Edward Estlin Cummings

La stanza enorme

COD: a8baa56554f9 Categorie: , Tag:

Collana:
Numero collana:
38
Pagine:
338
Codice ISBN:
9788881120635
Prezzo cartaceo:
€ 20,00
Data pubblicazione:
31-03-1998

A cura di Patrizia Col­lesi

Amato da Hemingway e definito da Lawrence d’Arabia «il più bel romanzo americano sulla prima guerra mondiale», La stanza enorme fu pubblicato per la prima volta nel 1922. La guerra si impone nella narrazione come la «grande assente»: C., il protagonista, viene riconosciuto colpevole di tradimento davanti a un tribunale da farsa e imprigionato ben prima di aver sperimentato direttamente la guerra, anzi dopo un mese di bella vita parigina. Dal viaggio verso la prigione, e poi durante il suo periodo di detenzione, accompagniamo C. nel suo itinerario di salvazione e nel suo cammino di conoscenza, fino a quando il protagonista finirà per spogliarsi di qualsiasi orpello civile e farà il suo ingresso in una nuova vita, consapevole della propria superiore diversità.

«Racconto acerbo e discontinuo. Fu amato da Hemingway. E tanto basti».
Mario Fortunato, «l’Espresso»

«Un romanzo memorabile, anarchico e bizzarro».
Andrea Molesini, «il manifesto»

«La stanza enorme di E.E. cummings è il miglior libro che abbia letto negli ultimi tempi».
Ernest Hemingway, 1923

LA STANZA ENORME – RECENSIONI

 

Renzo S. Crivelli, IL SOLE-24 ORE

Americana

Cummings nella stanza del pellegrino

 

Il 1922 è indubbiamente una data cruciale per il Modernismo anglosassone: escono, infatti, sia l’ “Ulisse” di Joyce che “La terra desolata” di T. S. Eliot, il poemetto destinato a segnare il tragico destino d’una generazione postbellica incapace ormai di scorgere un impianto morale nel mondo. Ma in quello stesso anno viene anche pubblicata “La stanza enorme”, un duro romanzo di denuncia della prima guerra mondiale, scritto da uno dei più grandi sperimentatori americani del Novecento: Edward Estlin Cummings. Più noto come poeta, ma anche come pittore affiliato alle avanguardie nuovayorkesi degli anni venti, Cummings costruisce un testo autobiografico in grado di ricreare una complessa struttura narrativa densa di rispecchiamenti etico-didascalici e lo fa usando come modello di riferimento, con modalità che fanno pensare all’impiego joyciano dell’ “Odissea” per l’ “Ulisse”, il “Viaggio del pellegrino”m un famoso testo metafisico secentesco di John Bunyam. Pertanto, la storia personale del protagonista giunto in Francia per dare il suo contributo pacifista nel corpo speciale delle Ambulanze (così come era accaduto per Hemingway, autore d’un altro fondamentale romanzo sulla Grande guerra come “Addio alle armi”) si intreccia alle dolorose vicende delle trincee e alle contraddizioni, ancor più evidenti nelle retrovie, d’un colossale apparato di propaganda bellica. E segna, attraverso un percorso simbolico che lo vedrà finire in prigione con l’accusa di disfattismo, le varie tappe d’una “visione trascendentale” che, mettendo alla prova l’anima del nuovo “pellegrino”, gli spalancherà