Thomas Cahill
Come gli ebrei cambiarono il mondo
Traduzione di Maurizio Bartocci
Dopo il grande successo di Come gli irlandesi salvarono la civiltà, in questo nuovo straordinario viaggio nel passato Thomas Cahill racconta l’avvincente storia di come una tribù eterogenea di nomadi del deserto ha per sempre modificato la nostra percezione della realtà. Cahill accompagna il lettore lungo un cammino che trae origine dalle idee religiose e dal modo di sentire dell’antico Israele, le tappe fondamentali dell’antico Testamento vengono analizzate attraverso una ironica e suggestiva chiave di lettura. Gli Ebrei, infatti, non sono solo stati gli “inventori” del monoteismo, ma hanno definito una nuova concezione del tempo storico e lineare e l’idea di un destino individuale, regalando al mondo «un intero nuovo vocabolario, un intero nuovo Tempio dello Spirito, un paesaggio interiore di idee e sentimenti, che non si erano mai conosciuti prima».
Con uno stile irresistibile, ricco di intuizioni e humour, Come gli ebrei cambiarono il mondo percorre un sentiero affascinante, dimostrandoci che molti dei nostri più preziosi valori sono doni degli Ebrei e che è a loro che dobbiamo un nuovo modo di intendere il mondo: quella sensibilità che, a distanza di millenni, ha ispirato la nostra fede di speranza nel progresso e la sensazione che il domani può essere migliore.
– 07/10/1999
Un nuovo best seller dell’autore di “Come gli irlandesi salvarono la civiltà”
Come gli ebrei cambiarono il mondo
Non c’è che dire, Thomas Cahill ha ancora una volta fatto centro. Dopo ‘Come gli irlandesi salvarono la civiltà’, giunto ai vertici delle classifiche statunitensi e di cui abbiamo parlato a suo tempo (1), ecco in traduzione italiana (sempre peri tipi di Fazi Editore) ‘Come gli ebrei cambiarono il mondo’, che con le sue 500 mila copie già vendute negli Usa si appresta a replicare il successo del precedente titolo. L’uno e l’altro, parte di un più vasto progetto in sette volumi sulle grandi culture che hanno plasmato la civiltà occidentale. A cosa si deve il consenso che sta riscuotendo un po’ dovunque questo saggista già responsabile del settore religioso della prestigiosa casa editrice americana Doubleday? Certo alla sua non comune padronanza della materia, unita ad una grande capacità di sminuzzarla e renderla accessibile anche per il lettore più sprovveduto: allo stile brillante, colloquiale e condito di sottile ironia: ma soprattutto, direi, alla prospettiva originale e ricca di felici intuizioni da cui affronta di volta in volta l’argomento prescelto. È il caso pure di questa nuova opera: ancora un viaggio nel passato che trae origine, stavolta, dalle idee religiose e dal modo di sentire dell’antico Israele per giungere ai nostri giorni; facendoci scoprire come una tribù eterogenea di nomadi del deserto abbia per sempre modificato la nostra percezione della realtà. Da Abramo a Mosè, da David a Salomone, dalla prigionia in Egitto alla divisione del regno d’Israele, le tappe fondamentali dell’Antico Testamento vengono analizzate da Cahill attraverso una suggestiva chiave di lettura. Intanto egli nota come alle origini del pensiero religioso dei popoli primitivi vi sia una visione ciclica del cosmo, molto simile a quella espressa in forma più elaborata da culture sviluppatesi in seguito, come in Grecia ed in India. Secondo tale visione, “niente succede una volta sola…ogni evento è successo, succede e succederà in eterno. Gli stesi individui sono apparsi, appaiono e appariranno al chiudersi di ogni cerchio”. In un mondo ciclico, dunque, non c’è inizio né fine. Ben diversa, invece, è la concezione ebraica, per la quale “in principio Dio creò il cielo e la terra”, e il tempo che ebbe un inizio deve avere anche una fine. Quale? “Nella Torah apprendiamo che Dio compie i suoi disegni nella storia e avrà effetti sulla sua fine, che la nostra inclinazione interiore verso il nostro prossimo farà una grossa differenza nel modo in cui questa fine ci apparirà”. In breve: gli ebrei non sono stati gli “inventori” del monoteismo, ma – primi a proporre una visione del cosmo profondamente diversa da quella clinica dei popoli primitivi – hanno definito una nuova concezione del tempo storico e lineare e l’idea di un destino individuale, regalando al mondo “un intero nuovo vocabolario, un intero nuovo Tempio dello Spirito, un paesaggio interiore di idee e sentimenti che non si erano mai conosciuti prima”. Basti pensare a ciò che esprimono parole come “nuovo”, “avventura”, “sorpresa”, “unico”, “individuo”, “persona”, “vocazione”, “tempo”, “storia”, “futuro”, “libertà”, “progresso”, “spirito”, “fede”, “speranza”, “giustizia”… tutto un patrimonio che viene dal mondo ebraico. È come percorrere un sentiero affascinante, lungo il quale l’autore dimostra che molti dei nostri più preziosi valori sono il dono di pensare e di sentire: non ultima a distanza di millenni, questa sensibilità che fa sperare a tutti noi, credenti e no, in un mondo migliore.
