Stéphane Mallarmé

Racconti indiani

COD: 9bf31c7ff062 Categorie: , , Tag:

Collana:
Numero collana:
13
Pagine:
148
Codice ISBN:
9788881120147
Prezzo cartaceo:
€ 9,00
Codice ISBN ePub:
9788864119458
Prezzo eBook:
€ 4.99
Data pubblicazione:
01-11-1995

A cura di Attilio Scar­pellini
Testo francese a fronte

I Racconti indiani, pubblicati nel 1927, dopo la morte di Mallarmé, e presentati qui per la prima volta in traduzione italiana, nascono sull’incerto confine che lega la riscrittura e la creazione. Le antiche leggende indiane, grazie al grande poeta francese, acquistano ancora più fascino e mistero, contemplando tanto la morbida curva della fiaba quanto l’ossessiva perfezione della lingua che si fa musica e sogno.

“La fatica la vince, lotta contro il sonno, non vuole cadervi, per pudore più che per spavento, di fianco all’ospite di quella dimora. Attende, spia. All’improvviso una campana di bronzo approfondisce il silenzio; e la maschera rianimata, l’eroe, si solleva lentamente sul letto funebre, scende a terra e cammina, con gli occhi aperti, dritto verso la lapide, dietro la quale si è rannicchiata l’ingenua”.

“Temeraria, chi siete voi che venite a disturbare i morti?”.

“Una povera ragazza abbandonata, che cerca di ripararsi dalla tempesta: non cacciatemi, ve ne supplico”.

RACCONTI INDIANI – RECENSIONI

 

Cristina Di Grado, LEGGERE
– 05/01/1996

 

Racconti indiani

 

Nel 1927, il dottor Bonniot pubblicò a Parigi ‘Contes indiennes’, una raccolta rimasta inedita di racconti di Mallarmé: frutto di una rielaborazione dei ‘Racconti e leggende dell’India antica’ di Mary Summers, questi ‘Racconti indiani’ rivisitano quattro delle più famose leggende indiane, fra cui spicca il racconto della complicata e tormentata unione dei principi Nala e Damayanti. È facile immaginare quale fosse il fascino esercitato negli ambienti culturali europei di fine Ottocento da parte di quelle popolazioni e culture orientali di cui poco si sapeva, nonostante la colonizzazione, e di cui tanto più si voleva conoscere attraverso le produzioni letterarie. I ‘Racconti indiani’ rispondono proprio a questa duplice esigenza: da un lato, di divulgare i racconti estratti dall’immensa fioritura novellistica indiana (e non è difficile arguire che le poche e cattive traduzioni che allora circolavano fossero dovute alla scarsa conoscenza del sanscrito e alle altrettante mediocri redazioni di fiabe da parte di chi le aveva lette o, semplicemente, sentite raccontare); dall’altro, di rivestire la materia tratta dal libro della Summers dell’eleganza della prosa di Mallarmé. La perfezione dello stile dona nuova vita alle novelle, quella, però, di una prosa più “europea” che indiana, che elimina le contraddizioni, le magie ì, le irrazionalità di un testo sanscrito normalizzato e rifondato attraverso la bellezza poetica del linguaggio di Mallarmé. Risultato, dunque, squisito dal punto di vista letterario: è sempre lodevole che ci si sforzi o ci si sia sforzati di rendere accessibile anche i profani la cultura indiana (come ha fatto, per esempio, Hesse con il suo ‘Siddharta’), ma resta consigliabile tenere a portata di mano, sulla propria scrivania, una raccolta originale di novelle indiane, dal suono e dall’atmosfera completamente differenti.

