Seamus Heaney
Attenzioni
(Preoccupations - prose scelte 1968-1978)
Traduzione di Piero Vaglioni
A cura di Massimo Bacigalupo
Preoccupations, prima raccolta di prose del Premio Nobel Seamus Heaney, nasce da una domanda: educarsi alla letteratura, alla profondità della riflessione e della poesia, non é come imparare a vivere? In questo libro, lo sfondo del paesaggio irlandese dilaniato dalla guerra civile si riempie di echi struggenti, di pagine straordinarie sull’infanzia e sui giorni incerti della maturità. L’esistenza, il racconto privato, s’intrecciano a stupori e ad annotazioni penetranti sulla poesia, come sulla ricchezza degli autori più amati: Wordsworth, Hopkins, Osip Mandelstam. Preoccupations resta il mirabile esempio di una scrittura luminosa, capace di pensare la letteratura quale dono inestimabile della realtà.
– 06/05/1996
La difficile maturazione dei popoli
Seamus Heaney è nato nell’Irlanda del Nord nel 1939. Poco più che trentenne ha lasciato l’Ulster per la Repubblica d’Irlanda, dove ha insegnato all’Università di Dublino, passando poi ad Harvard e successivamente a Oxford. Nel 1989, in Inghilterra ha ricevuto il titolo di poeta laureato e nel 1995 gli è stato conferito il premio Nobel. La sua prima produzione in versi si rifà alla tradizione e all’ambiente della sua infanzia. Le sue poesie degli anni Sessanta sono parte del vasto complesso di leggende e di creature magiche del mondo irlandese. Pochi come lui sono in grado di rivelare fino in fondo le favolose presenze che popolano l’Irlanda e l’immaginario dei suoi abitanti. C’è un marchio irlandese, inconfondibile, nella mitologia, signor Heaney? ” Più nei nomi che nella sostanza. Le mitologie nordiche sono molto vicine tra loro: e, spesso, ‘è un retroterra comune: le antiche popolazioni gaeliche. Ma, in fondo, tutte le mitologie si assomigliano e hanno numerosi punti in comune. Perché sono generate dai desideri, dagli istinti degli uomini; desideri e istinti che equivalgono in qualunque era del mondo e sotto qualunque latitudine. Siamo sorprendentemente uguali nel profondo, oltre le apparenti diversità di pelle e di cultura”. Ma una qualche caratteristica tutta irlandese ci sarà pure? “Forse, nel segno meteorologico dell’alta piovosità della nostra isola e nell’immagine delle spesse coltri di muschio che ricoprono i muri come le rocce e che appaiono al posto delle chiome degli esseri favolosi abitatori delle contrade irlandesi. O, forse, nel grido di contrasto e di battaglia di un popolo irrequieto, dilaniato dalle discordie interne. Infatti la storia leggendaria dell’isola è tutta intessuta delle guerre tra le varie tribù e i loro re in continua lotta intestina, sempre pronti a ricorrere allo straniero e a ribellarsi al re supremo che non aveva la forza di tenerli a freno”. I miti irlandesi, dunque, come quelli greci od orientali. Ce lo racconti da poeta: come sono nati i miti? “La prima idea che gli uomini si sono fatti del mondo è che in esso lottassero mostri enormi, potenti, feroci; che si disputavano la terra, il cielo, il mare, le montagne, l’aria dai soffi veementi e il fuoco che tutto distrugge. Ai loro occhi tutto l’universo era animato, perché in ogni pianta, animale, roccia, astro elemento credevano vivessero altrettanti spiriti. Questi esseri misteriosi furono le prime divinità venerate e temute dagli uomini. Quando con l’evolversi della civiltà si cominciò a sentire accanto alla terrificante potenza dell’universo anche la sua bellezza, a comprendere l’armonia delle sue leggi e ad apprezzare i doni fecondi che la natura elargisce all’uomo, allora nacquero i miti. E i miti nient’altro sono se non narrazioni fantastiche e allegoriche con cui l’immaginazione cercava di spiegarsi il mistero di tutto ciò che la circondava e l’origine stessa del mondo”. Neppure la mitologia riesce però a superare il dissidio interiore tipico di voi irlandesi. Se penso al prosieguo della sua esperienza di poeta, ce n’è ampia evidenza in libri come “L’inverno” e “North” (tradotti in Italia da Mondadori). Joyce, in questo senso, è uno specchio anche per lei? ” Si che lo è, eccome. Joyce, per risolvere il suo conflitto interiore, scelse l’esilio. Molti irlandesi hanno scelto e scelgono l’esilio: partono, lasciano la loro terra, emigrano altrove. C’è sempre qualche altra ragione: il lavoro, soprattutto, e l’antica miseria. Ma la vera ragione è quel conflitto interiore che è di ognuno di noi”. Quel conflitto anche tra le radici irlandesi e la lingua e la cultura inglesi, testimoniato dalle sue poesie in una complessa riflessione politica? “Si, un conflitto che è di tutti in Irlanda: essere contro gli Inglesi e, contemporaneamente, essere attratti dagli inglesi. Per quelli poi che tra i noi scrivono, il conflitto è ancora più radicale, come testimonia appunto Joyce. Per ragioni storiche, dovremmo odiare gli inglesi per quello che ci hanno fatto da conquistatori e dominatori. Ma la verità è