Emilio Cecchi
I tarli
A cura di Silvia Betocchi
Introduzione di Enzo Siciliano
Dal 1921 al 1923 Emilio Cecchi tenne sul quotidiano “La Tribuna” una rubrica letteraria, Libri nuovi e usati, in cui perizia e gusto di contraddizione si sposavano magistralmente. Cecchi si firmava “Il tarlo” e dedicava le sue riflessioni e le sue stoccate a libri, autori e problemi, spesso con tono divertente e grottesco. La scelta qui proposta ne è un esempio che testimonia un modo, libero e coraggioso, di intendere la letteratura e quanto ad essa è connesso, e un’attitudine verso la vita culturale e morale della nazione in un momento delicatissimo per gli equilibri del giovane stato italiano. “Ci sono, al mondo, molti brutti mestieri, molti mestieracci: il tosatore di cani, il bambino in fasce, e il fattorino tramviario, verso mezzogiorno, quando tutti cercano di scendere senza pagare. Ma il mestiere più brutto di tutti, a quanto posso intendere, deve essere quello di estensore, di tenutario di una rubrica del genere di questa, di Libri nuovi e usati”.
– 07/01/1999
Il tarlo di Cecchi respirava viaggiando con lord Jim
Un mestiere, anzi: un mestieraccio, scrivere per i giornali. Lo sapeva bene Emilio Cecchi, critico letterario fra i nostri maggiori, estraneo alle accidie accademiche, così disposto a scendere e a ri-discendere in quell’agone-arena-cortile privo di rete che è la carta stampata. Perché quando si firma una rubrica intitolata “Libri nuovi e usati”, il rischio è l’assalto alla diligenza. Tutti (leggasi: tutti) gli autori di pagine appena inchiostrate o spiegazzate, ma non ancora arrese, bussano, esigono un cenno, un grammo d’incenso. E l’ “estensore”, di settimana in settimana, “vede” avanzare la sinistra sorte: “morire come una mosca nel caffelatte”. Sulla scia del Meridiano Mondatori che l’anno scorso accolse, di Cecchi, “Saggi e viaggi”, l’editore Fazi presenta “I tarli” (a cura di Silvia Batocchi, introduzione di Enzo Siciliano). E’ una scelta di articoli apparsi su “La Tribuna” di Olindo Malagodi, dal 1921 al 1923. Un’antologia che documenta le qualità giornalistiche del “maggiore” fiorentino. Come modello lo stile d’oltremanica (che cosa ha significato l’Inghilterra nella sua formazione), lo “Spectator” di Addison e il “Rambler” di Johnson: “Una cultura classica, squisita ma no mortificante; una autentica e non pedantesca serietà morale; un senso di dignità sociale che corregge l’italiana ironia troppo feroce; l’impeto d’una gran vita letteraria dove gli ingegni si scaldano e raggiungono tutte le proprie possibilità; l’agile e bizzarra disposizione a cogliere nel meschino frammento di vita una verità inaspettata e profonda”. Nome alti e nomi obliati si avvicendano nell’officina del “tarlo” (così Cecchi si firmava), rabdomante di assoluto gusto, “abituato alla fibra secca e crocchiante degli aldini”. Via via soppesa D’Annunzio e Boine e Ada Negri, Proust e Joyce, Arnaldo Fraccaroli e Attilio Frescura, Colette e Pea e ulteriori grandi e minori. Interpretando (plasmando) la critica “da artista” che gli attribuì Spegno. Come caratteri, “lo sforzo per impossessarsi delle qualità intime dei suoi autori, dei loro segreti tecnici e del loro tono, l’attitudine mimetica a sciogliere l’impressione, meglio che in una formula, in un’immagine pregnante”. Eccola l’immagine (una fra le tante), ispirata da Covoni, un “precursore” che