 

Giuseppe Merlino, L’INDICE DEI LIBRI DEL MESE
– 06/06/1996

 

INDIANI IN SALOTTO

 

Che sono mai questi Racconti Indiani di Mallarmé che pure, tra Les mots anglais e La dernière mode, ha dato prova di saper essere uno scrittore di circostanza? Sono un compito galantemente svolto per far piacere a un’amica molto amata? Un esercizio di stile, un’operina gratuita, eseguita per riprendere fiato tra due alte stagioni poetiche; una squisitezza fin de siècle, come tante altre?un autopastiche? O addirittura un'”antologia fiabesca della sensualità mallarmeana” come ha scritto Jean-Pierre Richard? Gerard Genette, in Palinsesti (1982), cita i Racconti Indiani come un buon esempio di “transtilizzazione non parodica” (un testo che non ha uno stile ne riceve uno), scartando così ogni interpretazione di questo libro come un autopastiche (auto)ironico e narcisistico. Questo è un primo punto interessante. Cominciamo, dunque, dall’inizio. Da dove nascono questi Racconti? Lo narra con precisione Claude Cuénot in un numero del “Mercure de France” del 15 novembre 1938. Nel salotto sovraccarico di bibelots (per nulla inclini, però, a s’abolir come ingiungeva la musa severa del poeta) e di dubbio gusto di una seducente e generosa cocotte – un po’ Secondo Impero e un po’ Terza Repubblica -, madame Méry Laurent, vorace collezionista di friandises, di gioielli e di celebrità in voga (tra i più amati: Manet e Mallarmé, del quale l’editore Gallimard ha pubblicato quest’anno le lettere a lei indirizzate; e poi Régnier, Coppée, George Moore, Reynaldo Hahn, Villiers de l’Isle-Adam, Whistler, ecc.), in quel salotto, dunque, uno degli ospiti, in una sera del 1892 o forse del 1893, sfogliando i Racconti e leggende dell’India antica (1878) di Mary Summer, osservò che quel libro, illustrato bene e riscritto en artiste, sarebbe stato di piacevolissima lettura. “Niente di più facile – replicò l’intraprendente demi-mondaine – lo faremo riscrivere da Mallarmé”. E così, per galanteria, per divertimento, per amicizia o per debolezza (“je ne suis pas volontaire”, diceva volentieri il poeta), Mallarmé scelse quattro racconti della Summer e li “transtilizzò”! L’interesse di un lettore per questa riscrittura è duplice. Il primo è quello di ritrovarvi un catalogo tematico, allo stato puro, delle più costanti fascinazioni mallarmeane. Il secondo è quello legato al lavoro grammaticale, sintattico e lessicale prodigato da Mallarmé sul testo, piuttosto normalizzato, di Mary Summer. Sia Jacques Scherer, in un articolo apparso anch’esso sul “Mercure de France” nell’aprile del 1938, e sia Jean-Pierre Richard nel suo classico studio su L’univers imaginaire de Mallarmé (1961) hanno rintracciato ed elencato i temi cari al poeta e presentati nei Racconti con un’inattesa semplicità. Mi limito qui a riassumerli in luogo delle trame immemoriali dei racconti stessi, che destano nel lettore una curiosità minore di quella suscitata dalle manipolazioni di Mallarmé. Il teatro e la danza – due forti predilezioni del poeta – sono richiamati in questo testo; l’uno è racchiuso nelle parentesi che hanno il compito di didascalie o di indicazioni di scena volte a completare il personaggio e ad aiutare il lettore; e l’altra – la danza – appare nelle immagini ricorrenti di festa e di riconciliazione che celebrano il lieto fine delle favole. Poi c’è lo charme – da intendersi come delizia e come minaccia – della fatalità e, con esso, quella propensione alla passività che caratterizza la vita dei personaggi e li fa passare da incontri involontari ad agnizioni imprevedibili, da incantamenti subitanei a metamorfosi irresistibili. Poi c’è la sensualità, ma nelle forme precise dello sguardo audace e rispettoso, della nudità anteriore al pudore, del voyeurismo casto, della preziosità del corpo decorato e dell’orientalismo nelle parures e nelle posture. Infine c’è l’intrecciarsi strettissimo dell’esperienza dell’eros con quella della morte e che occupa, ad esempio, l’intero racconto Il morto vivente; ma è un intreccio con il preciso senso per il quale l’amore trae dalla morte la propria maestà. Ricordate Hérodiade? Quanto al lavoro di Mallarmé sulla materia verbale dei Racconti e leggende di Mary Summer, le osservazioni si ripetono costanti – e a buon diritto – dal primo articolo di Cuénot, nel 1938, fino al minuzioso saggio di Guy Laflèche (1975) dedicato alla “grammatica generativa dei Contens indiens”. Il succo, in breve, è questo: a una riduzione quantitativa del testo originario si accompagna un arricchimento del lessico. Come viene ridotto il testo della Summer da Mallarmé? Anche le procedure stilistiche si manifestano qui in modo limpido: le frasi relative diventano epiteti, i sintagmi nominali diventano sostantivi, la paratassi – più concisa e più favorevole alla ricchezza sonora e ai prestigi dell’immagine – prevale sull’ipotassi, e con essa appaiono un penchant per l’asindeto e per ogni forma di condensazione della frase e un uso sperimentale, un po’ arrischiato, delle preposizioni. Contemporaneamente, verbi e parole ad alta frequenza d’uso vengono scartati _ in particolare c’è una persecuzione contro il verbo “essere” – e aumentano i sostantivi e gli aggettivi tematicamente più pertinenti; ma il preziosismo della prosa va cercato, forse, soprattutto nella posizione delle parole dentro la frase, nell’accanimento a trovare le mot juste, nell’avversione per il plurale (tutto sommato prevedibile in un poeta delle “essenze”), nel contenimento delle forme del verbo al solo presente o participio passato, ecc. Dell’arduo sforzo del traduttore non si può che dir bene, ed è solo per amore di perfezione che si segnalano due malintesi. Il primo, a pagina 15, riguarda l’espressione “ce qu’il me tardait de te dire” che va tradotta “quel che non vedevo l’ora di dirti” e non “quel che tardavo a dirti”; il secondo, a pagina 87, riguarda la frase “ils fondent de la voûte céleste” che va resa con “piombano giù dalla volta celeste” e non “fondono la volta celeste”. E poi “suppose” (p.26) è un presente dell’indicativo e non un passato remoto; “prunelles” (p.88) sono “pupille” e non zigomi, e “crispée” (p.96) significa “contratta” e non anchilosata.