le porte d’una salvezza sia materiale che spirituale. Nel lurido carcere francese di “La ferté Macé” dove è stato internato a causa dell’amicizia con William Slater Brown, un pacifista americano reo di avere scritto una lettera in cui si accennava a una “scarsa volontà di combattere un invincibile nemico da parte dei francesi”, il benestante Cummings, figlio d’un professore di sociologia dell’Università di Harvard, comincia una sorta di pellegrinaggio interiore (anche se è rinchiuso in una “stanza enorme” a condividere con veri derelitti il letto di paglia e il pozzo nero) le cui stazioni di sofferenza evocano attraverso una serie di sogni il cammino speranzoso di Christian, il protagonista del “Viaggio del pellegrino” di Bunyan. Nella “stanza enorme”, come in un ricovero odioso e infernale (visto come la Città della Distruzione) che a poco a poco si trasforma in un rifugio sicuro (lasciando intravedere la Città Celestiale) proprio perché contiene un vasto campionario di miserie umane, Cummings scopre i valori dell’umiltà e della solidarietà, abbandona i falsi valori d’una società asettica e protettiva come quella americana per immergersi nel “fango limaccioso” della vita autentica, come in un bagno purificatore che, paradossalmente, richiama un nuovo battesimo. “La stanza enorme”, pubblicato da Fazi e riedito da Patrizia Collesi (con interventi esplicativi sul testo precedente, uscito 35 anni fa da Opere Nuove e tradotto da Alfredo Rizzardi), si affianca in queste settimane a una ristampa delle poesie di Cummings da parte di Einaudi, curate da Franco Buffoni. Tradurre Cummings è molto difficile (ma la resa, in questo caso, è piuttosto soddisfacente), dato che il suo sperimentalismo “tipografico” si muove nell’ambito della sovrapponibilità tra spazio pittorico e letterario (chiamò le sue opere “poesie-pitture”, definendole essenzialmente “quadri di parole”). Basti un esempio, fra tutti: nel componimento sulla “cavalletta”, inserito nella raccolta “No grazie” del 1935, Cummings scompone, in linea con molte sperimentazioni Futuriste in cui prevale lo studio sulla dinamica dei corpi, la parola “cavalletta” per costruire un segno fatto di lettere inframmezzate da trattini a riprodurre i balzi dell’insetto nell’erba folta; di modo che, nella distribuzione tipografica del testo, il lettore/osservatore può notarne la presenza attraverso lo spostamento dei fili d’erba (cioè delle parole che indicano gli elementi costitutivi del prato). L’indeterminatezza dell’oggetto della poesia è sottolineata, in questo gioco di assembramenti semantici, dalla riproposizione della parola “cavalletta” in varie forme acrostiche (“a-t-l-e-t-l-a-v-c-a”, oppure “vallettaca” o “cAtTaValLe”), sino alla sua finale formulazione (e identificazione visiva) che allo stesso tempo contiene l’essenza del suo divenire: “per/ri(di)com(veni)por(re)si”: un “ricomporsi” che al suo interno, cioè nella lettura di ciò che sta tra le parentesi, contiene l’indicazione stessa del cambiamento: “(di)(veni)(re)”.