che, dentro, siamo plasmati dalla cultura inglese ed è la ragione per la quale usiamo la loro lingua, che ormai è diventata nostra in profondità. Non c’è niente di più della lingua che sia capace di avvolgere e legare, non solo la testa, ma la carne e i visceri; niente che si altrettanto potente nell’impastare e rendere inscindibili le parti”. Se una lingua è la sua cultura, come lei dice in “Attenzioni”, la sua raccolta di saggi pubblicata in Italia dall’editore Fazi, Irlanda e Inghilterra saranno inevitabilmente sempre più mescolate tra loro. Ne trarrà beneficio il processo di pacificazione dell’Ulster? E, più in generale, l’Europa? “Per forza di cose, sempre di più, riconoscendoci uguali, si riuscirà a trovare ragioni autentiche di convivenza; superando tutti i possibili rigurgiti nazionalistici, che sono l’aspetto infantile e addirittura primitivo della questione. Mi chiedo, a volte, se gli uomini come gruppi e società non siano destinati a crescere e a maturare come accade nell’esperienza di ciascuno di noi nel privato. La storia di questo secolo sembra dirci che la maturazione è ancora molto incerta, stentata, difficile. Per ogni piccolo passo in avanti, si fanno incredibili salti all’indietro. Ancora, in questo fine d’epoca, si sente parlare di pulizia etnica nel cuore dell’Europa, un continente che con la vecchiaia dovrebbe essere diventato saggio”. A guardare gli eventi della nostra storia contemporanea, viene da dire: niente di nuovo sotto la luce del sole. Allora, il mondo è il regno del demonio o, come dice la mitologia irlandese, degli spiriti maligni e delle forze scatenate? E ci aspetta, comunque, una qualche apocalisse? “La catastrofe per gli uomini, è sempre dietro l’angolo. E gli uomini se la sono sempre ben figurata, oltre gli eventi, per evitarla magari all’ultimo momento a scampare comunque sia pur in mezzo alla rovina. Le leggende irlandesi parlano di giganti violenti e devastatori e di giganti generosi e leali, in continua lotta tra di loro. Perché il mondo è eternamente in bilico tra male e bene, in una lotta estenuante e incessante. Se la partita non è mai persa del tutto, però non è neppure vinta. Bisogna restare vigili e non deporre le armi. La pace purtroppo è sempre momentanea. I malvagi sono alle porte e faranno le loro vittime anche tra gli innocenti. È il grande mistero della vita, che sembra avere un criterio diverso da quello che noi chiamiamo giustizia. Una cantastorie irlandese direbbe che sofferenze e morte, per quanto apparentemente impagabili, sono sciolte e in qualche modo affrancate dalla parte buona che c’è in ciascuno di noi e che prima o poi, non si sa bene come e quando, riesce a venir fuori. Ma anche questo rientra nel grande mistero della vita, che gli uomini, antichi o moderni, consapevolmente o no, continuano ad attraversare religiosamente, contro ogni apparenza”.
– 06/05/1996
Da un figlio della terra d’Irlanda
Le muse non conoscono sconfitte. La storia dell’Occidente, tra gli alti e basi registrati nel corso dei millenni, alla poesia ha tradizionalmente riservato un alveo, un angolo di universo in cui essa potesse sublimare le vette del linguaggio. Nei ersi dei poeti sono confluite battaglie e tregue, amori e vendette, confessioni e professioni di fede, perché fosse possibile conservare un distillato di sopraffine qualità umane. Nel XX secolo, la poesia riconferma la sua tradizionale ricerca della verità, della suprema adesione alla coscienza, del riconoscimento della sofferenza. Essa è vita palpitante. Nel 1913 Pound (Alley, Idaho 1885 – Venezia 1972), nel saggio ‘L’artista serio’, pubblicato in ‘The Egoist’, proclamava che “Le arti, la letteratura, la poesia sono una scienza, proprio come la chimica è una scienza. Il loro campo è l’uomo, l’umanità e l’individuo (…). Esse cominciano dove la scienza della medicina si ferma, o piuttosto invadono il campo di quella scienza”. Contando un pubblico limitato, la poesia raramente incontra il successo popolare; elitaria per definizione, incute timore per l’impegno intellettuale che richiede a chi le si accosta. Eppure, sovente essa trionfa sull’usura del tempo. In primis, a vincere è il poeta.anche perché la sua sfida al mondo ha qualcosa di eroico Seamus Heaney (Irlanda del Nord 1939), ad esempio, Premio Nobel 1995, raggiungendo l’ambito traguardo non si è limitato a cingersi il capo di alloro: ha esteso tale privilegio al suo Paese, l’Irlanda, e ha ricordato al mondo il dramma vissuto dal suo popolo. In ‘Attenzioni’, raccolta di prose datate tra il 1968 e il 1978 (Fazi Editore, Roma 1996), Heaney ricorda il vincolo profondo che lega il poeta alla sua terra: “Certo, il segreto del poeta, irlandese o no, sta nel saper suscitare l’energia delle parole. Ma la mia ricerca di definizione, mentre può portarmi indietro, è condotta nella lingua viva del paesaggio in cui sono nato. Ho cominciato a essere poeta quando le mie radici si sono intrecciate con le mie letture”.