spalancò la strada a Gozzano, Palazzeschi, Papini, non vedendosi riconosciuti i meriti pionieristici: “E il povero Covoni restava fuor dell’uscio a tremare; come uno di quei mendicanti coll’ombrello d’incerato verde ch’egli dipinge nelle sue poesie e nelle sue prose con l’evidenza e la penetrazione di un’esperienza fraterna. C’è del santo, del fakiro, del martire, del “Christus patiens”, in questo poeta; e insieme, del pulcinella”. Inesorabile, Cecchi, nel riconoscere i vertici: da Proust (“Ha genialmente rinnovato il senso del tempo e della “durée”, ancorché in una fase anteriore lo avesse soprattutto segnalato come “un finissimo descrittor di costumi”) a Joyce, che per primo intuì (“Ulysses” è del ’22, il tarlo che seziona l’autore irlandese è del ‘239: “Di rado, anche in Tertulliano e nei Padri più ossessionati dall’idea della colpa, fu fatto un processo così acre agli istinti e moventi umani”). La fatica della milizia critica. Cecchi si ristora tornando alle pagine (critiche) di Boine (“Non un giudizio che, sostanzialmente, non sia rimasto vero”), di Pancrazi, di Croce (“Dato pure che nel veder e dire giusto, quando gli altri veggono sbagliato, egli metta a volte una acredine polemica, che ha per effettori scuotere un poco l’equilibrio delle affermazioni e diminuire l’efficacia della persuasione”), O cerca refrigerio rileggendo “Lord Jim”, dove “la morale, intesa come pittura dell’uomo interno, si mangia e consuma il romanzo d’avventura”. O rompe l’assedio cartaceo (“Le biblioteche oggi si concepiscono essenzialmente sotto l’aspetto di falò” componendo lui stesso un acquerello narrativo, un’oasi di pulizia (la “pulizia di mestiere” pascarelliana) e di poesia: “Ecco il freddo davvero, e non più soltanto in allegorie concepite ad uso dei venditori di stufe e panciotti; ecco autentiche nevi e squallori boreali! Via Nazionale sembra un reparto della banchisa antartica…”. Pare un “pesce rosso”, un eco dell’elzevirare maiuscolo che ha in Cecchi il capofila, Maiuscolo perché mai vacuo, perché nutrito da una lunga sapienza. Perché un “giornalista” bene o male “bisogna si rassegni a dipendere, se vuol sapere e vuol fare qualcosa, da Swift e da Machiavelli, da Pascal, da Demostene e da Sant’Agostino.
“I tarli”, recensioni di Emilio Cecchi
Critico militante e raffinato saggista
Dopo la pubblicazione del Meridiano Mondatori che lo scorso anno riunì, di Emilio Cecchi, “Saggi e Viaggi”, l’editore Fazi presenta adesso I tarli, a cura di Silvia Batocchi e con l’introduzione di Enzo Siciliano (pp.148, lire 28.000). Si tratta di una scelta di articoli, mai raccolti in volume, che il grande critico fiorentino pubblico con la firma “Il tarlo” sul quotidiano romano “La Tribuna” di Olindo Malagodi dal luglio 1921 al novembre 1923. Ma che senso ha riproporre a distanza di tanti anni queste recensioni? La domanda appare priva di senso non appena si leggono le prime pagine di questo “dittatore” della critica italiana, del quale si ritiene di conoscere tutto vista la sua fortuna e la sua influenza, e i cui elzeviri, qualche anno dopo, inaugurarono sul “Corriere” una raffinata tribuna, dove, come scrisse Indro Montanelli, Cecchi esercitava la funzione di “Corte di cassazione della critica letteraria”. Perché è impossibile non ammirare l’intelligenza e l’acume critico dell’autore di “Pesci Rossi”, anche quando si è in disaccordo con i suoi