– 09/01/1999
Il contributo ebraico alla civiltà occidentale
Si può raccontare la Bibbia ebraica e il popolo che l’ha espressa (all’inizio una piccola stravagante tribù di vagabondi del deserto, il nome di ebrei era sinonimo di “impolverati”) che ci ha donato le parole migliori della visione del mondo, della cultura dell’Occidente e che oggi, nel bene e nel male, tende a diventare comune al mondo intero? Si possono raccontare la Bibbia e l’ebraismo con il taglio di un romanzo divertente (il libro che presentiamo è negli Usa un best seller) e insieme con il rigore di approccio, di ricerca delle fonti e di documenti di un saggio scientifico? Si può ma occorre mettere insieme la solida preparazione di un ricercatore di Storia delle religioni, di un biblista, la creatività di un professionista della comunicazione e forse anche una misura di genio specifico della cultura angloamericana, capace per lunga tradizione di dire le cose anche difficili con piena concretezza e un tocco di “humour” Thomas Cahill, responsabile del settore religioso dell’editrice americana Doubleday, ha evidentemente tali frecce al suo arco e questo suo libro* che pure, l’autore ha premesso, non vuole essere un’introduzione alla Bibbia e all0ebraismo, è in questo campo uno dei libri più singolari e affascinanti che ho letto. “Wayyalekh Avram” (partì dunque Abramo), seguendo la vocazione di dio, un dio radicalmente altro dai molti e contraddittori che si coltivavano nel mondo ed allora, e queste due parole che raccontano la partenza di Abramo nel buio, verso l’ignoto, dice Cahill, sono le più coraggiose di tutta la letteratura. La civiltà occidentale ha inizio con questo viaggio. Abramo nel buio, verso l’ignoto, dice Cahill, sono le più coraggiose di tuta la letteratura. La civiltà occidentale ha inizio con questo viaggio. Abramo veniva quasi certamente dal Sumer, dalla “Mezzaluna fertile”, a ridosso del Tigri e dell0Eufrate, culla della prima civilizzazione umana. Già questo fatto, che si mise in viaggio dando ascolto a una chiamata divina che risuonava nell’intimo della mente e del cuore per costruirsi una storia personale che divenne collettiva e il fatto che il racconto di questa storia entrò con la sua valenza simbolica nella Bibbia, libro fondante e pietra angolare del mondo occidentale, segnavano una novità, il ruolo e il primato che avrebbe avuto la cultura che si lasciava alle spalle il sumero Abramo, la cultura del mondo antico, anche di popoli che avrebbero vissuto livelli di civiltà enormemente più raffinati, era e rimase la cultura del Cerchio, della “Grande ruota”. Così come la cosmologia, anche la visione delle cose umane era circolare, ciclica: la vita ritorna eternamente uguale a se stessa, così come ritornano il sole, la luna, le stagioni, i ritmi naturali, i cicli delle donne; non si va da nessuna parte: così uomini saggi, Eraclito, Lao-Tsu, Siddharta dicevano ai loro seguaci; non viaggiate ma state seduti; gli antichi greci avrebbero potuto raccontare ad Abramo che partiva la vicenda di Prometeo la cui ricerca del fuoco e della scienza degli dei si concluse con una sciagura personale, sia esistito un “uomo d’affari” chiamato Abramo, spiega Cahill con l’humour che si diceva, o sia solo quella che la Bibbia tramanda un mito di fondazione, resta che la tradizione ebraica della progenie di Abramo, dei patriarchi, del popolo in cammino definiva una nuova concezione del tempo storico lineare, l’idea di un destino individuale, di una storia della civiltà e delle vicende umane in movimento, progressiva. “Gli ebrei” – conclude Cahill la sua carrellata dalle prime esperienze religiose del Medio Oriente attraverso i libri dell’Antico Testamento – ci hanno regalato il Fuori e il Dentro. Il nostro modo di vedere e la nostra vita interiore.Difficilmente possiamo alzarci la mattina o attraversare la strada senza essere ebrei. Sogniamo sogni ebrei e speranze ebrei. Gran parte delle nostre parole migliori infatti (nuovo, avventura, sorpresa, unico, individuo, persona, vocazione, tempo, storia, futuro, libertà, progresso, spirito, fede, speranza, giustizia) sono doni degli ebrei”. Il libro di Cahill mi suggerisce una postilla. E’ indubitabile che oggi non poche parole che ci vengono dalla tradizione ebraica e cristiana sono in crisi, che crisi e stanchezza vive la visione occidentale del mondo che pure, Cahill dice, è così diffusiva. Non sappiamo, per esempio, dove ci porterà il futuro o se sia progresso il cammino nel quale da sempre siamo messi. La tradizione dell’Occidente, ebraico-cristiana è escatologica, ma di un’escatologia del tutto secolarizzata, terrena, che non sappiamo dove ci porti. Per molti quello che Rudyard Kipling chiamava orgogliosamente il “fardello dell’Occidente” è diventato pesante da portare, molti cercano di liberarsene, trovano proficuo regredire a “New Age” e tendenze simili, culture orientali riciclate e ammodernate del Cerchio e della Ruota. Ma io mi chiedo se possiamo sfuggire alla nostra vocazione al nostro destino.
– 09/01/1999
Nel bene e nel male
Viaggi, diversi, con un popolo in cammino
Ci sono viaggi che cambiano l’esistenza di una persona, e ci sono viaggi che possono cambiare il modo di pensare dell’umanità. Tra questi ultimi, secondo il saggista Thomas Cahil, c’è quello compiuto, nel secondo millennio avanti Cristo, da una famiglia di Ur; gente urbanizza del Sumer che per motivi sconosciuti ma ufficialmente per suggerimento divino – decise di muoversi lungo l’Eufrate, verso l’incolta e selvaggia terra di Canaan. A capo della carovana, che arrivò alla fine al cospetto del Faraone, c’era un uomo di nome Abramo. Abramo, così racconta Cahil, non si muoveva sulle rotte scontate di un futuro prevedibile (come avevano fatto fino allora gli uomini, che credevano in un tempo ciclico, e perciò immutabile). Il suo era u viaggio autentico verso l’ignoto, qualcosa che poteva tradursi in successo o in fallimento, in felicità o in tragedia. Questo, dice l’autore di ‘Come gli Ebrei cambiarono il mondo’, è il concetto rivoluzionario che il popolo di Abramo regalò al mondo: che c’era la possibilità di una storia individuale, e, più in generale, di una Storia. “Gran parte delle nostre parole migliori”, scrive Cahil, il cui filogiudaismo è così spiccato da risultare commovente, “nuovo, avventura, individuo, persona, futuro, libertà, progresso, fede, speranza, giustizia, sono doni degli Ebrei”. Questo saggio, che fa parte di un progetto in sette volumi sulle grandi culture che hanno plasmato la civiltà occidentale, non è tuttavia un tedioso peana filosofico-religioso: è, al contrario, un testo estremamente divertente e colmo di senso dell’umorismo, che ripercorre con occhio molto moderno i libri della Bibbia. Non è affatto divertente invece, come è ovvio, la lettura di ‘Giudeofobia’. ‘L’antisemitismo nel mondo antico’. Peter Schäfer appartiene alla schiera di storici che, come Theodor Mommsen, sono convinti che l’ostilità nei confronti degli Ebrei sia antica quando la Diaspora stessa, “una storia lunga e senza fine”. Davvero senza fine; Schäfer racconta che il suo programma di verifica ortografica cerco di cancellargli la parola ‘judenfreundlich, cioè amichevole nei confronti degli ebrei, con ‘judenfeindlich’, ovvero ostile agli ebrei: “Nulla potrebbe illuminare meglio il terreno che si trova a calpestare un autore tedesco che scriva dell’antisemitismo, e sia pure della storia remota dell’antisemitismo antico”. Per andare alle radici di questa storia, ecco una carrellata di testi di autori – alessandrini e romani – un’antologia dell’odio, del sospetto, della repulsione (a volte intrecciata a un’oscura attrazione), sentimenti innescati da conflitti politici, culturali, religiosi. Tensioni latenti, ma capaci di esplodere in forma sanguinosa, come avvenne nella colonia militare egizia di Elefantina, nel 410 avanti Cristo, e più tardi avvenne ad Alessandria, che nel 38 a. C. vide la potente comunità ebraica vittima di un ‘pogrom’, descritto da Filone, tanto violento da provocare l’irato intervento dell’imperatore Claudio.
