Anthony Powell
Un mondo da accettare
Traduzione di Chiara Vatteroni
Con Un mondo da accettare, terzo dei dodici romanzi della serie di Anthony Powell, si conclude il primo “movimento” della Danza alla musica del Tempo, considerata come uno dei massimi capolavori della letteratura inglese. Siamo all’inizio degli anni Trenta e Nicholas Jenkins è ormai un giovane scrittore impegnato nell’editoria d’arte. Nel corso di uno dei suoi incontri con lo stravagante zio Giles, fa la conoscenza di Mrs Erdleigh, una chiaroveggente che si sente in dovere di predirgli il futuro. Durante un pranzo con il vecchio compagno di università Peter Templer e l’affascinante consorte – nonché famigerata ex modella – Mona, incontra Jean, sorella dell’amico e sua vecchia fiamma, infelicemente sposata con il volgare Bob Duport. Il successivo weekend nella casa dei Templer favorisce inevitabilmente l’inizio di una relazione sentimentale tra Nicholas e Jean. Una cena in onore degli ex allievi, organizzata dal preside Le Bas, diventa l’occasione per ripassare vecchi aneddoti, ma anche lo spunto per aggiornarci sulle ultime avventure del pomposo e invadente Widmerpool (un suo magniloquente e non richiesto discorso di circostanza viene bruscamente interrotto dalla fragorosa caduta di Le Bas, colpito da apoplessia). In Un mondo da accettare, come nei due romanzi precedenti e nei successivi, personaggi e ricordi vengono descritti dall’autore con trascinante ironia o, a volte, con una sottile vena di malinconia, sempre però senza alcun sentimento di rimpianto e di perdita. La vita per Nicholas (e per il suo alter ego Anthony Powell) è un progresso continuo che non ammette retorica, né per il passato né, tanto meno, per il futuro: nulla si perde, figure e situazioni continuano a riaffiorare in questa saga brillante ma ricca di profonde riflessioni esistenziali. “…quando ci si avvicina ai trent’anni tutto il mondo diventa un mondo da accettare; almeno dopo che sono state scartate alcune illusioni. Lo dimostrava il semplice fatto di esistere ancora come essere umano”.
– 27/09/2002
Un mondo da accettare
Con il terzo dei dodici romanzi “Una danza alla musica del tempo” giungiamo all’inizio degli anni Trenta, quando il protagonista, Nicholas Jenkins, è un giovane scrittore che lavora nell’editoria. Molti, come sempre, i personaggi di contorno: gli Erdleigh, lo zio Gilles, il critico Quiggin, tutti appartenenti all’aristocrazia o all’alta borghesia, unico mondo, a parte qualche pagina in un rozzo club italiano, che Powell prenda in considerazione con la sua prosa minuziosa e avvolgente che non è fatta per lettori frettolosi.
– 01/08/2002
Un mondo da accettare
E’ il terzo di 12 romanzi che l’autore inglese riunisce nel ciclo “Una danza alla musica del Tempo” ed è preceduto da Una questione di classe e da L’arte del mercato. Definito il “Marcel Proust anglosassone”, Powell, con questa lunga serie, costruisce il romanzo di formazione del giovane Nicholas Jenkins, scrittore impegnato nell’editoria d’arte. Dopo l’analisi della prima giovinezza, oggetto dei precedenti titoli, in questo”mondo da accettare” si sompie il passaggio alla maturità, con tutto il disincanto e le disillusioni che il passaggio comporta. La penna di Powell stempera gli eventi in un’ironia di inconfondibile stampo british. Ecco l’incipit: “Una volta ogni tanto, magari ogni diciotto mesi, su una cartolina scritta con la calligrafia ordinatat e compressa dello zio Gilles, arrivava un invito a prendere il tè all’Ufford…A questo aspetto antico e assai deprimente dell’albergo, lo zio contribuiva in non piccola misura”.