giudizi, e non rimanere colpiti dalla sua cultura, dalla sua prosa fluente, piena di brio e di raffinate divagazioni, con scarti umorali e impressioni argute. Come nota Siciliano, Cecchi non era un critico “sistematico” e per lui “un libro, un autore erano tali quando poteva scriverne o parlarne in termini di necessità”. Una lezione “esemplare”, la sua, dunque che rifuggiva ogni settarismo o il facile esercizio della lettura. Del resto proprio sui giornali hanno scritto i nostri maggiori scrittori di questo secolo, basti pensare ad Alvaro e Calvino, a Praz e Macchia, ad Arbasino e Moravia, trovando uno spazio privilegiato che ha avuto profondi legami con il mutamento del gusto e l’interpretazione del reale. Non una critica informativa, ma un’attività che realizzava un rapporto intimo tra parola e cronaca, tra letteratura e quotidianità. Oggi, come sappiamo, il rapporto è ben diverso, e la firma degli scrittori sui giornali compare sempre più di rado, mentre l’esercizio della critica è spesso diventato puramente informativo. Allora la lezione di Cecchi, con il suo stile misurato, dialogante, “un felicissimo stile da conversazione”, torna per indicare l’importanza di un modello, di un’arte; ma anche per la felicità di molte intuizioni, per la lucidità di tanti giudizi critici. Del resto, la difficoltà del mestiere l’avvertiva anche Cecchi: “Ci sono al mondo molti brutti mestieracci: il tosatore di cani, il bambino in fasce…Ma il mestiere più brutto di tutti, a quanto posso intendere, deve essere quello di estensore, di tenutario di una rubrica del genere di quella, di “Libri nuovi e usati”. Lamentava, Cecchi, che il critico era in qualche misura al riparo dai continui assalti a cui è sottoposto il tenutario di una rubrica, inseguito da autori ed editori in cerca di una nota, di una citazione, di una gratificazione. Mentre il critico, con la sua “inevitabile attrezzatura paladinesca” è in qualche misura temuto e lasciato in pace. E Cecchi, critico al di fuori di ogni bega accademica, non lesinò di far uso di tutta la sua intelligenza e libertà di giudizio che oggi spesso manca a molti critici. Si leggano le pagine illuminanti su Conrad, Enrico Pea, Corrado Covoni, Riccardo Baccelli. Ma soprattutto le acute osservazioni al vetriolo su D’Annunzio e il “Notturno” e il drammatico giudizio su Ada Negri, l’entusiasmo per Katerin Mansfield e Colette, sempre mosse per sciogliere i loro segreti e la loro tecnica. Insuperabili, poi, le pagine su Carlo Cattaneo antologizzato da Gaetano Salvemini. Ma gli esiti più felici sono le pagine sui maggiori: su Proust, per esempio (“Ha genialmente rinnovato il senso del tempo e della durée”, dopo averlo segnalato come “un finissimo descrittore di costumi”), anticipando di gran lunga i giudizi della critica italiana. Come anche riguardo a James Joyce, autore di cui per primo Cecchi intuì la grandezza (“Ulysses” è del 1922 il “tarlo” che lo segnala è dell’anno successivo): “Di rado, anche in Tertulliano e nei padri più ossessionati dall’idea della colpa, fu fatto un processo così acre agli istinti e moventi umani”, ricostruendo le esperienze umane dell’irlandese e la genesi del suo capolavoro nello spazio di poche pagine esemplari. Pagine illuminanti, argute, che riconciliano anche con il piacere della lettura, e ci restituiscono la dimensione del vero critico militante, del raffinato saggista.