– 09/01/1999
Dopo ebrei e irlandesi è su Gesu l’ultimo libro di Thomas Cahill
Roma. Thomas Cahill ci riceve con un gran sorriso, è un uomo allegro e ne ha ben donde. Lo scrittore americano – lanciato alla grande dalla “sophisticated lady” dell’editoria newyorkese, Nati Talese, moglie Gay, il romanziere italoamericano, e titolare di un proprio marchio di qualità alla Doubleday – ci accoglie nella sua casa romana a Trastevere illuminata da un sottofondo musicale medievale, le Melodie dello Scriptorium di Bobbio, secondo Vernans Rosa. Le sue finestre guardano sul mercato di San Cosimato, e a lui piace passare il tempo osservando i romani che fanno la spesa e che si muovono come se fossero sul palcoscenico di un teatro. In America è diventato famoso per aver venduto oltre un milione di copie di un libro sui monaci irlandesi dell’Alto Medioevo (“Come gli irlandesi salvarono la civiltà”, tradotto in italiano da Fazi editore nel 1997). Adesso, dopo il successo del secondo titolo della serie, sul dono degli ebrei alla storia dell’umanità, i concetti che formano il patrimonio della coscienza occidentale (“Come gli ebrei cambiarono il mondo”, Fazi 1999), sta per pubblicare un saggio su Gesù, “Desire of the Everlasting Hills: The World Before and After Jesus” (“Desiderio di colli sempiterni” che l’editore Fazi pubblicherà in primavera). Il libro s’annuncia conte un grande evento culturale dei Giubileo all’americana che sposa i fasti del calendario cristiano all’attenzione per il mercato. In America sarà in vendita tra una quindicina di giorni, ma Cahill può già mostrare soddisfatto la copia staffetta che troneggia sul tavolino del salotto. E’ un bel volume rilegato, con una veste tipografica un po’ liberty, note a pie’ pagina stampate in verticale, e sulla sovracoperta una foto, con Gerusalemme sullo sfondo, del bosco di Getsemani, il luogo dove Cristo passò l’ultima notte, e all’interno una serie di illustrazioni paleocristiane tratte dalla catacomba di Santa Priscilla, e alcuni immagini dei Santi Pietro e Paolo e dell’Icona di Cristo tramandata dal Sesto secolo. E’ un saggio sul messaggio cristiano e la sua eredità. Ricco di riferimenti e citazioni, fondato sulle ipotesi e le scoperte più recenti di grandi specialisti delle Scritture, e scritto senza dogmatisino e senza asperità. Le parole di Giovanni XXIII al Concilio Vaticano II valgono come motivo ispiratore: “Non che il Vangelo sia cambiato, solo che noi oggi lo capiamo meglio”. La figura di Cristo, l’ebreo palestinese del Primo secolo, contadino rivoluzionario, predicatore appassionato, ultimo dei profeti d’Israele e fondatore della religione della Grazia, spicca come figura unica e sublime attraverso il racconto di cinque scrittori, i quattro evangelisti e San Paolo, e si staglia rispetto alla crudeltà del mondo pagano e alla ferocia fallimentare del mondo moderno. Lo dimostra, fra l’altro, l’ecumenica nota sulla riconciliazione giudeocristiana che conclude il volume: “Gli ebrei rifiutarono Gesù non perché egli avesse rifiutato la legge di Mosè o perché dichiarava di essere Dio. ma per via della stia interpretazione della parola divina. (…) Un cristiano che s’immagina moralmente superiore a coloro che voltarono le spalle a Cristo deve solo gettare uno sguardo alla storia della persecuzione cristiana degli ebrei per capire che i cristiani sono riusciti a rifiutare Gesù molto di più di quanto siano riusciti gli ebrei.” Per lanciare il nuovo libro, la Doubleday, che ne ha stampato in prima tiratura 270 mila copie, ha già comprato per 99 mila dollari un’intera pagina di pubblicità sul New York Times del 2 novembre, giorno del previsto arrivo in libreria. “E’ una forma moderna di pazzia”, commenta divertito Cahill, mostrando la fotocopia della maquette in cui brilla un distico di Lady Antonia Fraser, biografa di Elisabetta I e Maria Stuarda nonché moglie del commediografo Harold Pinter: “Once you read a Cahill book you’Il never look at the world in quite the same way