 

Antonello Satta Centanin, POESIA
– 02/01/1996

 

L’insolita poesia di Mallarmé narratore

 

Mery Laurent, distinta signora di metà Ottocento, restò scontenta della lettura di Racconti e leggende dell’India antica di Mary Summer, best-seller del tempo. Le storie erano sì suggestive, capaci di evocare un mondo lontano e misterioso, ma non scritte secondo il raffinato gusto della signora, che ne parlò con un amico, poeta. Il poeta era Stéphane Mallarmé. Questi, felicemente stimolato dall’occasione, riscrisse i racconti. Risultato fu la perfetta fusione tra la ricerca linguistica e la varietà lessicale che tanto caratterizza la più nota produzione poetica del più importante autore del primo volume del Parnaisse contemporain. Pubblicati postumi solo nel 1927, i Racconti indiani vengono ora proposti, per la prima volta in traduzione italiana, dall’editore Fazi. La cura del volume é di Attilio Scarpellini: “Lo stilema mallarmeano – sottolinea il curatore nella postfazione del volume – vi é perfettamente leggibile, a cominciare dal dispiego di un colorismo futurista che, applicato all’India dei Veda, ne trae fuori suoni, profumi, sfumature che non sfigurerebbero bella bacheca di Des Esseintes”. La forza evocativa delle metafore mallarmeane è evidente soprattutto nella descizione delle figure femminili, abbondantemente presenti nei Racconti indiani; nelle labbra pallide della vecchia anacoreta che “seccavano al fuoco dei sospiri” o nel viso di cui “la lampada riassume lo splendore, come una stella riassume il firmamento”. Tutta l’opera é così pervasa da una vaghezza tipica del Mallarmé poeta, posta innanzi però alle caratteristiche intrinseche del racconto, le sue esigenze ritmiche. Tutto il libro si snoda attraverso l’evanescente succedersi di luoghi arcani e misteriosi, abitati da personaggi irreali, quasi-fantasmi di un oriente pennellato con un esasperato senso dell’esoterismo, del magico. Tutto è avvolto da un’oscurità che esalta i colori vivacissimi con cui l’Oriente viene qui descritto. Mallarmé morì a cinquantasei anni, nel 1898, e non volle mai pubblicare queste pagine, ritenendole di scarso interesse oltre che per le motivazioni “private” alla base della loro realizzazione. Il poeta dell’Hérodiade e del Pomeriggio di un fauno è pienamente riconoscibile in ogni passaggio del testo. Riconoscibili sono le astrazioni e gli straniamenti volti a rendere più impalpabili i confini tra sogno e realtà, come anche la tensione verso l’immaginifico più evocativo, quasi ridotto alla pura cifra musicale. I Racconti indiani sono quattro: “Il ritratto incantato”, “La falsa vecchia”, “Il morto vivente” e “Nala e Damayanti”. Sono storie di principi e principesse caduti in disgrazia, del modo in cui questi riescono a riappropriarsi, tra incredibili inganni, riti misteriosi e fate crudeli, dell’originaria fortuna: fiabe dai toni forti e cupi che Mallarmé restituisce alla sensibilità poetica del nostro secolo attraverso la complessità della sua lingua poetica.