Il “Tarlo” che colpì Proust
Ci sono al mondo molti brutti mestieri, molti mestieracci: il tosatore di cani, il bambino in fasce, il fattorino tranviario, verso mezzogiorno, quando tutti cercano di scendere senza pagare. Ma il mestiere più brutto di tutti, a quanto posso intendere, deve essere quello di estensore, di tenutario d’una rubrica del genere di questa, di “Libri nuovi e usati”. Così, il 28 ottobre 1921, Emilio Cecchi iniziava il suo pezzo settimanale sul quotidiano “La Tribuna”. In questa rubrica di “Libri nuovi e usati”, uscita dal luglio 1921 al novembre 1923, il grande critico, che si firmava “Il tarlo”, esponeva liberamente le sue riflessioni spesso fulminanti su un autore, un libro, un argomento di attualità letteraria, occupandosi non solo di nomi famosi, come quelli di Pirandello, D’Annunzio, Croce, ma anche di Joyce, allora pressoché sconosciuto in Italia, o di Proust. Sull’autore francese, il 7 luglio 1922, Cecchi scrisse il “tarlo” forse decisivo per la futura lenta ascesa dell’opera proustiana nel nostro Paese: “Sono ormai parecchi mesi che, in occasione di un recente volume di Marcel Proust, esprimemmo, su quel volume, e complessivamente sull’opera dello scrittore, l’opinione, molto rispettosa, che in fondo si trattasse di un finissimo descrittore di costumi, e, riguardo al modo di concepire il romanzo, di una specie di Henry James filtrato attraverso l’ultima tradizione francese”. E dei critici che si occupavano degli stranieri, Cecchi diceva che appartenevano a due tribù: quella poco numerosa (oggi diremmo numerosa) dei subito entusiasti, degli eterni catecumeni sempre a bocca aperta, e quella “degli ignoranti, che comprende i critici più rumorosi, i quali si accorgeranno di Proust, o di Meredith, o di James, si e no fra trent’anni”. Una raccolta di questi pezzi che Cecchi destinò alla rubrica “Libri nuovi e usati” uscirà fra breve con il titolo “I tarli” (a cura di Silvia Batocchi e con una introduzione di Enzo Siciliano) presso l’editore romano Fazi. Del quale si vuole qui annunciare un’altra novità, situabile tra la narrativa e la biografia familiare: “Tutti i sognatori”, di Filippo Tuena. Tuena, che è erede di una nota famiglia di antiquari romani e ha al suo attivo alcuni scritti di storia dell’arte, non è nuovo al romanzo, avendo vinto nel ’91 il bautta Opera Prima con “Lo sguardo della paura” e pubblicato poi “Il volo dell’occasione e Cacciatori della notte”, editi da Longanesi. Nel presente libro vengono descritte le vicende di una famiglia altoborghese di origine elvetica nella Roma del ’43, dove, dalla sua privilegiata posizione di neutralità, l’abile antiquario Luca assiste dapprima agli sviluppi della guerra in corso, traendo persino profitto dalle tragiche circostanze, ma poi prende a poco a poco dolorosa coscienza della realtà e, entrato a far parte di un gruppo partigiano anarchico, finisce ucciso alle Fosse Ardeatine.
Emilio Cecchi
I tarli
Dal luglio 1921 al novembre 1923 Emilio Cecchi, firmandosi “Il tarlo”, tenne sul quotidiano “La Tribuna” una rubrica dal titolo “Libri nuovi e usati”, una sorta di elzeviro culturale che mescolava recensioni, riflessioni sulla lettura e la scrittura, anticipazioni di novità straniere e una elegante aneddotica giornalistica. Il risvolto di copertina di questo libro, che presenta una scelta di articoli, afferma che si tratta degli unici scritti critici di Cecchi non ancora raccolti in volume. Anche se resta il sospetto che si sia grattato il fondo del barile (e il prezzo è un po’ sproporzionato rispetto allo smilzo libricino) c’è