again”, una volta che hai letto un libro di Cahill non vedrai più il mondo nello stesso modo. Che Cahill sia uno dei rari autori oggi in grado di cambiare il nostro sguardo sul mon do per quel dono tutto suo di combinare ar te del racconto e dotta erudizione, lo dimostrano strano i suoi libri. Ma che per riuscire a far lo abbia dovuto sudare sette camicie, non lo sanno in molti. La sua infatti è una storia singolare, anche se molto americana. Inizia in proprio con una piccola casa editrice, che vende libri per corrispondenza, e in breve tempo ottiene un tale successo da non reg gere la sfida. Cahill la vende e a metà degli anni Ottanta entra come editor per gli studi religiosi alla Doubleday, il colosso editoria le passato ora in mano tedesca. E si mette subito a sfornare grosse opere di riferimento nel campo degli studi scritturali come “The Anchor Bible Dictionary”, in sei volu mi, a cura di David-Noel Freedman, o gli studi di John Meier sul Nuovo Testamento e quelli di Raymond Brown “An Introduction to the New Testament” e “The Death of the Messiah”. Pubblicare questi libri speciali stici è una forma di educazione permanente per Cahill, uomo di ampie letture, irlandese d’origine, educato dai gesuiti, che coltiva le lingue classiche senza disdegnare il gusto per l’entertainment. Da almeno trent’anni lui stesso accarezzava l’idea di una serie di saggi sulle tappe cerniera nella storia dell’umanità. Ma nessun editore aveva mai accettato la sua proposta. Finché un giorno, sorseggiando un caffè durante le pause di una conferenza con i rappresentanti delle vendite della Doubleday, ne parla di straforo a Nan Talese accennando al titolo del primo titolo della serie, “How the Irish Saved Civilization”. La signora alza gli occhi, lo guarda fisso e gli dice: “Voglio vederlo subito”. Gli fa un’offerta su due piedi, e gli propone subito un contratto, ma solo per il primo libro, non volendo impegnarsi con un’intera serie, pur riservandosi i diritti sul seguito in caso di successo. Frontespizio con ringraziamento ai venditori Ma il vero salto di qualità per questo editor della Doubleday col pallino della storia culturale l’hanno fatto i “sale reps”. Le decine di venditori della casa editrice che tre volte l’anno presentano ai librai le novità e contrattano con loro il numero delle copie da ordinare, e dunque lo spazio e la visibilità ai quali un nuovo titolo può aspirare entrando in libreria. “Se di un libro in America si stampano cinquemila copie – spiega in pratica Cahill – può anche essere un capolavoro, ma al massimo in libreria potrà ambire a comparire di dorso su uno scaffale, magari laterale, fra i tanti altri volumi della stessa stazza. Un libraio, sapendo che se ne stampano solo cinquemila copie, ne ordinerà solo una o due”. Ora, quando i “sale reps” della Doubleday andavano a presentare il primo libro di Cahill, le richieste dei librai levitavano. Sono stati questi gnomi delle grandi idee coi piedi per terra a fare la fortuna contabile di un autore sconosciuto, questi geni pragmatici che non si peritano di mettere in imbarazzo gli editori confessando senza giri di frase: “Non capiamo di cosa stiate parlando”, sono stati loro a insistere perché venisse triplicata la tiratura del primo Cahill, convinti che sarebbe stato un successo: “Non cinque, ma quindicimila copie”, per ottenere l’esposizione del nuovo titolo in bella vista, con una pila sul tavolo, o magari in vetrina. Il successo, per quanto prevedibile, è stato travolgente: record di durata nelle liste dei bestseller, traduzione in quindici lingue, effetto traino sul secondo volume della serie, che solo in hard cover ha venduto quasi mezzo milione di copie. Ma un autore in America quante volte può incontrare la forza vendita? “Quasi mai” risponde Cahill. “Il mio è stato un caso fortunato. Conoscevo i venditori ed eravamo buoni amici. Per questo, nel licenziare il mio nuovo libro su Gesù, li ho voltiti citare per nome uno per uno, e ringraziarli di persona”.