– 13/07/2002
“Un mondo da accettare”
Il giorno che per la prima volta entrò nel college di Eton, Anthony Powell vide un ragazzo che fischiava un popolare motivetto, con il cappello inclinato all’indietro e una mano in tasca, in una rappresentazione quasi perfetta della celeberrima posa di Eton – una spalla più alta dell’altra, le ginocchia appena piegate. Pensò che quella era la cosa più sofisticata che avesse mai visto, e questo gli diede una concezione di quella scuola che non lo avrebbe più abbandonato. Sentì nei comportamenti della persone tra cui si trovava una sicurezza antica, che avrebbe messo “a proprio agio anche la più insipida delle matricole”. Anthony Powell condivise i suoi anni alla old school con George Orwell, Cyril Connolly e Howard Acton, e non smise più di appartenerle. Ne fece il suo mondo, e la misura del suo mondo. Trent’anni dopo, senza mai nominarla com’è per le cose che ognuno sente sacre, vi ambientò la prima parte del ciclo di romanzi che lo avrebbe consegnato alla storia della letteratura. Iniziò a scrivere il primo di quei romanzi nel 1938, sentendo forse arrivare la guerra e con la guerra la fine di quel mondo e di quella gente di cui voleva raccontare la Danza alla musica del Tempo. Chiamò infatti così l’insieme delle sue quattro trilogie di romanzi, prendendo a prestito il titolo da un quadro di Poussin in cui le Quattro Stagioni, “mano nella mano, ballano al ritmo delle note di una lira suonata da un vecchio nudo con le ali”: ogni trilogia una Stagione, ogni Stagione una condizione umana: piacere, ricchezza, povertà, fatica (a chiudere il primo trittico è appena uscito Un mondo da accettare, p. 232, 16 €, Fazi Editore).
Della Danza Eton fu non solo sfondo ma principio ispiratore, specie nella misura in cui ne è protagonista e narratore Nicholas Jenkins, cui Powell prestò volentieri cospicui stralci di sé. Entrambi figli unici di ufficiali in pensione, con una carriera nell’editoria dopo Eton e Oxford, pubblicano negli anni Trenta romanzi di onesta qualità, e presto si trovano lavori lucrosi e inopportuni come sceneggiatori dei film di serie B prodotti da Hollywood in Inghilterra. Il matrimonio li trasporta dentro vaste e titolate famiglie britanniche: nel caso di Powell, quella della terza figlia del quinto conte di Langford. Allo scoppio della seconda guerra mondiale si arruolano nei reggimenti dei padri: hanno rapporti con i quadri militari di Polonia, Belgio e Cecoslovacchia, venendo insigniti al valore da ciascuno di questi Paesi. “Alla fine” scrisse Powell “la maggior parte delle cose della vita – forse tutte – si rivelano essere appropriate”: i romanzi della Danza contengono meglio la sua vita dei quattro volumi autobiografici e tre diari che pubblicò in vecchiaia, e al tempo stesso la sua vita sembra aver contenuto meglio della Storia la biografia di una nazione.
Anthony Powell aprì la sua Danza sul 1921, e la chiuse al 1971: mezzo secolo di affresco sociale su morals and manners d’Inghilterra, duemilanovecentoquarantotto pagine e un milione di parole per celebrare la luce del giorno qualunque, e descrivere “esattamente le cose come succedono”. Vi trovano posto quasi cinquecento personaggi, soprattutto uomini e da ogni sfumatura della borghesia – da quella che Orwell chiamava sprezzante la lower upper middle class -; ma non mancano per questo campionari eccentrici di altre umanità, quanti almeno ne poteva annoverare la curiosità di un baronetto che sulla soglia dei settant’anni sapeva parlare il gergo degli hippy senza cadere in errore.