– 02/06/1997
Il Nobel Heaney
Il senso di Seamus per il luogo
L’altra faccia del poeta irlandese: in “Attenzioni”, raccolti gli scritti non lirici. Tra curiose amnesie
Una curiosa amnesia deve aver colpito giornalisti e curatori delle pagine letterarie. Parlano di “rinascita culturale” in Irlanda, come se questo paese uscisse da chissà quale letargo. Nell’ultimo secolo, ricordiamolo, l’Irlanda ha dato alla letteratura quattro premi Nobel (Shaw, Yeats, Beckett e il recentissimo Seamus Heaney), la versatilità geniale di Oscar Wilde, sperimentatori estremi come Joyce e Flann O’Brien e drammaturghi del calibro di Synge e O’Casey. E sono solo alcuni nomi di un patrimonio che non ha mai smesso di offrire suggestioni e una eredità di audacia inventiva che è stata raccolta dallo stuolo di romanzieri, registi e musicisti che tanto oggi ci entusiasmano. Sembrano pensati apposta per colmare questo vuoto di memoria, gli scritti di Seamus Heaney (Attenzioni. Prose scelte 1968-1978, pp. 220, Fazi Editore, L.30.000), cattolico dell’Ulster e poeta “coraggiosamente locale e difficile”, che è approdato dal verso alla prosa per “ridefinire l’idea di quella tradizione” che lega la creatività del passato irlandese alla creatività del presente. Il legame più stabile, quello in cui dobbiamo cercare la continuità, è “Il senso del luogo”, scrive Heaney, nel saggio più appassionato della raccolta. “I posti amati sono posti importanti”, stabiliscono una relazione d’amore che irretisce, plasmano l’immaginazione, forniscono suoni, idiomi, colori speciali, e consolidano “il senso di noi stessi come abitanti non solo di un paese geografico, ma di un paese della mente”. Sarebbe un errore, aggiunge, confondere tutto questo con un’insulsa difesa nazionalistica, con un romantico revival che vuole produrre una visione leggendaria della razza. Per Heaney, come per il poeta Patrick Kavanagh che in un altro saggio (“Da Monagnan al Grand Canal di Dublino”) offre come il modello più convincente per il suo discorso anti-nazionalistico, la resa al folklore è “una totale menzogna di produzione inglese”. Esprimere “il nostro sentire il luogo” significa ben altro: oltrepassare l’orgoglio politico o culturale e nominare un reale “perenne e caro”, che recinta “un paesaggio personale”, in cui “la voce della vita della comunità”, quella che si è vissuta in maniera “illetterata e inconscia”, diventa la voce naturale del poeta, “letterata e conscia”. Non è un’evoluzione indolore quella che Heaney descrive. Si giunge a questa voce poetica, locale e universale al tempo stesso, attraverso “un conflitto tra sé e il luogo”, che segna la fine di quella relazione d’amore e il distacco definitivo. Nel destino di ogni irlandese è iscritta una fuga. Ed è inevitabile che compaia il nome di Joyce, con il suo Stephen Dedalus che prescrive la salvezza nella fuga: “Quando l’anima di un uomo nasce in questo paese ci sono delle reti che vengono tirate ad essa per trattenerla dal volo. Mi parli di nazionalità, lingua, religione. Il devo cercare di volar via da queste reti”. Parlando di altri poeti, Heaney parla ovviamente di sé. Questo volume, pubblicato nel 1980, raccoglie di fatto articoli scritti dal 1968 al 1978: prima e dopo, cioè, quella travagliata decisione di lasciare l’Irlanda del Nord, dove era nato, per trasferirsi nel 1972 nella campagna a sud di Dublino. Attaccato dai fondamentalisti per aver abbandonato la sua terra e per non aver preso posizioni politiche decise, Heaney difende le ragioni di una scelta che separava la propria responsabilità di poeta “dalla lunga cordata del risentimento di parte”. Si difende a suo modo, naturalmente, raccontando (“Mosbawn e Belfast”) l’attaccamento ai ricordi d’infanzia, la memoria chiarissima dei rifugi segreti, degli angoli verdi e umidi, di qualsiasi posto allettante nei terreni acquitrinosi e fra la vegetazione di tundra; e la memoria delle parole sibilanti delle prime filastrocche e delle ballate patriottiche imparata sui banchi di scuola. Racconta poi la stanchezza dell’adulto che non ne può più del “continuo oscillare tra dolore e ingiustizia”, delle esplosioni e dei funerali e decide la fuga. Tuttavia, non sente d’aver tradito. Senza rinnegare né l’istinto di razza né la religione, rivendica una diversa fedeltà: la fedeltà alla poesia, che non compromette la