comunque di che essere grati all’editore di avere colmato la lacuna. Le fresche recensioni del “Notturno” dannunziano o del “Moscardino” di Enrico Pea dimostrano lo straordinario talento analitico del maestro della critica novecentesca. Ma danno anche la misura della sua straordinaria capacità di mettere in relazione testi e autori, con l’apparente disinvoltura di una chiacchierata al caffè, dietro cui si nasconde però un duro lavoro e un dialogo costante tra costruzione analitica e raffinatezza dell’intuizione. Un’attività ancora più impressionante quella di Cecchi in quanto svolta sui contemporanei in un periodo così cruciale come i primi decenni del secolo, spaziando nella letteratura di molti paesi.Con un tono affabile e colloquiale, senza l’ombra di cipiglio critico e senza mai gridare al miracolo o alla grande scoperta, Cecchi parla di “Sodoma e Gomorra”, quarto libro della “Recherche” proustiana, segnala i racconti di Katherine Mansfield e i romanzi di Colette, recensisce come ultimissima novità l'”Ulisse” di James Joyce, appena stampato in Francia e fattogli avere in lettura da un cortese amico d’Oltralpe. In poche sobrie righe traccia la parabola che porta Joyce dall’apparente naturalismo di “Gente di Dublino” al lirismo autobiografico del “Ritratto dell’artista da giovane” fino ad approdare a quel capolavoro dell'”Ulisse” che Cecchi intuisce che possa apparire come “la negazione dell’arte, almeno in senso tradizionale”. Per finire, abbozza il parallelismo con l’Odissea, nota l’influenza di Sigmund Freud e accosta Joyce a Proust per il modo nuovo di considerare il tempo. In un’altra recensione esemplare, in occasione della traduzione francese di “Lord Jim”, stabilisce un sintetico confronto tra Joseph Conrad, Robert Louis Stevenson e Rudyard Kipling, rilevando con chiarezza le differenze fra tre grandi romanzieri d’avventura, assai più lontani tra loro di quanto a molti non sembri. Ma ciò che colpisce nel rileggere questi vecchi articoli è lo stile: scintillante e ricca di inventiva, la scrittura accompagna per mano il lettore alla scoperta del fascino di ogni libro, ne fornisce una chiave di lettura rapida e fulminante, senza mai rinunciare a un taglio giornalistico sempre variato e in grado di accogliere il lettore nel contesto della quotidianità. Sia quando parafrasa una celebre operetta morale di Giacomo Leopardi, sia quando, nel freddo febbraio del ’22, traccia un delizioso quadretto invernale e invita i lettori a tapparsi in casa, bere un ponce e prepararsi a leggere. Una menzione a parte meritano poi l’elogio della macchina da scrivere (cambiando solo l’oggetto, tutto l’articolo, attualissimo, potrebbe riferirsi alla scrittura col computer) e la lode struggente della dimensione effimera dello scrivere sui giornali. Che è poi quello che fa nascere molti dubbi sulla necessità di un libro come “I tarli”: Cecchi infatti critica duramente chi ha l’abitudine di raccogliere in volume gli articoli pubblicati sui quotidiani, poiché il rischio è quello di stravolgerne la funzione e di mortificare la seducente vitalità di quel che è pensato per essere presto dimenticato.
– 07/01/1999
Libri
Altre letture
Il lavoro critico è arte che si compone nel tempo, e a leggere le recensioni di Emilio Cecchi pubblicate su “La tribuna” (1921-1923), racconlte in “I tarli” (Fazi, pp. 152, lire 28.000) appare evidente il mosaico che, già vent’anni prima di “Americana”, egli andava costruendo intorno alla cultura contemporanea. Mirabili affondi contro gli accademici che “ragionano come puritani e agiscono come camorristi”.