 

Antonella Anedda, IL MANIFESTO
– 07/04/1996

 

Il poeta al riparo, nella provvisoria quiete della fiaba

 

Mallarmé riscrisse “I racconti e le leggende dell’India antica” di Mary Summer per ubbidire al desiderio di un’amica, tanto incantata dalle storie quanto scontenta della loro forma. Era un’ubbidienza nata dalla felicità di avere sul foglio meravigliose strutture nelle quali il linguaggio poteva resistere, trattenuto sul ciglio dell’abisso dalla realtà dell’intreccio. Almeno per una volta la tragica, silenziosa deriva delle liriche poteva conoscere la sospensione di una sosta: simile a quelle navi nei racconti dei naufraghi che conoscono il conforto di uno sbarco su un’isola prima dell’ultimo tifone. Così é vero – come nota Attilio Scarpellini nella postfazione al libro che é un vero e proprio prezioso saggio su Mallarmé – “i RACCONTI INDIANI ( Fazi ed., 143 pagine, lire 18,000) sono il sorriso di luce, l’occasione in cui il sole ha inaspettatamente inondato la stanza di Igitur”. Sono la tregua che spetta, per un istante di giustizia, a ogni straziata severità con se stessi, appunto, l’allentarsi della contrazione, il sollevarsi di un respiro che consente lo schiudersi di uno spazio concreto e interiore come quello dell’incontro fra il Rajah e Lakshmi, la fanciulla scacciata nel racconto “Il morto vivente”. Non é un caso che questi racconti postumi ( pubblicati postumi solo nel 1927) possiedano il potere ipnotico della fiaba. La fiaba é nel replicarsi circolare di mattini e notti, nelle albe e nei crepuscoli in cui gli amanti o le sorelle si perdono e si ritrovano, ma é una fiaba occidentale con il “c’era una volta” appena nascosto dietro i fastosi colori delle immagini e il profumo dei boschi di sandalo. A dispetto della sua conoscenza del mondo indiano Mallarmé non può convincersi che tutto sia apparenza e le cose siano destinate a dileguarsi senza traccia di un ricordo. Proviamo a schiudere una pagina di questi testi e troveremo torrenti e paludi, tigri dalle fauci rosa, laghi “corrugati dal vento” e sul crinale di fughe ed enigmi, fanciulle travestite da vecchie, morti viventi. Desideri reali, immagini vive più forti degli abbandoni, separazioni che il tempo non ha mai offuscato e incontri serrati alla terra con una sensualità domestica e piena, con le quotidiane voci del mattino: “…Ritrovarsi fu per loro così naturale che l’indomani, quando in città scoppiò l’euforia per la notizia, essi soli, dopo una veglia d’estasi, sembravano, passeggiando per le strade per mostrarsi al popolo, ignorarne il motivo…”. E’ l’epilogo dell’ultima storia del libro: gli amanti divisi dal destino e dai fraintendimenti si riuniscono attraverso la naturalezza, la fluidità dei gesti, la gioia di una fusione che bagna i corpi, acque e fiori, additando negli uni la perfezione degli altri: “si immersero, l’uno e l’altra, per rinnovare il proprio essere, nel silenzio lustrale…”. Le apparenze di questi racconti sono in realtà rivelazioni. Perché, di nuovo, é vero “qualcosa é comunque accaduto”. Lo sguardo di Mallarmé, questo sguardo, come scrive Mario Luzi, “costretto a organizzare la catastrofe”, si concede, in questi racconti solo per metà suoi, di seguire quel “qualcosa” che conosce come mancanza, linguaggio verticale e sottratto. Un passo breve di lato al fondo notturno della poesia che rende possibile il distendersi della frase in una provvisoria quiete. Un libro già scritto consente una impensata libertà e nello stesso tempo costringe chi riscrive a confrontarsi con il liquido essenziale della sua scrittura. Esattamente come nel cloisonnage, dove lo smalto trattenuto dal metallo sottile coniuga perfezione e ardore, attenzione del gesto e fuoco della materia. E’ il sotterraneo miracolo di questo libro nato dal fianco di una lingua straniera. Per una volta, di fronte alla ferita da lei stessa inferta la scrittura di Mallarmé può contemplare la pagina, la tela tessuta senza strappo. Per una volta al posto del naufragio, la terra, il fumo leggero del legno.