fedeltà ai suoi padri. L’onesto riconoscimento di una sensibilità divisa fra “due nazioni” comporta equidistanza e un doppio omaggio: alla lingua delle origini e alla lingua dei grandi poeti inglesi. Credo, scrive, “che per me l’elemento femminile riguardi la materia dell’Irlanda, e la tensione maschile derivi dall’essere coinvolto con la letteratura inglese”. La poesia di Heaney non sarà mai un diagramma di atteggiamenti politici, ma “una topografia d’amore e d’impazienza” che congiunge le cantilene rozze e infantili, ricreate con l’accento spigoloso dell’Ulster, ai raffinati segreti verbali estorti alle strutture di Yeats (“Yeats come esempio?”), Hopkins (“Il fuoco nella selce”), Wordsworth (“Dalla sensazione alle parole”) e Lowell (“Viso aperto”). Heaney riunisce, in una tradizione privata e senza confini, ciò che l’antagonismo fazioso divide. E’ questa la responsabilità di “chiunque voglia accettare il rischio che il nome di poeta comporta”.
– 06/05/1996
All’ombelico del mondo, coi versi
Una parola che ronza in testa e si ripete – Omphalos, Omphalos – fino a diventare altro, il suono di una pompa d’acqua in un cortile, nella contea di Derry nei primi anni ’40. Per Seamus Heaney, il maggiore poeta irlandese, la poesia inizia secondo i modi “dell’immaginazione auditiva” identificati da Eliot. Un suono, una sillaba, scendono in basso, proprio come la pompa d’acqua e accendono al segreto profondo delle parole, rivelandone nell’etimologia le tracce di una tradizione, di una civiltà, “il sintomo della storia, memoria e devozione umana”. Con il potere evocativo di Omphalos – in greco “ombelico”, e quindi centro del mondo inteso come qualcosa che sta sotto, cui bisogna arrivare scavando, secondo una metafora principe di Heaney – si apre il volume dei saggi appena tradotto in Italia da Massimo Bacigalupo per Fazi. ‘Attenzioni’ è un grandioso inabissamento volto al recupero delle radici territoriali della poesia irlandese e inglese. Ogni poeta per Heaney rappresenta nella sua poesia l’incontro tra un paesaggio naturale, acquisito geneticamente,palpabile e concreto, illetterato e inconscio, e un altro paesaggio che invece imparato, conosciuto e non riconosciuto, letterato e conscio. Oltre allo sprofondamento, che tiene aperte le linee di approvvigionamento col passato, l’altro grande movimento che Heaney riconosce necessario alla poesia è il camminare: Coleridge componeva camminando su un terreno irregolare o facendosi largo tra i rami di un bosco fitto, mentre Wordsworth scriveva camminando lungo un viale ghiaioso affinché nessuna asperità del terreno potesse alterare la sua voce. Il poeta è quindi un “aratore”, e come un contadino scava e rivolta le zolle delle sue parole. Davvero singolare è il fatto che quando la notizia del Nobel lo raggiunse, Heaney stesse girando la Grecia a piedi. ‘Attenzioni’ è una vera camminata verso il centro del mondo. La sua attenzione a quel retroterra leggendario che tenne Yeats ancorato alle origini celtiche della sua scrittura e della sua vita, diventa in lui attaccamento alla terra, ai segreti delle sue acque e delle sue torbiere. Heaney, come dice Roberto Mussapi nell’introduzione a “Una porta sul buio”, uscita recentemente da Guanda, celebra “la nuda sacralità della terra e del lavoro, la bellezza dell’acqua incanalata dall’uomo e lo splendore azzurro dell’argilla estratta dal suolo”. Così quell’andare a fondo della pompa d’acqua è davvero il centro di una grande metafora dominata dall’immagine della torbiera, come memoria di un paesaggio che “ricorda tutto ciò che vi era accaduto”. Tutto il patrimonio materiale d’Irlanda è stato trovato in una torbiera, nel fondo scuro insieme alle felci d’acqua: così i corpi di uomini e di donne ritrovati nello Jutland, vittime sacrificali in onore della dea della terra che le esigeva per celebrare il rito della fertilità. Nel procedimento poetico di Heaney quelle vittime archetipiche diventano le vittime dei sanguinosi scontri nell’Ulster. Ma la torbiera è anche il simbolo del terreno proibito che il poeta bambino non poteva avvicinare, quella palude senza fondo nascosta da un bosco di betulle e da soffici giunchi. Storia, attualità e biografia si stringono in un abbraccio unico, che ancora rende la terra d’Irlanda un luogo vivo grazie alla voce del suo più grande poeta vivente.