Biblioteca
L’arguzia del tarlo
Sul quotidiano romano “La Tribuna”, il 15 luglio 1921, il fiorentino Emilio Cecchi (1884-1966) cominciava a firmare con lo pseudonimo “Il tarlo” una rubrica settimanale di recensioni, “Libri nuovi e usati”, l’ultima il 30 novembre 1923. Aveva già pubblicato poesie, saggi su Pascoli e su Kipling, prose varie, studi d’arte. Un’attività che sarebbe stata il piedistallo del suo approdo, nel 1927, al “Corriere della sera”. Ha ragione Siciliano a ricordare che proprio sui giornali, per gran parte del secolo, la letteratura ha avuto la possibilità di rendere la propria lingua sempre più comunicativa “sul filo dell’uso”. Cecchi infatti divulga magistralmente l’essenziale di un autore. E lo stile conversativo, secondo le circostanze, alterna immagini smaglianti, giudizi risentiti, plausi amicali, moralità. In questa scelta di articoli, mai raccolti in volume, un dettaglio della splendida analisi di alcuni testi di Carlo Cattaneo riflette il secolare atteggiamento negativo nei confronti della “natura giudaica”. Scarti umorali e incrinature del gusto sono appena un’ombra sull’intelligenza del critico. Divagazioni elzeviristiche e arguzie di maniera allentano il ritmo della pagina, spesso governato dalla scansione del punto e virgola. Il divertimento è assicurato quando Cecchi, ascoltando il suo lato ribaldo, inventa le trame dei “Promessi Sposi” scritte da romanzieri contemporanei. La corda seria, invece, vibra in letture di grande talento interpretativo: “Ulisse” di Joyce, “Lord Jim” di Conrad, Pea, Govoni, Bacchelli e altri. Certe scrittrici poi – Ada Negri, Aleramo, Mansfield – attirano l’ammirazione di Cecchi, entusiasta soprattutto di Colette, “una delle rarissime donne davvero civilizzate” perché ha saputo raccontare, con “profondo e autentico senso terrestre”, l’appassionata e acre saggezza delle sue diavolerie. Lusinghiero per lei. Assai meno per la quasi totalità del genere femminile.
Le recensioni del critico toscano, uscite sulla “Tribuna” e firmate “Il Tarlo”
E un giorno Cecchi scoprì un certo Joyce
Emilio Cecchi bisogna leggerlo, o rileggerlo, sottraendosi all’errata impressione di saper già quel che c’è da sapere di lui vista la sua fortuna quale critico militante. Fortuna che fu tale, negli anni precedenti la guerra e dopo, da farne quasi un involontario dittatore del gusto letterario nostrano. Chi dunque, superando il pregiudizio che induce a ritenere scontati i giudizi di questo straordinario lettore di “libri nuovi e usati”, si avventuri alla scoperta delle recensioni pubblicate da Cecchi con la firma “Il tarlo” sulla “Tribuna” dal luglio 1921 al novembre 1923, non potrà che ammirare la cultura profusa in ogni paragrafo mentre plaudirà all’intelligenza, al brio del critico toscano anche quando dissentirà dai suoi giudizi. Si vela, a voler fare solo un esempio tolto dal volume a cura di Silvia Betocchi e con prefazione di Enzo Siciliano, lo scritto dove vien presentato l'”Ulisse” di Joyce. Già in quel lontano marzo 1923 si spiega compiutamente chi sia il grande irlandese, attraverso quali esperienze umane sia passato prima di arrivare al suo capolavoro e come quel capolavoro abbia incontrato il favore di esegeti del calibro d’un Pound o d’un Larbaud. Nello spazio di una voce d’enciclopedia Cecchi riesce a dare quel che ci si aspetterebbe da un intero saggio biografico. Seguono lucidi e ben calibrati i suggerimenti di lettura per entrare senza traumi in un’opera impervia quale appunto l'”Ulisse”. Felicissima anche la pagina, datata 6 aprile 1923, su “Lord Jim” e Conrad. Né va trascurata una nota, che fonde magistralmente ammirazione e vetriolo, dedicata al “Notturno” di D’Annunzio.