 

Ronchey & Scarafia, PANORAMA

 

Racconti indiani

 

Ogni martedì sera, nella modesta casa di rue de Rome, Mallarmé, con la voce smorzata e avvolgente, la limpidezza benevola dello sguardo, i gesti sacrali elargiva la trasparente oscurità delle sue parole. La sua conversazione tramutava i suoi visitatori in un orchestra, estraendo da ognuno note di pensiero che non sapeva di possedere. La meticolosa musicalità delle sue parole ancora tintinna nei “Racconti indiani”. Composti negli ultimi anni della vita dell’autore, traducono in poesia la stanchezza delle lunghe insonnie e offrono alle frustrazioni i tradizionali rimedi della fiaba. “Ho riannodato i fili del racconto, consolidandolo come se fosse un ricamo, e mi sono permesso d’aggiungere qualche nota di colore orientale”. Iniziati a Parigi, i racconti vennero terminati a Valvins – les – Bains, dove Mallarmé passava le vacanze. Nei momenti di riposo si vedeva scivolare sulla Senna la piccola, lucida barca a vela del poeta, sormontata da una bandierina con le sue iniziali, S.M. Lavorava in un piccolo studio popolato di oggetti giapponesi che si stagliavano nella tappezzeria rosa e marrone. Quando un amico gli aveva chiesto se non aveva mai scritto nulla sulla barca, lo scrittore aveva risposto di no, poi, guardando la vela, aveva aggiunto: “Questa grande pagina la lascio bianca”.

 

Antonello Satta Centanin, POESIA
– 02/01/1996

 

L’insolita poesia di Mallarmé narratore

 