– 12/01/1996
SEAMUS HEANEY
Il rabdomante e lo specchio
Undici saggi per un poeta allo specchio. Proprio così, Seamus Heaney, irlandese dell’Ulster, figlio di contadini cattolici, meritato premio ‘Nobel’ per letteratura, con ‘Attenzioni’ (in inglese ‘Preoccupations’, titolo più consono ai contenuti del libro), ruba il mestiere ai critici, i famigerati “sezionatori dell’arte”. E lo fa con garbo, preparazione, vigore: attitudini sorte spontaneamente, se consideriamo che le argomentazioni contenute in queste prose, scelte tra quelle scritte di suo pugno tra il 1968 e il 1978, scelgono un oggetto d’indagine privilegiato, che nessuno potrebbe analizzare meglio di lui. Seamus Heaney spiega se stesso, scava, per usare un verbo a lui caro, nel profondo delle sue ragioni di fare poesia e ne trova la linfa vitale, le ispirazioni, gli illustri antenati. Il garbo sta nella forma, nell’utilizzo della parola, che non è il vocabolo funzionale, freddo, del saggista, bensì continua a essere la pura sonorità chiamata in causa dal poeta, dunque selezionata con passione filologica in un ben più vasto dizionario di opzioni. Il vigore, probabilmente , si rintraccia nella madre Irlanda, nutrice di straordinari talenti letterari. L’Irlanda del sangue sparso dall’Ira, del paesaggio della torbiera e di Mossbawn, la fattoria dov’è nato, dei poeti di Belfast e della Pasqua 1916. Perché i saggi del poeta dell’Ulster, considerato il maggiore vivente di lingua inglese, sono anche un prezioso tributo a una terra dilaniata dalla guerra civile e ai suoi frutti letterari, d’altronde amati senza riserva da ogni lettore di buon gusto. Dunque, si tratta di un documento di valore indubbio. Commentando le sue letture di ragazzo, Seamus Heaney intavola un processo al fare poesia. Di William ButlerYeates, William Wordsworth, Alun Lewis e Patrick Kanavagh, tra gli ispiratori della sua fase iniziatica, evidenzia quel che solo un degno compagno di viaggio saprebbe: i movimenti che spingono ad assassinare la sottile separazione del sé dagli strati più profondi, per giungere alla fonte del tutto, alla fonte della poesia. Poesia come esistenza, poeta come sciamano, o, meglio, come rabdomante, per evocare una metafora dello stesso Heaney, che nell’immagine ormai archetipica di quell’uomo dai poteri magici in cerca d’acqua vede la vitalità prepotente di un’arte che non si può acquistare né insegnare. Semplicemente c’è e nel caso contrario è inutile cercare di costruirsene una su misura.
– 06/05/1996
Vita di tutti i giorni nella città in guerra
Continua la raffinata e perciò coraggiosa impresa dell’editore Fazi di Roma che trova in questa collana “Le terre”, dedicata alla saggistica del Novecento, e in quella intitolata “Le porte” rivolta invece a “testi letterari classici” e nuovi capolavori”, lo spazio per importanti contributi al dibattito critico e culturale ed esempi di attenta cura editoriale. Nel rivolgersi al poeta irlandese Seamus Heaney, premio Nobel del 1995, se si dà conferma da un lato all’attualità che si vuole imprimere alla collana, dall’altro si mantiene quel segno originale che, nel recente fiorire di traduzioni rivolte alle poesie di Heaney, sceglie invece di puntare sulla prosa, questo “Attenzioni” è per il lettore italiano un importante strumento per la comprensione del poeta che qui si concentra, con una prosa pacata ma sempre precisa e pregna di tanti echi poetici, sulle preoccupazioni, sui pensieri ricorrenti, sulle “attenzioni” predilette del suo meditare di uomo e artista. Si apre così davanti ai nostri occhi, per essere spiegata e illustrata minutamente, la scena nota delle poesie: l’Irlanda geografica e quell’Irlanda della mente che è allo stesso tempo atteggiamento politico e culturale, profonda appropriazione di miti, di leggende, di suasione poetica, di visione storica. Heaney ci racconta con voce seria e controllata la vita di tutti i giorni in una città in guerra, Belfast, spiega il suo impegno politico e la relazione fra questo e i suoi versi dove trova spazio solo la materia fecondata dall’ispirazione e che mal si prestano a un’arida, per quanto idealmente sentita, propaganda politica; dice della necessità di restar fedeli alla propria vocazione poetica come di un’importante presa di posizione etica e artistica. Fra le righe esplode però a tratti una rabbia mal trattenuta che lascia trapelare quel sentimento impossibile da ignorare, che inevitabilmente cattura e invischia nelle sue trame di paura: “…Mi sono trovato a rispondere che le cose non sono poi così male nel nostro quartiere…E’ una fra setta che evita di districare emozioni esauste e contorte, arrotolate nel cuore come una palla di uncini e pesi di piombo”. Se l’Irlanda è presente in ogni riga, terrigna e muscosa, sacra e mitica, non meno importanti in questi saggi sono i poeti, l’altra fondamentale fonte di nutrimento per Heaney. Se Yeats non poteva mancare, accanto a lui troviamo Wordsworth, Hopkins, Ted Hughes, Geoffrey Hill, Philip Larkin, Patrick Kavanagh, Robert Lowell e la continua presenza dell’esempio critico di T.S. Eliot. La meditazione sull’arte amata riconduce al complesso e misterioso suo farsi. Heaney individua così, scavando fra le esperienze poetiche che sente più vicine, quei momenti identificativi della sua stessa poesia, che egli vuole “vatica, divinatoria, oracolare”, ma anche luogo della memoria dove comporre l’alchemico processo di interpretazione del presente attraverso il passato.