La generosa eleganza di quest’architettura narrativa era compatibile solo con la commedia – anche se non è più quella angusta dei suoi primi libri come Afternoon Men, in cui metteva in caricatura quelli che sdegnava come i bohemien di Bloomsbury, né la comedy of manners del compagno di studi oxoniani Evelyn Waugh. La Danza torna piuttosto a quella legge eterna e nascosta che vuole la convergenza verso la commedia di ogni forma di narrazione estesa all’intero spettro dei tipi umani. Come in Dickens e Balzac, all’onniscienza dei caratteri si chiede la commedia, non il dramma: ogni destino è tragico, l’umanità è ridicola.
Ed è lo stesso narratore il principio di ironia lungo i dodici romanzi: Nicholas Jenkins, ormai conciliato con “la futilità ultima di qualunque sforzo umano”, sente la precarietà di ogni giudizio, e della capacità stessa di un giudizio. Alcuni dei momenti più intensi accadono proprio quando un personaggio lascia d’un tratto intuire una maggiore quantità di esperienza o di abilità rispetto a quella che Jenkins fino ad allora gli aveva concesso, e lo fa magari solo nel luccichio obliquo di una battuta alla fine di un dialogo.
Il principio antagonista, il principio di volontà, è invece nella figura maestosa e miserabile di Kenneth Widmerpool: appare e scompare e riappare in forme ogni volta nuove ma mai diverse – come un tema musicale in una fuga. Compare per primo dopo pochi paragrafi, mentre corre nella nebbia facendo allenamento per squadre che non lo selezioneranno mai, come inghiottito nella sua ostinazione. E scompare per ultimo dalla narrazione, vecchio e nudo, ricchissimo e omicida, mentre corre e farfuglia: “Sono in testa, adesso sono in testa!”. È stupido quanto necessario, perché serve sempre una dose di ottusità per volere fino in fondo. Eppure, al capolinea di un’implacabile ascesa al potere passata attraverso l’abiezione e il sangue – e per quanto sinistro, oppressivo, inquietante -, lord Widmerpool ispira ancora, in qualche modo, inesplicabilmente, un sentimento di pietà. E insieme: di ironia.
Alla sua morte, un giorno di primavera del 2000, Anthony Powell lasciò come ultima disposizione che le sue ceneri fossero sparse nel lago accanto alla sua casa di campagna. Non prima però che fosse consultata l’associazione della pesca, perché in quella stagione era previsto un delicato programma nutrizionale per le trote.
Il Tempo che fa danzare le Stagioni al suono della sua lira ha un sorriso sardonico.
– 21/06/2002
TERZO VOLUME DI DANZA DELLA MUSICA DEL TEMPO DI POWELL
”Una danza alla musica del tempo rappresenta il più alto livello mai raggiunto dalla narrativa inglese nella seconda metà del Novecento” ha scritto il New York Times Book Review a proposito di ”Un mondo da accettare” di Anthony Powell, appena pubblicato in italiano da Fazi.
”Il suo stile e’ unico. Mescola raffinata eleganza con una
sintesi quasi stenografica. L’effetto e’ comico, stilizzato,
intellettualmente stimolante, contagioso”, spiega invece il
critico del Daily Telegraph a proposito di quello che e’ stato
definito ”il Proust inglese”.
E’ questo il terzo dei dodici romanzi che compongono la serie
scritta da Anthony Powell, e che conclude il primo “movimento”
della ”Danza alla musica del Tempo”, considerata uno dei
massimi capolavori della letteratura inglese. Fazi Editore la
sta pubblicando integralmente.
Si tratta di un brillante affresco della società britannica e
della rivoluzione sociale e sessuale che ne ha trasformato il
volto nel corso del ventesimo secolo, la cui trama si snoda tra
la fine della Grande Guerra e gli anni Sessanta e segue le
vicende di Nicholas Jenkins, protagonista e alter ego dello
scrittore stesso. Scritta con elegante stile e ironia la ”Danza
alla musica del tempo” e’ non solo un divertentissimo viaggio
all’interno dell’alta società inglese, ma anche una profonda
riflessione sulla vita portata avanti con lo humour e l’acutezza
proprie di quello che è stato definito ”l’ultimo leone della
sua generazione”.