 

Gian Paolo Serino, LA PROVINCIA

Dimenticati. Dopo anni di oblio torna “La stanza enorme”, capolavoro del poeta e narratore

E il mostro burocratico stritolò l’Uomo

Nelle opere di Cummings un disperato urlo di ribellione a difesa dell’individuo

“Guerra vuol dire che tutti gli esseri irrealmente umani diventano veramente disumani” scrive Edward E. Cummings, poeta e narratore americano, nel romanzo “La stanza enorme” appena ripubblicato in Italia da Fazi dopo anni di oblio editoriale. Nato nel 1894 Cummings, poco più che ventenne, partecipò alla prima guerra mondiale prestando servizio come conducente di autoambulanze per la Croce Rossa in Francia. Accusato ingiustamente di spionaggio venne imprigionato per tre mesi “in un campo di concentramento”. Da questa esperienza nacque “La stanza enorme”, un “romanzo di guerra senza guerra”, in cui Cummings affronta il tema della guerra non come “gusto per il sangue e la violenza” ma come desiderio di esorcizzare il ricordo degli orrori della guerra nel confronto dell’orrore quotidiano. Un desiderio particolarmente sentito dalla popolazione americana in anni – “La stanza enorme” è del 1922 – solo apparentemente scintillanti: ai veloci cambiamenti, alla produttività resa modello, alle innovazioni tecnologiche, ad un ottimismo di superficie faceva infatti da contrasto una tensione sotterranea, una lacerazione profonda e per certi versi disastrosa. La guerra era rimasta dentro l’America: gli americani avevano la sensazione che si fosse combattuto per niente o ancora peggio che si fosse combattuto per interessi che legavano l’economia alla politica. Il mondo uscito da quella guerra era la “terra desolata” descritta da Elliot: una realtà frantumata in mille schegge ed in apparenza impossibile da ricomporre. Ne “La stanza enorme”, come anche in “Tre soldati” di Dos Passos o in molti racconti di Hemingway, l’eroe rappresentato è un americano che guarda da lontano una guerra combattuta da altri, per ideali di cui egli, osservatore distaccato, percepisce vacuità. Cummings parte dall’esperienza bellica non per consegnarci uno scarno memoriale di guerra ma il racconto della scoperta, in temo di guerra, dell’oggetto “uomo”. Si serve della guerra per esplorare “quell’inconcepibile immensità che è tanto incredibilmente lontana da apparire microscopica”: l’individuo. La guerra vista non come apocalisse ma come un’epifania, una rivelazione, una scoperta. Ed è questo il vero senso de “La stanza enorme”: è la difesa dell’uomo, dell’individuo della collettività, è la rivendicazione dell’io, stritolato dalla macchina burocratica. Come per Thoreau, anche per Cummings, “il migliore governo è quello che non governa affatto”. Ed infatti, come osserva Patrizia Collesi nella bella introduzione all’edizione Fazi (335 pagine, 38 mila lire) per Cummings i governi hanno solo la funzione di limitare lo sviluppo e la crescita dei singoli individui, soffocandola con un apparato burocratico che vuole penetrare in ogni momento della vita. Cummings crede nell’individuo, nelle virtù della mente non addomesticata, che reagisce ai fenomeni invece che ragionarci sopra. Temi – l’individualismo, l’anarchia, la libertà – che Cummings riprende ed amplifica nella successiva produzione poetica. Al Cummings poeta è dedicata un’antologia appena pubblicata da Einaudi (300 pagine, 27 mila lire) nella traduzione di mary de Rachewiltz (la figlia di Ezra Pound) e con un’introduzione di Franco Buffoni. Erede di quello sperimentalismo parigino che altri – Dos Passos, Williams, Miller – trapiantarono in America, Cummings assimila e traspone, in termini lirici personali, dal Dadaismo, da Picasso e soprattutto da Apollinaire. La poesia di Cummings, attraverso una “grafia pittorica”, è infatti, come scrive, “il tentativo di fermare nel modo più semplice un’immagine reale, nella voce, nella parola e sulla carta”. Cummings è un innovatore nell’arte della comunicazione: la sua non è solo una poesia ma modello di comunicazione. Tra i primi si è servito di quelle che ironicamente chiamava “stravaganze tipografiche”: spazi fortemente accentuati, minuscole, imprevedibili, punteggiatura anarchica. Elementi che possono apparire esclusivamente esclusivamente stilistici ma che in realtà rafforzano il concetto di Cummings secondo cui “la poesia e qualsiasi altra arte non sono che una questione strettamente individualistica”. Cummings, attraverso questa “grafia pittorica” trascende il medium e ci insegna un nuovo linguaggio del pensare e del sentire e del vivere con intensità vuole comunicare anche a coloro che definisce “nongente”, ai più che “sognano una tuta garantita anticoncezionale d’indistruttibile apersonalità”, la propria continua ricendicazione dell'”io”. Un individualismo radicato più esasperato e comunque ben lontano dalla “follia” di grandi individualisti come Willam Blake o Dylan Thomas: quello di Cummings è infatti un lirismo “non impegnato” che ci invita ad aprire il discorso poetico al massimo del potenziale percettivo: dall’idea all’occhio all’orecchio. All’io.

 

Mario Fortunato, L’ESPRESSO

 

E. E. CUMMINGS “La stanza enorme”

 

Curato da Patrizia Collesi, ecco il romanzo autobiografico del grandissimo poeta americano, scomparso nel ’63 ( fra parentesi, è proprio di questi giorni la ristampa presso Einaudi delle sue “Poesie”, tradotte da Mary de Rachewiltz ). Pubblicato nel ’22, il libro mette in scena le traversie ai tempi della prima guerra mondiale, del soldato C. colpevole di tradimento. Racconto acerbo e discontinuo, fu amato da Hemingway. E tanto basti.

