelò subito come un gran successo, andò in finale a Booker Prize, fu ridotto per la Tv, e la settantasettenne autrice diventò famosa, finalmente sotto il proprio nome; fece in tempo a raccontare ancora in questa vena, e a vedere recuperati i suoi libri antichi, oggi tutti in stampa. E’ sostenibile che Le buone maniere sia il suo capolavoro, in ogni caso è il romanzo in cui il suo occhio intelligentissimo fotografa più spietatamente il crepuscolo di un mondo insensato. Gli squattrinati privilegiati che li popolano si gingillano altrettanto ignari di avere un piede sull’abisso che i personaggi di Cecov (la Keane stessa, quando era adolescente e si chiamava ancora Mary Skrine, dovette assistere all’incendio della casa avita, appiccato da irredentisti irlandesi), dei quali peraltro non condividono le pur sterili passioni culturali né le vaghe aspirazioni a un futuro migliore. Con procedimento non nuovo ma, qui, efficacissimo, i fati sono rievocati da un personaggio stupido – più stupido del lettore, chiamato a capire le cose molto prima di lui – e infantilmente egocentrico, la giunonica Aroon, figlia di un famiglia gentilizia le cui speranze sono riposte nel bellissimo e sportivo maschio, suo fratello Hubert. In un memorabile inizio Aroon praticamente uccide sua madre, querula malata, somministrandole una mousse di coniglio per la quale costei nutre una ripugnanza invincibile. “Mammina”, come Aroon sempre la chiama, è a questo punto ridotta alla mercè della figlia, che comanda in casa: ma il resto del libro contiene il lungo antefatto di questa situazione, ossia la cronaca dell’infanzia e dell’adolescenzadi Aroon, anatroccolo relativamente brutto, angheriato dalla genitrice e adorante il papà, sullo sfondo del lento e inarrestabile declino della famiglia. I giorni più lontani e fiabeschi sono dominati dal personaggio di una istitutrice, una inglese romantica, che finisce suicida perché innamorata del padre di Aroon; questi è un gentiluomo affascinante e inconcludente, la cui attività di indefesso cavallerizzo è interrotta dalla Grande Guerra, dalla quale torna senza una gamba. Il successivo avvenimento cruciale di una giovinezza spensierata malgrado i crescenti presagi di sventura, leggi conti di fornitori sempre meno disposti all’attesa, avviene quando Hubert muore in un incidente automobilistico. Allevata fra balli di compagnia e concorsi ippici, Aroon viveva le sue rare frivolezze al seguito del brillante fratello, e si era innamorata perdutamente del grande amico e sodale di lui, il giovane Richard, senza rendersi conto della natura ambigua del rapporto fra i due giovani. Alla scomparsa di Hubert segue l’ictus del padre, la cui degenza incoraggia Aroon a rinchiudersi sempre più nell’artificialità della grande casa a questo punto in piena decadenza, rivaleggiando con una serva-padrona nel fare del malato una specie di bambolotto da gratificare, e contemporaneamente rassegnandosi a restare zitella, nel sogno assurdo di un ritorno di Richard. Intanto “Mammina” cessa di essere una bambolina viziata e impone a tutti un regime di privazioni e vessazioni spesso incongrue. Fra le gemme: la rivalità di Aroon con una coppia di sorelle vicine, aristocratiche impoverite ma coraggiosamente industriose, brave con i cavali e con la manualità in generale; la festa alla quale Aroon si reca e dove ha la misura della propria indesiderabilità sociale, senza peraltro che questa la conduca a accettare la corte del direttore della banca, che benché scapolo non è un vero «gentleman». Adeguatissima traduzione di Cecilia Behmann dell’Elmo, e brillante postfazione di Viola Papetti.