Channel Four ha realizzato un film di 8 ore tratto dalla
”Danza”, cui hanno preso parte alcuni tra i migliori attori
del teatro inglese: Alan Bennett, Miranda Richardson, James
Purefoy, Simon Russell Beale.
Anthony Powell è nato a Londra nel 1905 ed è morto nel 2000.
Formatosi a Eton e Oxford, dove entrò in contatto con Evelyn
Waugh e Graham Greene, è stato anche sceneggiatore e critico
letterario. Oltre a quelli che compongono la ”Danza alla musica
del tempo”, ha scritto numerosi romanzi, saggi critici, quattro
libri di memorie, i diari pubblicati in tre volumi, biografie e
testi teatrali.
In suo onore si è costituita la Anthony Powell Society, il cui
sito su internet fornisce una vastissima fonte di informazioni
tra cui anche la famosa ”Curry recipe” dello scrittore.
– 29/03/2000
The importance of Powell
The passing of Anthony Powell marks the closing of a span in English life and in English fiction. The life began in 1905 and the fiction in 1931: Powell was one of the few men still writing at the end of the last century who had known both “pre-war” periods. His acquaintance was an almanac of the national letters, his close friends having included George Orwell, Evelyn Waugh, Harold Acton, Cyril Connolly, Malcolm Muggeridge, Somerset Maugham, Kingsley Amis and Sir Vidia Naipaul. In four volumes of autobiography and three books of journals he distilled much of the flavour of each decade of a remarkable century.
His 12-volume novel sequence, A Dance to the Music of Time, remains the towering centre of the large edifice of work which he raised in his lifetime. Beginning before the Great War and concluding in the Sixties, this literary enterprise has become, for an everwidening audience, the essential fictional narrative of a generation. If it was not intended to rival Marcel Proust – of whom Powell was an admirer – it will stand comparison with him for its evocative and somewhat melancholy qualities. But it almost certainly surpasses him in its deployment of comedy and has added greatly to our national stock of familiar and defining “characters”. In the terrifying figure of Kenneth Widmerpool, the humourless and ambitious solipsist and opportunist, Powell held up a looking glass to a certain sort of what the modern world deems “success”.
But, in his limning of numerous miniatures – Charles Stringham, Pamela Flitton, Hugh Moreland, Sir Gavin Walpole-Wilson – Powell also contrived to net and capture some imperishable national “types”.
Born as the only son of an irascible and insecure professional soldier, Powell was a sickly boy who was christened in a hurry because it was feared he might not live. He survived this and also an average nasty preparatory school for boys, of which he later laconically wrote: “I do not wish to appear less competent than my contemporaries in making creep the flesh of the epicure of sadomasochist school-reminiscence.” Making the transition to Eton was, for him, an emancipation, since it allowed his interest in art to develop. His aesthetic contemporaries included both Harold and William Acton, Brian Howard and Henry Yorke – better known as the novelist Henry Greene. Other boys who were at the school at the same time, notably Cyril Connolly and Eric Blair, who later became George Orwell, were not to become friends until later. (Powell eventually met Orwell in the Café Royal in 1941 and his account of the meeting demonstrates his instinct for the telling detail. The author of The Road to Wigan Pier wanted to know if Powell’s uniform trousers strapped underneath the foot as his own had done while on colonial service in Burma, and Powell could tell from his “classless” accent that he had “resigned from the world in which he had been brought up”.)
Going up to Balliol in the early Twenties to read history, Powell found himself in what we might now lazily call “the Brideshead generation” of those bright yet restless young things who had missed the formative experience of active service in the Great War. His fellows and tutors – Evelyn Waugh, Alfred Duggan, Peter Quennell, Maurice Bowra – are familiar from countless reminiscences of the period and his experiences during the long vacation (losing his virginity to a hired parisienne) were not untypical except in their unambiguous heterosexuality. His father had become military attaché in Helsinki and Powell’s youthful experience in the Baltic was to form the raw material for one of his best minor novels, Venusberg.