– 06/04/1999
Ebraismo
Sul mondo l’impronta di Abramo e dei suoi figli
La tesi è di quelle perentorie però suffragata da una parafrasi del racconto biblico sulla scorta di illustri studi specialistici. Il dono degli ebrei alta storia dell’umanità consiste nelle idee, nei concetti, nelle parole che ancora formano oggi il patrimonio della coscienza occidentale: persona, tempo, storia, futuro. progresso, fede, speranza, giustizia e libertà. Termini talmente familiari alla nostra sensibilità che noi post-moderni, agnostici e vittime della decadenza nihilista, non solo ci permettiamo di irridere, ma addirittura ignoriamo: Al punto da misconoscerne la stranezza e la straordinaria forza di innovazione, dimenticando che la loro origine si perde nella notte dei tempi, vecchia di quattromila anni, e si confonde con la scoperta del Dio unico, creatore di tutte le cose del cielo e della terra, che inaugura la tradizione giudeo-cristiana.La scoperta, come tutti sanno, avvenne nel secondo millennio avanti Cristo da parte di un capo tribù di Semiti. nomadi pegni nel deserto di Canaan, dopo aver abbandonato la città di Ur e aver rifiutato la visione degli antichi Sumeri, sudditi di Gilgamesh, fatta di assoluti celesti e corruzione terrena, dominata da una mitologia ripetitiva, fondata sul tempo immemorabile e sul capriccio degli dei. Avevano abbracciato invece un’idea nuova e rivoluzionaria, foriera di norme universali e dello stesso senso della storia: la fiducia nella voce incorporea di un Dio che parla al vecchio profeta Abram, gli ordina “Cammina alla mia presenza”, e “Sii perfetto”, e gli promette la terra di Canaan e una discendenza fuori dal comune, numerosa come le stelle del cielo, stringendo con lui un patto di sangue, sancito dalla circoncisione. Il merito della dimostrazione, seguita passo passo attraverso il rac-conto della Bibbia ebraica (Pentateuco, Profeti e Scritture) spetta a un americano gioviale, Thomas Cahill, irlandese d’origine, già di-rettore della collana di saggistica religiosa della casa editrice Doubleday, studioso ecumenico e fortunato autore di una serie di saggi che conferiscono alla divuigazio-ne uno stile da intrattenimento, con tanto d’indulgenze porno-ironico e concessioni barzellettistiche. Il primo libro, sul contributo degli irlandesi alla storia della civilltà (Hovv the Irish Saved Civilization; The Untold Story of Ireland’s Heroic Role from the Fall of Rome to the Rise of Medieval Europe. Doubleday 1995, tradotto da Fazi Editore nel ’97), ha venduto in America un milione e mezzo di copie, permettendo a Cahill, frequentatore della Comunità di Sant’Egidio, amico di Andrea Riccardi e di don Vincenzo Paglia, di investire i proventi nell’acquisto di un appartamento a Trastevere. Il secondo, The Gift of the Jews (uscito l’anno scorso e apparso ora da Fa-zi col titolo seriale di Come gli Ebrei cambiarono il mondo) ha superato il mezzo milione e il record di permanenza di un saggio in testa alle classifiche dei libri più venduti, facendo guadagnare alI’autore un contratto miliardario per continuate la serie.Dopo aver letto un libro tanto ecumenico da far apparire gli ultimi antisemiti come cascami del pregiudizio, è difficile credere ancora nell’”autosvalutazione”, di una minoranza che gli stessi Ebrei, secondo lo storico tedesco Emst Nolte, avrebbero messo in atto dopo l’olocausto. Senza gli eredi e gli ultimi discendenti di quella tribù d’Impolverati che quattromila anni fa prestarono ascolto alla parola del Signore la storia stessa del mondo occidentale non sarebbe nata.