Mery Laurent, distinta signora di metà Ottocento, restò scontenta della lettura dei “Racconti e leggende dell’India antica” di Mary Summer, best – seller del tempo. Le storie erano sì suggestive, capaci di evocare un mondo lontano e misterioso, ma non scritte secondo il raffinato gusto della signora, che ne parlò con un amico, poeta. Il poeta era Stéphane Mallarmé. Questi, felicemente stimolato dall’occasione, riscrisse i racconti. Risultato fu la perfetta fusione tra la ricerca linguistica e la varietà lessicale che tanto caratterizza la più nota produzione poetica del più importante autore del primo volume del “Parnaisse contemporain”. Pubblicati postumi nel 1927, i “Racconti indiani” vengono ora proposti per la prima volta in traduzione italiana, dall’editore Fazi. La cura del volume è di Attilio Scarpellini: “Lo stilema mallarmeano – sottolinea il curatore nella postfazione del volume – vi é perfettamente leggibile, a cominciare dal dispiego di un colorismo futurista che, applicato all’India dei Veda, ne trae fuori suoni, profumi, sfumature che non sfigurerebbero nella bacheca di “Des Esseintes”. La forza evocativa delle metafore mallarmeane é evidente soprattutto nella descrizione delle figure femminili, abbondantemente presenti nei “Racconti indiani”; nelle labbra pallide della vecchia anacoreta che “seccavano al fuoco dei sospiri” o nel viso di cui “la lampada riassume lo splendore, come una stella riassume il firmamento”. Tutta l’opera é così pervasa da una vaghezza tipica del Mallarmé poeta, posta innanzi però alle caratteristiche intrinseche del racconto, le sue esigenze ritmiche. Tutto il libro si snoda attraverso l’evanescente succedersi di luoghi arcani e misteriosi, abitati da personaggi irreali, quasi – fantasmi di un oriente pennellato con un esasperato senso dell’esotismo e del magico. Tutto é avvolto da un’oscurità che esalta i colori vivacissimi con cui l’Oriente viene qui descritto. Mallarmé morì a cinquantasei anni, nel 1898, e non volle mai pubblicare queste pagine, ritenendole di scarso interesse oltre che per le motivazioni “private” alla base della loro realizzazione. Il poeta dell’ “Hérodiade” e del “Pomeriggio di un fauno” é pienamente riconoscibile in ogni passaggio del testo. Riconoscibili sono le astrazioni e gli straniamenti volti a rendere più impalpabili i confini tra sogno e realtà, come anche la tensione verso l’immaginifico più evocativo, quasi ridotto alla pura cifra musicale. I “Racconti indiani” sono quattro: “Il ritratto incantato”, “La falsa vecchia”, “Il morto vivente” e “Nala e Damayanti”. Sono storie di principi e principesse caduti in disgrazia, del modo in cui questi riescono a riappropriarsi, tra incredibili inganni, riti misteriosi e fate crudeli, dell’originaria fortuna: fiabe dai toni forti e cupi che Mallarmé restituisce alla sensibilità poetica del nostro secolo attraverso la complessità della sua lingua poetica.

 

Alessandro Zaccuri, AVVENIRE

Quattro leggende indiane rilette dal grande poeta del “libro ineffabile

Mallarmé : Est e Ovest uniti da un incantesimo

La moda dell’orientalismo anticipata dallo scrittore francese. Il mito del “Gran mare delle storie” che si riassumono in una sola