– 06/05/1996
Attenzioni di Seamus Heaney
Almeno dal dopoguerra in poi, il discorso sulla poesia passa direttamente a chi la fa. Salvo rare eccezioni, i grandi critici, da noi, si chiamano Ungaretti, Montale, Solmi, Pisolini, Fortini, Caproni. Dal mondo anglosassone (dove c’erano già Pound ed Eliot), ci vengono ora le “prose scelte 1968-1978” del premio Nobel, l’irlandese Seamus Heaney (come c’erano venute quelle di un altro Nobel prematuramente scomparso, Iosif Brodskij). Sono scritti che nascono da una “curiosità un po’ predatoria “, dal modo con cui un poeta ne guarda un altro per scoprire i segreti del suo lavoro. La curiosità predatoria, come la chiama Heaney, rende l’occhio attento, n po’ come quello dei rapaci. Eliot diceva qualcosa di simile nelle lezioni sui poetici metafisici del Seicento (1926). Il suo è, infatti, il punto di vista “di uno che cerca di fare versi in inglese, studiando il lavoro dei poeti morti che hanno fato versi migliori. L’interesse di uno che lavora è tutto sul presente e sull’immediato futuro”. Heaney, nei suoi saggi, interroga innanzitutto Wordsworth. La sua cantilena, la sua “saggia passività”: più egli si abbandona all’ascolto di ciò che ha dentro, tanto più felicemente la sua voce sembra venire dal mondo esterno (nei più bei passi di Wordsworth “rimaniamo in una specie di movimento sospeso, sostenuti dal battito del verso come un uccello”). Il fondatore della poesia inglese moderna copriva il rumore dei propri passi con la voce che cercava i versi. Una specie di Glenn Gould dei boschi; un poeta podista, dall’andatura più o meno ritmata. Di Yeats, il grande padre d’irlandesità, Heaney invece ricorda il Dandy, il teatrante, il grande agitatore di piazza. Anch’egli compone la sua poesia ad alta voce. Ma la tecnica è diversissima: fatta di controllo, di lotta, come se provenisse da una zona di guerra. Heaney dedica anche un saggio all’altro irlandese, Kavangh, uno a Hopkins, e uno a Hughes, Larkin e Hill, più vicini a lui d’età. Nella loro battaglia con le parole, egli cerca il segreto della loro perizia, una parola che unisce efficacemente il senso artigianale dell’arte con quello di un raro e difficile apprendistato.
– 01/03/1997
Con Dante a Oxford
In libreria poesie e saggi di Heaney. Terra d’Irlanda, magie d’Inghilterra.