– 05/01/1999
Abramo, alzati, vai e cambia il destino del mondo
Si capisce che, al miliardesimo libro sugli Ebrei, uno si chieda perché dovrebbe aggiungerlo ala sua collezione. Ebbene, questo Come gli Ebrei cambiarono il mondo, di Thomas Cahill, è indispensabile. Non è paternalistico, non patrocina la causa d i un popolo oppresso, non fa dell’esotismo, non fa nemmeno politica. Quello che è più nuovo per un pubblico italiano, tuttavia, è quel filosemitismo entusiasta e colto che gli intellettuali del mondo anglosassone sembrano ritenere indispensabile a una persona dabbene, e che invece in Italia e in molti paesi europei non esiste, anzi. Esiste semmai, nella migliore delle ipotesi, un filosemitismo narcisistico, che non ha mai saputo trasformarsi in amore disinteressato per quel popolo che, come dice Cahill, ha inventato «gran parte delle nostre parole migliori: persona., tempo, storia, futuro, libertà, spirito, progresso, spirito, fede, speranza, giustizia, sono tutti dono degli ebrei».Con grande spregiudicatezza ed erudizione, con scrittura brillante che non rinuncia perfino alla battuta audace, Cahill scrive la parte migliore del suo libro quando ci racconta come Abramo esce dalla cultura sumera misterica, violenta sanguinaria priapistica e anche astutamente mercantile: ci descrive tutta l’epopea di Gilgamesh per far vedere quanto sia diversa e insieme simile a quella del primo dei Patriarchi. Abramo sente il famoso “Lech Lechà”, alzati e vai, ovvero la chiamata divina, la prima delle rivelazioni, e qui s’inizia il concetto di destino autodeterminato, il senso reale dell’azione umana nel tempo, quando gli uomini e le loro cose non sono più mere manifestazioni, specchi, di dei immoti, sostanzialmente volgari o sterili. Abramo di certo, come tutti i sumeri, era politeista: ma adesso gli parla un Dio che ha motivazioni misteriose e talvolta terribili, che lo introduce nel mondo dell’incomprensibile, un Dio che non si può manipolare. Questo Dio educherà, per così dire, il popolo ebraico al difficilissimo esercizio dell’idea di Giustizia attraverso la fatica dell’esodo dall’Egitto, dopo aver suggerito l’idea rivoluzionaria che il Faraone, così potente, in realtà valga assai meno dei suoi schiavi. È più stupido, è più cattivo dei poveri ebrei che se ne vogliono andare alla ricerca di un futuro migliore. Il povero è il nuovo vincitore della storia. L’esperienza del deserto si svolge come un attraversamento dello spazio, ma soprattutto del tempo. Quei quarant’anni di girovagare sono una purificazione dagli idoli, dai sacrifici umani, dalla logica dell’oppressione. Il materiale e lo spirituale, l’intellettuale e il morale diventano una cosa sola: e l’unità della vita si riassume nell’incredibile grandiosità dell’idea dell’unicità di Dio. Intanto con l’Esodo nasce l’idea del progresso, e nasce legata all’idea di libertà. L’uomo farà del suo meglio, anche a Mosè è destinato a morire prima di entrare nella Terra Promessa. La ricompensa è nella forza intellettuale e morale della rivoluzione ebraica stessa, nell’autonomia delle scelte umane, nel fatto, come dice Cahill, che «devo ascoltare la voce» che non parla più solo ai grandi condottieri, ma anche a me. «Ovvero, devo prendere l’io sul serio».