Si avvicina, sotterraneo e quasi impercepibile, il centenario della morte di Stephané Mallarmé (1842-1899). mancano ancora tre anni, per cercare di chiudere i conti con questo poeta grande e difficile, che volle ostinatamente essere scrittore per pochi lettori, oltretutto non sempre concordi nell’interpretazione di versi troppo trasparenti, per non risultare “oscuri”. Più di un secolo di critica mallarmeiana non ha sciolto l’enigma di quello che rimane del Libro assoluto e perfetto sul quale il poeta meditò tutta una vita fino a ridurlo in frammenti. Una fortezza sbrecciata, quella della parola di Mallarmé, eppure proprio per questo inespugnabile. Un varco, in realtà, ci sarebbe, ed è merito dell’editore romano Fazi aver tradotto l’idea del Libro ineffabile in un libro di carta e inchiostro, soltanto in apparenza marginale in un’avventura del pensiero che ci si rivela sempre più imparentata con il rigore della speculazione filosofica. Tradotti e commentati da Attilio Scarpellini, arrivano così per la prima volta nelle nostre librerie i quattro “Racconti indiani” che Mallarmé trasse, dietro insistenza dell’amica, Mery Laurent, dal volume di “Racconti e leggende dell’India antica” di Mary Summer, uno dei best seller dell’orientalismo “fin-de-siécle”. Nel suo bel saggio finale, Scarpellini rivendica – testi del Mallarmé maggiore alla mano – tutta la serietà di questo lavoro di riscrittura, in cui il poeta ha saputo instillare molti degli elementi caratteristici della sua ricerca, non ultima immagine – decisiva – del “lancio di dadi”. Non lasciamoci ingannare, sembra mettere sull’avviso Scarpellini, qui l’India è soltanto un pretesto. anche quando racconta fiabe, Mallarmé pensa all’utopia del suo Libro. Vero, verissimo. ma resta il fatto che Mallarmé è così bravo a raccontarle, queste fiabe di un’India stilizzata e fantastica, che si può anche cedere alla tentazione di seguire la magia di questa prosa (magari dando più di un’occhiata all’originale francese, pubblicato a fronte dell’elegante traduzione italiana) e dimenticare, almeno per una volta, l’apparato un po’ terroristico dell’esegesi critica. Che tipo di libro si finisce per leggere, in questo modo? Un libro comunque importante, se non altro per quanto riguarda la tormentata storia dei rapporti tra Oriente e Occidente. il suo intervento di qualche tempo fa, Laura Novati ricordava che soltanto due anni separano la pubblicazione del “ Siddharta” di Hermann Hesse (1922) da quella di “Paesaggio in India” di E.M. Forster (1924): apologhi antitetici, aggiungeva, nei quali la sapienza indiana si presenta prima come modello assoluto, poi come paradigma di un incontro di culture indefinitamente rinviato (“non ancora, non qui”, sono le ultime parole del romanzo di Forster). Adesso vale la pena di aggiungere che la prima edizione in volume dei “Racconti indiani” di Mallarmé porta una data molto vicina alle precedenti, 1927, e rappresenta la “terza via” fra quelle proposte da Hesse (l’Occidente che va a lezione dall’oriente) e Forster (l’Occidente e l’Oriente come mondi inconciliabili). Leggendo le quattro fiabe trascritte dall’autore di “Eridiade” ci si rende conto, infatti, che esiste una terra di nessuno dove ogni opposizione fra Oriente e Occidente cessa di avere significato. E’ il Paese delle Favole, anzi: il Grande oceano dei Racconti della tradizione indiana, il Grande Mare delle Storie evocato dal fuggiasco Salman Rushdie in un libro per ragazzi che rimane fra le sue prove più godibili. Principi spodestati ed eroici, principesse belle e sventurate, usurpatori odiosi, raggiri, incantesimi, regni interi giocati a dadi, morti che si risvegliano ogni notte conservando però le buone maniere che avevano da vivi… Nel Paese delle Favole c’è tutto questo. E c’è, più che altro, quel bambino che, con gli occhi dell’innocenza, riesce a vedere la fata invidiosa che ha gettato il malocchio sul babbo e la disarma con un colpo delle sue manine paffute? prendetela come una metafora della poesia e del suo sguardo profetico, se volete. Oppure, se preferite, pensate che quel giorno Mallarmé il Grande aveva soltanto voglia di raccontare una bella storia. non si sbaglia in ogni caso.

 

 

La favola gentile di Naia e Damayanti

 