– 06/07/1999
Emilio Cecchi
Il lavoro prezioso di un nobile «tarlo»
L’editore Fazi ha avuto l’ottima idea di pubblicare una scelta degli articoli che Emilio Cecchi pubblicò tra il ’21 e il ’23 su “La Tribuna”, dove teneva una rubrica letteraria, “Libri nuovi e usati”, che firmò con lo pseudonimo “il tarlo”, un “tarlo in valuta oro”, come ebbe a definirlo poi Giacomo Debenedetti. Il libro s’intitola appunto “I tarli”: ed è inutile aggiungere quanto questi scritti valgano, solo a restare su un piano di semplice testimonianza storica. Un esempio indicativo può essere fornito dal giudizio che Ceccgi dà di un’esperienza che lo vedeva in prima fila ed era in quel momento la sua più autentica esperienza, l’esperienza della “Ronda”, di cui era stato tra i fondatori, e che si sviluppa proprio contemporanea al suo lavoro di rubrichista sul quotidiano romano. Sono noti, su “La Ronda”, i giudizi severissimi dei primi storici (penso a Caretti, che parlò addirittura di un reazionarismo omologo a quello fascista), i quali videro in quella vicenda, nel migliore dei casi una specie di aventininismo letterario.Ebbene, assai diversa era l’idea che Cecchi primo attore e testimone aveva di quella esperienza: che gli appariva piuttosto come la più vera minaccia agli equilibri letterari consolidati, in una direzione tutt’altro che restaurativa (e loda, per esempio, la stroncatura di Gargiulo a Papini o quella di Bacchelli al “Rubè” di Borgese, che, però, non mi pare da citare a suo onore). Ma il libro è anche un’occasione per riflettere sul rapporto tra il Cecchi critico ed il Cecchi saggista. E per farci dichiarare, ancora una volta, la sua supremazia del primo sul secondo. Basterebbe cercare, tra queste pagine, quelle dedicate a Joyce, dove non solo sono già precisi tutti i riferimenti culturali da Proust a Freud, ma si lavora anche la gustosa e impossibile ipotesi di uno Swift lettore divertito e perplesso dello stesso Joyce. Basterebbe sostare su un giudizio, d’implacabile esattezza, come quello dedicato a Boine, giustamente sopraelevato: «Molti critici affermando e soltanto affermando, colgono e rilevano meno di lui, quando credeva soltanto di negare». Basterebbe verificare certe definizioni divinatorie, come quelle sugli scritti di un Bacchelli che ha appena pubblicato “Lo sa il tonno”, ma è ancora ben lontano dai suoi romanzi-fiume: «Sono “campagne” letterarie vaste come invasioni, emigrazioni di popoli e d’inondazioni; sono serpeggiamenti laboriosi e interminabili dei quali si dimenticano direzioni e fini». Intendiamoci: non è che e il Cecchi saggista non abbia grande importanza (ce lo hanno ricordato Sciascia e Calvino, più di recente Belardinelli). Ma lo ha, credo, in un senso conservativo: per aver tenuto viva una tradizione che però ha dato in altri migliori frutti.Un altro merito: quello di aver rinverdito tale tradizione con innesti anglosassoni, dentro una cultura sempre tropo francofila. Nelle sua pagine, però, pur così cariche di rifrazioni luminose, di lontananze, c’è qualcosa che non convince. Lo sgomento, quando c’è, è come addomesticato. Il mostruoso è sempre guadagnato per eccesso di eleganza. Nella critica, invece, quella sua misura giucciardiana, tra scetticismo e accidia, diventa una notevole cartina tornasole per il nostro inquietissimo Novecento. Ride, Ray Bradbury con l’irriverenza di sempre. È il più grande autore di fanta-scienza vivente. Walt Disney lo volle consulente quando decise di creare Eta Beta, l’inarrivabile progenitore di E.T. dal fisico inesistente e tutto cervello, inesausto divoratore di naftalina. La Nasa gli ha spesso chiesto di tenere lezioni o conferenze agli astronauti. Abita a Los Angeles con la moglie Maggie, ed è uno dei rarissimi “angelenos” a non avere un’aiuto. La sua popolarità è immensa almeno quanto la sua influenza sulla cultura contemporanea da quando ha pubblicato Cronache marziane e Fahrenheit 451. Adesso è uscito in Italia Verdi ombre, balena bianca (Fazi, 279 pagine, 29.000 lire), in cui Bradbury racconta con penna avvelenata la sua collaborazione con John Huston come sceneggiatore di Moby Dick versione