 

ANTONIO DEBENEDETTI, CORRIERE DELLA SERA

Un romanzo scritto nel ‘22 dal poeta americano

CUMMINGS, PASSAGGIO ALL’INFERNO

 

Le pallottole non sono tutto. A molti chilometri dalla linea del fuoco, la guerra continua infatti la sua opera di distruzione, determinando una vera e propria “decomposizione delle coscienze”. E’ questa la tesi centrale del racconto autobiografico di E. E. Cummings “La stanza enorme”. Il libro, pubblicato a New York nel lontano 1922, è oltretutto un documento illuminante del nuovo modo di sentire della cosiddetta “generazione perduta”. Quella che si era manifestata, solo qualche tempo prima, nelle pagine di Fitzgerald e del suo “Di qua dal paradiso”. In pieno conflitto, nel settembre 1917, Cummings raggiunge la Francia. Come il suo coetaneo Dos Passos, è entrato a far parte del corpo di ambulanze Norton – Harjes. Un giorno, mente si trova nelle retrovie, il giovane poeta e scrittore viene tratto in arresto dalla polizia militare francese con l’accusa di tradimento. L’imputazione, più che discutibile, si basa sul contenuto di alcune lettere forse un po’ imprudenti di Slater Brown, amico e commilitone del nostro. Cummings, al momento della cattura, ha ventitré anni e una gran voglia di fare esperienze “forti”. Sarà accontentato. Le potenti amicizie del padre, professore di sociologia a Harward e ministro della South Congregational Church di Boston, ridurranno il soggiorno di E. E. nel campo di prigionia a un periodo risibilmente breve ma in compenso molto duro. Nella “stanza enorme”, insieme con lui, è infatti rinchiusa la guerra stessa impersonata da vagabondi, prostitute, profittatori, ladri e autentiche spie. Creature senza più illusioni che vivono soltanto della loro cupa, anarchica intolleranza di ogni autorità (qui rappresentata da carcerieri tanto ottusi quanto crudeli). Un inferno insomma, reso mirabilmente dall’autore attraverso uno stile che, a suo tempo, fece pensare alla mobilità nervosa del jazz.

 

Carlo Carlino, GAZZETTA DEL SUD
– 09/02/1998

“La stanza enorme”, romanzo di E. E. Cummings

La grande guerra vista dal campo di prigionia

 