A un anno dal premio Nobel per la letteratura, conferitogli nel 1995, l’irlandese Heaney, prima noto solo agli esperti, è presente nelle librerie italiane con quattro titoli.Mondadori ha ristampato l’importante raccolta “Station Island”, di matrice dantesca. Marcos y Marcos ha pubblicato un curioso volume di 68 “Poesie scelte” (pp. 244, lire 24.000), in cui quattro nostri traduttori presentano ciascuno un blocco di poesie. Più utilmente, Roberto Messapi si è provato a tradurre per Guanda un’intera raccolta giovanile di Heaney, “Una porta sul buio” (pp. 94, lire 16.000).É un modo giusto per avvicinare un poeta sfuggente pur nella sua semplicità, a causa del nitore cristallino della forma: coglierlo ai suoi inizi, in queste scene di vita di campagna, di viaggi sulla costa irlandese e in Francia (“Ho pensato a te continuamente/mille miglia a sud dove l’Italia/appoggia l’anca alla Francia sul globo oscuro./La tua ordinarietà vie era rinnovata”). Una madre incinta racconta: “Sono stanca di andare in giro con questo tuffatore/dentro di me. Dio, gioca come un vitellino/impazzito sulla corda…”.Mi diceva di recente un giovane poeta italiano: “Dopo aver letto “Una porta sul buio” ho capito la grandezza di Heaney, che ancora non avevo messo a fuoco”.Per noi, alla fine delle celebrazioni montaliane del 1996, è sorprendente trovare al centro del volume un’anguilla che ricorda molto da vicino quella celebrata dal poeta genovese: “Ghiandola che agita fango/duecento miglia dalla/costa, scaglia l’acqua/su acqua che risale/estuari, si destò/dalla deriva a metà Atlantico,/insinuante del satellite/sull’oceano, egualmente fedele:alla sua orbita…”.Heaney ricorda i campi dell’interno dell’Irlanda serpeggianti di anguille che cercano di ritrovare la strada del mare: “Guardare le anguille attraversare la terra/riannodava la cintura viva sul mondo”. Dunque egli, come Montale, parla per conoscenza diretta. Tuttavia “L’anguilla” montaliana fu tradotta nel 1960 da un poeta americano molto ammirato da Heaney, Robert Lowell. “Una porta nel buio” è del 1969.In Heaney l’esperienza e le letture (Dante soprattutto) convergono in una poesia insieme dotta e immediata. Heaney insegna infatti poetica e poesia alle università di Harvard e Oxford,e ha raccolto i suoi saggi in tre volumi.Il primo di essi “Attenzioni”, è stato appena pubblicato in una buona traduzione da Fazi (pp.XXI-219, lire 30.000). É la prima volta che il lettore italiano può conoscere quest’aspetto non secondario dell’attività del poeta. Anche nei saggi egli muove senza difficoltà dal livello personale, raccontando come sono nate le sue poesie, a considerazioni sui suoi maggiori predecessori e contemporanei, da Shakespeare a Yeats, Hopkins e lo stesso Lowell. Non c’è guida migliore di Heaney nell’universo della poesia inglese, sicché “Attenzioni” fornisce veramente al lettore italiano uno strumento indispensabile.A differenza di tanti saggisti letterari italiani, Heaney non si preoccupa della fine della letteratura o della crisi della modernità, non parla per allusioni ai confratelli. Legge Shakespeare e Dante e ne trae dei parametri sui tipi e modi della poesia, ci guida all’interno dell’atto creativo. Intorno appaiono l’Irlanda, con il suo fascino antico e la sua violenza presente, e l’Inghilterra, la cui cultura il poeta irlandese fa sua.Uno dei saggi si chiama “Inghilterre della mente”, riguarda tre importanti poeti del Novecento ma attraverso di essi evoca tre stati della cultura e edl paesaggio inglese: quello primitivo autoctono, anglosassone; quello romanizzato e medievale; quello dello sfascio postimperiale e postindustriale. Sono saggi che cambiano il nostro modo di leggere sia una letteratura sia un paesaggio.Il poeta è per Heaney simile al rabdomante, che interroga la terra e ha una sensibilità nelle mani, una facoltà di rispondere a vibrazioni che altri non colgono.Ce la racconta in una poesia che ricorda la visita di questo moderno mago druido: “Lo scatto arrivò, forte come una puntura./Sussultò il ramo di convulsioni regolari,/l’acqua sorgiva trasmetteva d’improvviso/la sua posizione segreta attraverso il legno verde./Gli astanti chiesero di provare anche loro./Gli diede il ramo senza dire niente./Rimase inerte nelle loro mani, finché con noncuranza/gli strinse i polsi in attesa. Il legno tremò”.Come gli astanti di questa scenetta tengono in mano il rametto inerte finché il rabdomante non gli tocca i polsi, così a volte il testo letterario ci lascia freddi finché uno Heaney non ci guida nella letteratura della sua poesia e di quella del passato, facendola scoprire nella sua “segreta posizione”. E dissetandoci.
– 06/05/1996
Un raro Otto per Fazi
“Le Terre” é il nome della nuova collana saggistica che l’editore romano Fazi manderà nelle prossime settimane. Due i titoli di esordio “Il volto degli dei” dello storico delle religioni Walter Otto e “Cento romanzi italiani”, insolita carrellata della narrativa del nostro Novecento accreditata da una prefazione di Giovanni Raboni. Da segnalare, fra le prossime uscite, la prima traduzione italiana – a cura di Massimo Bacigalupo – di “Attenzioni”, un volume di prose del poeta irlandese Seamus Heaney, premio Nobel per la letteratura nel 1955. Particolare interesse suscita la riproposta degli scritti di Otto su “legge, archetipo e mito”. Il testo pubblicato in Germania nel ‘55, é ancora attualissimo e presenta venti tesi sull’essenza del mito, sulla civiltà degli antichi, sul mondo moderno e sulla lontananza del divino. Il filologo e storico ripercorre il cammino dell’Occidente interpretandolo in riferimento al mondo antico e ai suoi aspetti più emblematici, in un continuo intreccio tra sforzo conoscitivo e impulso religioso dell’uomo, e “rivelazione” inattesa del divino nella storia.