Indeed, Powell early showed a great ability for translating his observant eye and dry comic ability into condensed fictional form. Afternoon Men – the title is taken from Robert Burton’s Anatomy of Melancholy – captured the listless world of a certain element of Bohemia in 1931 and was succeeded by From a View to a Death, Agents and Patients and What’s Become of Waring. While writing these terse, witty microcosms, Powell was working in publishing at Duckworth’s, studying painting and music as an amateur, visiting Hollywood (where he made the acquaintance of F Scott Fitzgerald while failing to land a job as a screenwriter) and wooing Lady Violet Pakenham, third daughter of the fifth Earl of Longford. He also began work on his life of 17th century biographer and antiquarian John Aubrey.
The advent of the Second World War saw him gazetted in his father’s old Welch Regiment and sent on garrison duty to Northern Ireland before becoming attached to the work of liaison with exiled Allied governments in London.
These experiences are richly reworked in the third trilogy of A Dance to the Music of Time and it seems probable that it was a wartime which saw the maturing of the Powell style: a more complex, reflective and subtle prose, imbued with a strong sense of history, tradition and genealogy, mythology and the occult. (In Infants of the Spring, the first volume of his memoirs, Powell traced his ancestry back to the mistiest possible forebears in the quasi-legendary martial Welsh nobility).
After the war, with a growing family, he managed to combine the literary editorship of Punch – during the celebrated editorship of Malcolm Muggeridge – with the steady work on his novel sequence. The inaugural volume, A Question of Upbringing, was published in 1951 and the concluding one, Hearing Secret Harmonies, in 1975. The labour was lightened by a happy move which the Powells made from town to country, taking up residence at The Chantry in Somerset and housing a number of highly individual cats plus two sons, Tristram and John. As the novels began to fall one by one from the press, they won an increasingly appreciative audience. Kingsley Amis, describing the sequences as “the most important fiction since the war”, added that “I would rather read Powell than any other novelist now writing.”
The often-employed term “quintessentially English” could be misleading, in that Powell drew on a wide index of authors, ranging from Italo Svevo to the Swiss Henri-Frederic Amiel. He was easy in France and in French. There was nothing of the provincial about him, though in later years he grew to dislike London and to content himself with a circle of friends and visitors in the country. Though always a High Tory in politics, his intimates included many liberals such as Roy Jenkins and Evangeline Bruce. (Miscellaneous Verdicts, his collection of reviews, mainly culled from The Daily Telegraph, was dedicated to Jenkins). Powell succeeded in making his work into a part of our social landscape, partly because he had such a close and intuitive understanding of it.
In his 1965 introduction to Burke’s Landed Gentry, he analysed the English system of tenure and precedence that had shown such extraordinary continuity and speculated: “Have we a deeply rooted, even ineradicable taste for drawing social distinctions for their own sake and then disregarding them? … Is it something innate, a subtlety in human contacts due as much to appreciation of special circumstances, even friendly diffidence, rather than to less desirable characteristics sometimes put forward in explanation?” He devoted much of a lifetime to suggesting an answer for these questions.
We are left with the extraordinary stoicism of Grave Goods, the closing chapter of his last volume of memoirs The Strangers are all Gone. “Even when the graveyard, if perhaps not the grave itself, must be admitted to have moved closer into the foreground of one’s local landscape, I do not find conclusions at all easy to formulate; certainly not rules for life.” He went on: “For instance, there seems a lot to be said for that mystic precept of the 19th century magician Eliphas Levi (quoted more than once in Dance): To know, to will, to dare, to be silent; but I’m not sure the Mage’s words make a very refreshing draught at so late an hour. It can be said for his recommendations, however, that they leave options wide open; are certainly not to be taken as aiming at a mere success story.”