“Il più bel libro che abbia letto negli ultimi tempi”. Questo giudizio che nel 1923 Ernest Hemingway diede sul romanzo di Edward Estling Cummings, La stanza enorme, pubblicato nell’anno precedente. Un giudizio condiviso da Lawrence d’Arabia, che anni dopo lo definì “il più bel romanzo americano sulla prima guerra mondiale”. A rileggere oggi La stanza enorme, che da non molto l’editore Fazi ha mandato in libreria a cura di Patrizia Collesi (pp. XXXIV-337), la quale ha ampiamente rivisto la vecchia traduzione di Alfredo Rizzardi apparsa per Opere Nuove nel 1963 e vi ha premesso un bel saggio introduttivo, questi entusiastici giudizi risultano ancora validi. Il libro, infatti, conserva numerose ragioni d’interesse, al di là delle emozioni più immediate che suscita e dei diversi richiami che evoca. Cummings, nato nel 1894 a Cambridge, nel Massachussetts, e morto nel 1962 New Conway nel New Hampshire, figlio di un professore di Sociologia all’università di Harvard nonché ministro della South Congregational Church diBoston, agli inizi della sua carriera di scrittore e di pittore, dopo la laurea, si arruola nel 1917 come volontario nel Corpo di ambulanze della Croce Rossa americana – anche per non prestare il servizio militare in patria – e parte alla volta della Francia e prende così parte alla Grande Guerra. Con Cummings s’imbarca un gruppo di coetanei, fra cui un altro futuro romanziere, Williams Slater Brown. In Francia, vengono destinati alla XXI Sezione sanitaria di stanza a Germane, nei pressi di Ham. Qui la loro attività si rivela ben diversa dalle aspettative: poche le missioni e piuttosto noiose le altre diverse incombenze. In più, c’è una qualche difficoltà a fraternizzare con gli altri commilitoni. L’episodio che dà origine alla storia narrata nel romanzo prende l’avvio con l’intercettazione delle loro missive; una lettera dei due giovani, inviata al sottosegretario dell’aeronautica francese, in cui manifestano il desiderio di arruolarsi nell’aviazione francese, esprimendo al contempo la riluttanza a uccidere i nemici tedeschi, insieme a un’altra di Brown indirizzata ad amici americani nella quale si leggono considerazioni sullo stato della guerra e dei soldati francesi con il giudizio che la Germania appare invincibile, fanno scattare il loro arresto. L’accusa è di spionaggio e tradimento. I due amici si ritrovano in un campo di smistamento a Orne, vicino a Marsiglia, in attesa che una commissione si pronunci sulla loro colpevolezza. Trascorsi tre mesi, i due vengono liberati, anche grazie all’intervento del padre di Cummings, il quale poi convinse il figlio a raccontare l’esperienza vissuta. Da qui nasce La stanza enorme, primo romanzo di Cumming, autore poi di altri diversi testi di narrativa e di poesia, che con uno sviluppo molto lineare racconta il viaggio verso La Ferté Macé e la permanenza forzata in quel grande stanzone in attesa del giudizio. Ma non si tratta di un memoriale, bensì di un sapiente racconto, nutrito naturalmente anche da elementi inventati, dove il lettore viene condotto alla scoperta, in tempo di guerra, dell’essere uomo. Quell’uomo che da eroe, in seguito all’esperienza vissuta nel campo di detenzione, lasci posto alla fragilità dell’esistenza. Non un libro di guerra, dunque, come molti si aspettano, ma un atipico libro di formazione, dove gli eventi bellici sono visti da un’angolazione particolare, raccontati con uno stile immediato e la mescolanza di parole straniere con l’inglese e la tipizzazione di diversi personaggi, rendono così ancora più drammatiche le vicende che si svolgono in un nonluogo e in una dimensione quasi atemporale. Ecco perché qualche critico ha parlato di “inferno” e il richiamo più immediato di questa raffigurazione letteraria pare essere Kafka. Ma la forza di Cummings è il suo gusto del ridicolo che non lo abbandona mai, nemmeno quando racconta le minute descrizioni della vita dello stanzone, le umiliazioni subite dai prigionieri, le diverse tecniche di sopravvivenza messe in atto, il sistema di complicità e di solidarietà, i minuti accorgimenti adoperati per riempire la giornata. Ed è proprio questa arma, il grottesco, a rendere ancora più alta la denuncia dello scrittore di ogni tipo di privazione di libertà, quella che la stanza enorme evoca rimandando ad altri e più crudeli luoghi di detenzione e di soppressione della dignità e della vita umane. Ma c’è di più: perché il romanzo di Cummings si dilata in un tempo che appartiene al prigioniero, non al lettore. Appartiene al suo autore rinchiuso in una stanza dove “ogni avvenimento è autosufficiente e non è relativo né ai minuti né ai mesi, né a qualsiasi altro tesoro della libertà”. Un sentire che Cummings con il suo occhio attento a un linguaggio incalzante riproduce insieme a frammenti di memoria, di vita, in un confronto che diventa sempre più serrato tra il tempo presente del prigioniero e il tempo che scorre fuori. Uno spazio che scandisce la narrazione, il suo farsi nella costante contrapposizione con un’altra immagine sempre presente nei romanzi di Cummings: un’immagine metaforica o reale che si confronta costantemente con l’esistenza; la morte. Ma accanto a questo romanzo, ormai unanimemente considerato un classico, la poliedrica figura di Cummings può essere meglio compresa dalla lettura delle sue Poesie (pp. 300, lire 27.000) che l’Einaudi ha da poco mandato in libreria a cura di Mary de Rachewiltz. Si tratta della riproposizione dell’antologia uscita presso so stesso editore nel 1974 alla quale è stata premessa una densa introduzione di Andrea Zanzotto. Versi ricchi di folgorazioni, di ricerche sintattiche, carichi dello straripante spirito anarchico dell’autore e che hanno avuto una notevole influenza sulla poesia di questo secolo e su molto lettori specie tra i giovani. Un confronto che ci consegna un universo altamente simbolico che Cummings ha intrecciato sapientemente per ribadire il proprio inno alla vita.