Non sarà certo nei “Racconti indiani” (ora tradotto dall’editore Fazi, 115 pagine) che il lettore appassionato troverà la vera identità dl loro autore. Stephane Mallarmé. Anzi, se un elemento di curiosità c’è in questo libro, è il senso di estraneità. La sorpresa del mancato riconoscimento che ci fa da simbolista, il “poeta assoluto”, in mezzo a queste favole orientali? Dunque in principio fu “Racconti e leggende dell’India antica” di Mary Summer. Mary Laurent, amica di Mallarmé, gli chiede di riscriverlo perché il libro le piace tanto ma le sembra scritto male. Il poeta, cultore del subcontinente come inesauribile fonte di simboli, accetta e consegna alla prosa molte immagini di umani destini. Curiosamente non sono le storie più belle e sorprendenti di quella sterminata tradizione che incuriosiscono Mallarmé. Semmai, anzi, sembra cercare più la somiglianza che la diversità con la favolistica occidentale. E così troviamo amanti separati, prove da superare, viaggi interminabili per tornare vincitori al punto di partenza, morti viventi più in stile francese che indiano. Voglio dire, il lettore attratto da cineserie e altre orientalità non ha qui pane per i suoi denti. Nessun esotismo, nessun labirintico intreccio di destini, nessun complesso rapporto uomini/dei, pochissime spiritualità. Molte umane debolezze, tristi amori che vanno a finir bene, vecchie megere, fanciulle di bellezza impareggiabile, la paccottiglia usuale della materialità, delle modeste ambizioni femminili, mettere su famiglia con l’uomo dei propri sogni, avere bambini belli e sani, a costo di combattere con l’avverso fato, con le belve della foresta. Su tutta questa trivialità il poeta getta il suo sguardo leggermente ironico e distante, quasi fosse lui il dio che gioca pigramente s dadi con le sorti umane. Ma è un dio buono, che garantisce sempre il lieto fine e la punizione dei brutti cattivi. dunque il lancio dei dadi, qui, si promette la contraddizione di essere scontato, almeno nel colpo finale. Sarà per questo, forse, che il poeta non sembra prendersi sul serio? Chi legge il francese si può almeno godere l’ironia mallarmeniana in originale, visto che i racconti sono dati con testo a fronte. ma un francese o un italiano, il gusto viene dalla levità da bolle di sapone del tono colloquiale e vagabondo, dalla bella capacità di non prendere sul serio né se stesso né la narrazione. persino quando gli strappa una riflessione malinconica “Ogni felicità non fa che rinviare di qualche giorno l’angoscia”, la offre senza pathos e senza ansia, sul lucido vassoio delle verità incontestabili. Citazione che prendo dall’unico racconto davvero interessante della raccolta, “Naia e Damayanti”, per cui vale la pena comprare il breve libro; Qui sono concentrate infatti le immagini più sorprendenti e una sapienza di vita meccanismi amorosi e di psicologie maschili e femminili che illuminano a vol d’uccello sulle consapevolezze del venerato autore. Dunque la bellissima principessa Damayanti, corteggiata dagli dei, preferisce il mortale Naia che riconosce, tra ingannevoli replicanti divini, proprio grazie alle sue parti umilmente umane, alla sporcizia e sudore, piedi che calpestano pesantemente il suolo, anziché scivolare aerei a un passo da terra; Debolezze fisiche che sono inevitabilmente anche debolezze dell’animo. Naia adorabile al limite della perfezione, perfetto non è. E’ un incorreggibile giocatore di dadi. Si gioca moglie, figli, regno, e perde. Non contento, abbandona la povera Damayanti nel bosco, esposta alle belve e ai demoni perché, non reggendo al peso della colpa, non sa far di meglio che aggravarla. e che fa la principessa? Lo insegue. Lo perdona; Si assume tutte le responsabilità, lo compatisce “Lui non è colpevole, ma più che compiangersi da me che ne sarà di lui senza la sua compagna?” Onnipotenza femminile. E Mallarmé si diverte. Quando Naia ritrova la moglie sopravvissuta “Non si sofferma nemmeno a rallegrarsi, perché l’amata è viva e il suo corpo delicato e scampato alle fauci delle belve. Si precipita nelle scuderie…” Pazzo di gelosia (non sarà innamorata di un altro damayanti?) si occupa solo di confermare a se stesso la sua virilità: che la moglie gli sia rimasta fedele e sia ancora “degna del suo amore”. Arroganza maschile. sentiamo la risata spontanea del poeta dietro ogni parola e ci ricordiamo la sua verità solo la poesia “restituisce la vista al mondo”.

Racconti indiani - RASSEGNA STAMPA

Privacy Policy   •   Cookie Policy   •   Web Design by Liquid Factory