– 09/01/1999
Gran lavoro cambiare il mondo
Detto così, senza mezzi termini, e uno da quel complimenti che prima di lusingare desta una specie di sbigottimento che è quasi dubbio perplesso: lo sarà davvero, un complimento? Come gli ebrei cambiarono il mondo è il titolo del fortunato libro di Thomas Cahill, parte di un vasto progetto in sette volumi sulle grandi culture che hanno plasmato la civiltà, oggi disponibile in traduzione italiana presso Fazi editore (così come il precedente: Come gli irlandesi salvarono la civiltà uscito nel 1997). In realtà il titolo dell’originale inglese di questa brillante introduzione ai fondamenti storici dell’ebraismo suonava assai più lapidario: The Gift of the Yews (“Il dono degli ebrei”: ma in fondo l’ambiguità resta quella. Non è detto che un dono sia sempre gradito, utile e magari anche non riciclato…). Questa quasi provocatoria premessa, d’altro canto, è animata dall’intento di invitare il lettore non solo verso il libro ma anche verso una domanda che può rivelarsi gravida di riflessioni. Chi è abituato a passare i propri giorni in mezzo a ciò che il passato ci ha affidato, non può che porsela, in ogni istante in cui la mente lavora: dov’è che il tempo ci ha reso migliori, in che cosa il passato è diverso da quello che oggi siamo? La risposta non è mai scontata. Così come la seconda domanda che nasce dal titolo di questo libro: era proprio il caso di cambiarlo, il mondo? Ebbene, sostiene Cahill, sì. Gli ebrei, ci spiega ripercorrendo la storia delle origini del popolo ebraico da Adamo ed Eva sino all’esilio babilonese, ci hanno insegnato come è fatto il tempo. Prima di loro, esso era un ciclo “insulso”, sempre uguale a se stesso, senza inizio né fine. Gli ebrei invece hanno inventato il progresso, la corsa verso un futuro di cui nulla ancora si sa ma che si fa del proprio meglio per rendere migliore del passato. “Ci vorrà tutta l’abilità e la devozione di questo popolo nel corso di tutta la sua storia per riverire il passato senza venerarlo, per inchinarsi davanti al mistero opaco del futuro (riga tagliata nella fotocopia) né nell’immaginato (o temuto) futuro, ma nel momento presente”. Il quadro storico tracciato da Cahill sulla scorta del racconto biblico soffre sì di alcune ingenuità, ma presenta non pochi spunti di interesse e sollecitazione. Peccato per una traduzione spesso farraginosa (“servizievolmente” pagina 94, “abbastanza affranti”, pagina 200, “il testo della Bibbia è pieno di indizi che gli autori stanno cercando di scrivere una sorta di storia.”, pagina 112), e per la totale assenza di lavoro sulla bibliografia e sui riferimenti testuali, come se la Bibbia e tutto il resto fossero stati scritti sempre e soltanto in inglese. Inguaribile fedeltà al passato unita a una capacità di attendere quel futuro incerto ma innegabile come l’arrivo un giorno o l’altro, del Messia: questo è da sempre il dinamico “squilibrio” dell’identità ebraica, come ben esempla la Piattaforma di Philadelphia ( 1869), cioè il Manifesto dell’ebraismo riformato americano. Che si può leggere finalmente (è il caso di dirlo!) in traduzione italiana nell’appendice al volume di Norman Solomon, Ebraismo (Einaudi). Una intelligente e assai utile introduzione ai fondamenti, alla storia e alla vita del popolo ebraico, con tutto ciò che serve e nulla di superfluo. Va detto inoltre che la nota all’edizione italiana di Alberto Cavaglion vale di per sé il gesto di procurarsi e aprire questo breve volume. In poche pagine cariche di quell’ironia costruttiva che è da sempre un’arma degli inermi ebrei, Cavaglion offre un quadro non solo dell’ebreo-pomodoro (ci si permetta, come invito alla lettura, di lasciare entro il margine del dubbio e la curiosità, la definizione di questa specie vegetal-animale dalle caratteristiche più uniche che rare), ma anche di quell'”ebreo-pomodoro italiano stufo di tante sterili polemiche intestine fra difensori del pomodoro-frutta e difensori del pomodoro-verdura”.