 

GAZZETTA DEL SUD

 

“La stanza enorme”, la guerra vista da Edward Cummings

 

Amato da Hemingway e definito da Lawrence d’Arabia “il più bel romanzo americano sulla prima guerra mondiale”, Fazi Editore ha da poco pubblicato, nella traduzione di Alfredo Rizzardi rivista da Patrizia Collesi, “La stanza enorme” del poeta americano Edward E. Cummings. “La stanza enorme” fu pubblicato per la prima volta nel 1922. La guerra si impone nella narrazione come la “grande assente”: C., il protagonista, viene riconosciuto colpevole di tradimento davanti a un tribunale da farsa e imprigionato ben prima di averla sperimentata direttamente, anzi dopo un mese di bella vita parigina. Dal viaggio verso la prigione, e poi durante il periodo di detenzione a La Ferté Macé, accompagnano C. nel suo itinerario di salvazione e nel suo cammino di conoscenza. Attraverso uno serie di quadri successivi e l’incontro con personaggi simbolici, il protagonista finirà per spogliarsi di qualsiasi orpello civile; l’harvadiano snob farà il suo nuovo ingresso nel mondo ben consapevole della propria superiore diversità. Edward Estlin Cummings nacque a Cambridge, Massachusettes, nel 1894 e morì a New Conway, New Hampshire, nel 1963. Durante la prima guerra mondiale fu soldato in Francia, anzi in un “campo di concentramento francese”, dove restò segregato per tre mesi sotto l’accusa, infondata, di spionaggio; è così che nacque il romanzo autobiografico “La stanza enorme” (1922), improntato al suo anarchismo irriducibilmente individualista, erede della cultura del New England. Ancora un’esperienza vissuta è all’origine di “Eimi” (1933), diario di un dantesco viaggio nella Russia stalinista. Tra le numerose opere poetiche ricordiamo: “Tulipani e camini” (1923), “è 5” (1926), “Viva” (1931), “50 poesie” (1940), “Xaipe” (1950).

 