– 06/05/1996
Seamus Heaney Il governo della lingua.Preoccupations. Prose scelte (1968-1978)
I precedenti premi Nobel irlandesi, George Bernard Shaw, William Butler Yeats e Seamus Beckett erano protestanti anglo-iralndesi. James Joyce era un anglo-irlandese (normanno) cattolico, ma fu obbligato a ricreare e a darestatura nazionale a quello che era considerato argot dublinese in esilio. Il premio nobel per la poesia Seamus Heaney, di estrazione contadina cattolica del Nord Irlanda, sottolinea invece al piena indipendenza e identità della cultura cattolico-irlandese. Finalmente gli irlandesi “governano” la loro lingua. Heaney usa l’inglese nel modo in cui il vincitore del Nobel Wole soyinka nato in Nigeria, lo scrive. La raccolta di saggi curata da Massimo bacigalupo, copre il periodo in cui il futuro premio nobel veniva conquistando una sua reputazione internazionale; quando la poesia gli sembrava “un piacere colpevole” da far convivere, però, con il suo opposto: un certo giubilo. L’amato Osip Mandel’stam, il cui nome compare spesso nel libro, cantava nella notte stalinista, credeva nelal responsabilità dello scrittore: la poesia doveva divenire una lingua interiore. Per heaney la creazione di una composizione in versi è un’esperienza di liberazione equidistante dall’autogiustificazione e dall’autocancellazione: “Scrivere questi saggi mi ha aiutato a combattere quest’ansia e a verificare ciò che comunque credo: che la poesia, come l’amore, è potenzialmente salvifica e possibilmente illusoria”. O come conclude in una sua poesia “crediamo a ciò che sentiamo”. Il saggio “Il paradiso senza luogo. Uno sguardo a Kavanagh” è la celebrazione di un altro poeta delal sua rurale contea di Monaghan, il primo che Heaney lesse col piacere della scoperta che il mondo può diventare parola. Da Kavanagh, Heaney imparò a fondere memoria e immaginazione . Nell'”orbita della luce” Heaney considera la poesia del britannico Philip Larkin “dove la verità vince sulla bellezza, ai punti”. È lo stesso segno di una certa letteratura delle ex colonie,la cui fedeltà ala parlata della Indie Occidentali conduca vicino al genio della lingua inglese, al punto di possederlo più profondamente. Heaney parla poi di tradizione e della letteratura oppressa dell’Europa comunista. Czeslaw Milosz, Zbigniew Herbert e Osip e Nadezda Mandel’stam. “Poco a poco, i poeti di lingua inglese hanno sentito la necessità di guardare a Est e sono stati costretti ad ammettere che il baricentro della grandezza sta lasciando la loro lingua. Siamo tanto più sensibili alla traduzioni che giungono come messaggi da coloro che sono avari di parole e sono molto più avanti sulla strada da noi non presa… Quando leggiamo traduzioni di poeti russi e dell’Europa orientale siamo proprio sull’orlo e ancora l’integrazione continua”.
– 05/03/1998
Con Heaney inseguendo Coleridge
I grandi poeti indagati dal Nobel irlandese
Patate d’Irlanda e sassolini che scricchiolano sotto le suole di Wordsworth e Coleridge: è così che Seamus Heaney parla di poesia. Distingue il rumore dei loro passi sulla ghiaia, come il suono dei loro versi. È soprattutto qualcosa di fisico, di biologico che cerca, anche se la sua fronte continua a sbattere sulla vetrina della letteratura. Ma la mente, per fortuna, è più veloce, e aggira l’ostacolo. Inseguendo le interruzioni della pagina, i passaggi e i buchi “che conducono il lettore dall’altra parte” del vetro, arriva in un luogo in cui la poesia ha un solo comando e dice “devi cambiare la tua vita”. Niente lirismo, dunque, solo la responsabilità di dire il vero. Tra quanti ci hanno priovato, tre poeti, il russo emigrato Iosif Brodskij, il caraibico Derek Walcott e l’irlandese Seamus Heaney – premi nobel, rispettivamente, nell’87, ’92, e ’95 – incominciamo un dialogo a distanza. Dalla loro posizione insieme istiutzionale e lontana dal centro dell’impero, tracciano delle lienee di forza, individuando quella che oggi possiamo chiamare la grande tradizione poetica del novecento. Morto Brodskij il discorso comune si interrompe. Lo possiamo ricostruire nei saggi adephiani del russo e negli scritti di Heaney, prima Attenzioni e ora Il governo della lingua. In queste pagine., scritte fra il ’78 e l’87, c’è la “curiosità predatoria” di chi cerca di scoprire i segreti del mestiere degli altri. L’orizzonte è ampio: da Hopkins a Eliot, Lowell, Plath, Auden, Mandel’stam, Herbert e Milosz. Le questioni principali rimbalzano da una parte all’altra del libro: nel tempo che cancella e annienta, la poesia moderna acquista l’incomparabile valore di ciò che è sopravvissuto. E non è poco, “nel vasto panorama di violenza e futilità” (Eliot) che è la storia contemporanea.