Paolo Grieco, QUOTIDIANO
– 05/06/1998

“La stanza enorme” dello scrittore americano Edward Estlin Cummings

Il mondo ingiusto

Un capolavoro sulla esperienza di combattente nella Grande guerra

Nell’aprile del 1917 Edward Estlin Cummings, laureatosi da poco a Harvard, manifestò in una lettera al padre, docente di sociologia nella medesima università, l’intenzione di partire per l’Europa per partecipare alla guerra. Il suo non è un desiderio di avventura, l’anelito rischio delle battaglie, la volontà di sfidare la morte. “Rappresenterà – spiega al padre – un’esperienza importantissima il poter fare qualcosa che voglio fare in un ambiente totalmente nuovo, piuttosto che essere costretto a fare qualcosa che non voglio in un ambiente immutato. Spero soltanto di poter prestare servizio al fronte”. Come molti altri giovani americani, Cumming cerca la novità, il gusto di osservare il mondo e gli uomini da un’altra angolazione, che non ha nulla a che vedere con le ragioni politiche del conflitto. Anzi, fin da allora il giovane Estlin sostiene la causa dell’individuo indipendente, prendendo posizione contro i governi colpevoli di limitarne la libertà e la crescita. Arruolatosi volontario nel corpo di ambulanze Norton-Harjes – guidare un’ambulanza (tema che si trova nell’”Addio alle armi” di Ernest Hemingway) costituisce la condizione ideale per partecipare alla guerra senza essere costretti a combattere, – Cummings si trova a volgere mansioni deludenti, frustanti, come la pulitura delle macchine. Niente missioni al fronte, ma solo operazioni di routine agli ordini di superiori ottusi, sprezzanti verso i Francesi. Così, quando il suo amico William Slater Brown, studente di giornalismo alla Columbia University, scrive lettere che, intercettate dalla censura francese, vengono giudicate sovversive, anche lui è arrestato con l’accusa di tradimento semplicemente perchè in stretti rapporti con l’autore delle missive. Deportato nel campo di detenzione La Ferté Macé, ne viene liberato dopo qualche mese, grazie all’intervento del padre presso il presidente Wilson. La lunga premessa è necessaria per spiegare la genesi di uno dei più importanti romanzi della letteratura americana: “La stanza enorme” (edito da Fazi). In esso Cummings ha descritto la sua vita di prigioniero in Francia. Pubblicato per la prima volta a New York nel 1922, fu considerato subito un classico. Per Hemingway era “il più bel romanzo americano sulla prima guerra mondiale”. Incluso, dopo varie edizioni, nella Modern Library, a testimonianza del suo valore, ma in seguito dimenticato come altre opere sullo stesso tema, “The enormous room” è ritornato di recente in auge sulla scia della fama nel frattempo raggiunta dall’autore – spentosi nel 1962 – come e(ccellente poeta, pittore e narratore. Romanzo affascinante e sorprendente, “La stanza enorme” è un libro sulla guerra in cui la guerra è assente. Cummings dipinge i duri giorni della prigionia con spirito comico, con umorismo da intellettuale conscio della sua superiorità, capace di guardare dall’alto, con disprezzo un pò snobistico, la realtà. La sua prosa deride le privazioni, le condizioni umilianti della reclusione, il suo io prende il sopravvento sulla materia e sui personaggi – prigionieri e custodi – che lo circondano, giudicandoli con sottile finezza paradossale humour. “Ero me stesso – dice il protagonista descrivendo il momento in cui arriva in cella. – Una gioia incontrollabile mi sconvolse dopo che per tre mesi ero stato umiliato, comandato, oppresso, insultato, ed ero appartenuto a un gregge. Ero me stesso, e padrone di me “. Alla Ferté Macé “la morte diviene degna di essere vissuta e la vita degna di essere morta” e tra i suoi compagni vi è un “tipo effeminato e piuttosto alto dall’impeccabile vestito funereo che pendeva qua e là su un corpo affrettato e attempato. Un gran berretto nero sormontava il viso allampanato e accuratamente sbarbato. Questo tipo emanava vecchiaia, pulizia e disperazione (…) L’ansia era dipinta su ogni spazio infinitesimale della sua persona (…) Il viso consisteva in due vasti piani contrapposti dove era inciso il pathos”. Con uno stile narrativo con cui le parole francesi sono spesso intercalate nel racconto per far rieccheggiare meglio l’atmosfera, Cummings non risparmia sferzate ironiche ad una vita che si svolge regolarmente, a comando: “Nettoyage de chambre, A la promenade les hommes, Montez les hommes, A la soupe les hommes… La messe…”. “Il chierico aveva l’incombenza di rialzare il prete quando cadeva per aver inciampato nella sottana, di porgergli le cose prima che fosse il momento, d’interrompere i momenti particolarmente divini del servizio con lo scricchiolio acuto delle scarpe”. Non mancano le descrizioni delle donne, tra le quali le putaines come Lilly, una ragazza tedesca, che sembrava incredibilmente vecchia e indossava abiti che una volta dovevano essere stati bianchi. Aveva un cfollo su cui “era stata messa una faccia perché tutto il mondo la guardasse con paura”. Sono solo alcuni esempi che invitano alla piacevolissima lettura di un libro ben curato, dalla traduzione all’attenta e intelligente presentazione di Patrizia Collesi, la quale giustamente sottolinea il valore di questo romanzo.

 

Andrea Molesini, IL MANIFESTO
– 04/02/1998

 

Cummings il cuore agli uccelli

 

James Joyce aveva l’abitudine di appoggiare l’orecchio al pavimento per ascoltare le voci dei contadini che abitavano il piano di sotto: conversano – diceva – in un idioma così inconsapevolmente ricco di storia e di fascino da costringermi all’ascolto. Viviamo in un’epoca di poesia scritta per l’occhio, e dovunque, dai poster alla tv al cinema, tutto sembra congiurare contro l’orecchio, che vive perennemente immerso nel rumore. Nell’era del rumore e dell’immagine in movimento, però, uno sparuto gruppo di poeti organizza una resistenza alla sordità. In prima fila per audacia ed eleganza c’è Cummings, che ingiustamente viene spesso evocato più per le “stramberie” grafiche (nomi propri minuscoli, versi monosillabi, soppressione degli spazi tra le parole, punteggiatura capricciosa) che per i modi leggeri, parlati, del suo dire poetico, di cui le anomalie grafiche sono una conseguenza necessaria, non arbitrio decorativo. Edward Estlin Cummings nasce nel Massachusets nel 1894, e muore nel 1962 nel New Hampshire. Figlio di un ministro della South Congregational Church di Boston, studia e si specializza in lettere a Harvard. Durante la prima guerra mondiale è soldato in Francia, dove viene internato sotto la falsa accusa di spionaggio. La prigionia viene raccontata in un romanzo (1922) memorabile, anarchico e bizzarro quanto il suo autore, The Enormous Room, ora proposto da Fazi in italiano (La stanza enorme). Ma saranno i numerosi libri di versi dai titoli provocatoriamente sintetici (& (And); XLI Poems; is 5; No Thanks; 1/20; 1×1; Xaipe), gli acquerelli, i lavori teatrali e i diari di viaggio a farne un personaggio davvero emblematico del secolo dell’ansia. Savinio definì la lingua inglese come la lingua della rara stirpe degli uccelli. Cummings, di cui ora Einaudi ripropone la traduzione (1974) di Mary de Rachewiltz, sapientemente aggiornata e arricchita dalla prefazione di Franco Buffoni (Poesie), riconosce nell’inglese questa vocazione, che vorrebbe donare all’umanità tutta: “sempre sia il mio cuore aperto ai piccoli/ uccelli che sono il segreto del vivere/ qualsiasi loro canto meglio del sapere/ e gli uomini che non li sentono sono vecchi”. Col suo ritmo spezzettato Cummings insegue la verità della lingua parlata, ma lo fa nel solo modo concesso alla poesia, cioè quello della reinvenzione nutrita di cultura letteraria: ci vuole la sensibilità di Joyce, la sua sconfinata cultura, per giustificare quell’orecchio appoggiato al pavimento. Cummings sta dalla parte della parola sussurrata, affettiva, buffa, scanzonata, sapientemente gioviale e beffarda: così il sospiro di dio viene detto “più grande d’un tendone da circo” e il politico “un culo su cui/ tutti si sono seduti eccetto un uomo”. La seriosità delle nostre piccole vite viene così ripetutamente messa alla berlina da questo sguardo scanzonato, grave di un’ilarità infantile, non trattenuta eppure, come per miracolo, squisitamente composta: “nessuno perde sempre// avevo uno zio di nome/ Sol ch’era un fallito nato e […] il podere di Zio Sol/ andò a monte perché i polli/ mangiavano la verdura/ così Zio Sol mise su/ un allevamento di polli/ ma le puzzole li divorarono// e Zio Sol mise/ su un allevamento di/ puzzole ma presero freddo/ e morirono/ così Zio Sol imitò in/ modo subdolo le puzzole// o si affogò nella vasca […] ricordo tutti piangevano come il Missouri/ quando il feretro di Zio Sol traballò/ perché qualcuno aveva spinto/ un bottone (e giù/ andò Zio/ Sol// a metter su un allevamento di vermi)”. La critica avversa a Cummings, ricorda Buffoni nel saggio introduttivo, ha sempre sottolineato “come nella sua opera non vi fosse evoluzione alcuna, o maturazione, progresso”. Vero, forse, ma vero anche che quest’autore non ha mai avuto bisogno di evolversi, perché il suo rapporto con la lingua era infantile, sapientemente infantile, per questo le sue intuizioni affettive, nei primi come negli ultimi libri, restano pungenti scardinatrici del senso comune, proprio come la battuta che il poeta cita nell’Introduzione di is 5, del 1926: “Colpiresti una donna con un bambino?” “No, la colpirei con un mattone”. E non per caso ha anche scritto fiabe per bambini, incantate e bizzarre. Cummings racconta, nel suo cinguettare un poco strafottente, che non si sa chi perde e chi vince, che principi e barboni vivono alla distanza di un capello l’uno dall’altro, anche se non lo sanno: ci ricorda anche che l’esilio dell’allegria e dell’eccentricità è una sciagura più grande, più subdola e devastante di un’epidemia di vaiolo o di un travolgente crollo della borsa.

La stanza enorme - RASSEGNA STAMPA

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