cinematografica del capolavoro di Melville diretta nel 1956 dal regista americano-irlandese (“Una delle più spiacevoli esperienze, se non la più spiacevole, della mia vita!”, ricorda io scrittore). Pronto alla battuta come pochi, sulla soglia degli ottant’anni, il maestro della science fiction è rimasto un eterno bambino, vivacissimo, candido, paradossale, come si conviene a chi voglia arsi beffe dell’età. Prendere o lasciare».Comunque ci siamo, mister Bradbury. L’appuntamento-mito, errori celebrativi o no, è ormai alle porte. Quali saranno, a suo giudizio le sfide più importanti che ci riserva il futuro? «L’istruzione, prima di ogni altra cosa. In ogni angolo del mondo. Negli Stati Uniti, l’istruzione è andata al diavolo, non riusciamo più a insegnare adeguatamente a leggere e a scrivere, stiamo crescendo una generazione di idioti. Non so quale sia la situazione in Italia ma problemi simili esistono anche in Inghilterra. In Francia, in ogni pane del pianeta. E senza istruzione, non c’è futuro. Né, tanto meno cambiamento».D’accordo. Ma che tipo di istruzione, mister Bradbury?«Viviamo in una società tecnologica. E se non sappiamo leggere e scrivere. Non possiamo neanche usare e padroneggiare queste macchine che stanno influenzando le nostre vite. Non ha senso avere un computer se non si a farlo funzionare e non si sa quale tipo di informazione dargli o tirarne fuori. È da imbecilli, no?»Non prova molta simpatia simpatia per i nuovi media. Sembra piuttosto scettico al riguardo…«Scettico, è dire poco. Io sono un nemico di Internet. Lo trovo uno stupido esercizio per occupare il tempo di molti giovani che hanno voglia di sprecarne e credono di fare ricerca ma non la stanno facendo affatto! Ho sufficiente esperienza con Internet per dire che è un demenziale spreco di tempo. Che potrebbe essere meglio impiegato a una biblioteca o in libreria. Leggere un libro è molto meglio che giocherellare o “fare ricerca” con Internet».La conquista dello spazio, invece, la trova tra i sostenitori più accesi…«Spero che sia possibile compiere al più presto un’altra missione sulla Luna. Ma per restarci! E poi, farne un’altra su Marte, però con un equipaggio umano e non con i robot o altri macchinari. La corsa nello spazio deve continuare grazie all’iniziativa di esseri umani che possano descriverci cosa hanno fatto e visto e possano quindi coinvolgere nell’impresa altri abitanti del pianeta a prescindere dalla loro nazionalità. Quando raggiungeremo la Luna diverse volte, magari per il weekend, l’interesse sulla Terra sarà fantastico e sarà chiaro che gli astronauti presenteranno l’intera umanità e non soltanto un Paese. Insomma, non cambio idea Il nostro futuro sta nella conquista dello spazio».Il ventesimo secolo ha visto gli esseri umani raggiungere poteri impensabili, quasi divini, dalla scoperta dell’energia atomica alle manipolazioni genetiche. A proposito di conquiste, ipotizziamo la più azzardata e folle: diventeremo immortali, mister Bradbury?«Non ritengo che sia possibile o che qualcuno ci creda davvero, se debbo essere sincero. Penso invece che quello dell’età e dell’invecchiamento sia un problema di salute e di memoria. Purtroppo con il passare degli anni, ricordiamo soltanto le cose spiacevoli e non quelle buone mentre dovremmo trovare il modo per liberarci dai cattivi ricordi che spesso ci ossessionano. Chi sono varie etnie e comunità che per duecento anni si sono scontrate sinistramente e non riescono a dimenticare, con le conseguenze che sappiamo. Allora, il vero problema dell’età sarà di stare bene con il nostro corpo e soprattutto con la nostra mente a 90 o 100 anni, visto che sarà sempre più facile raggiungere questo traguardo. Ma io sono ottimista: nel XXI secolo lo sapremmo risolvere».A giudicare da “Verdi ombre, balena bianca”, lei però, non ha dimenticato affatto il lato oscuro di John Huston e io ha descritto come un mostro…«Temo proprio che lo fosse… Lo dico con amarezza perché era stato uno dei miei eroi giovanili, lo considero ancora uno dei più grandi registi di tutti i tempi e sono orgoglioso di essere stato scelto da lui per la sceneggiatura del film. Ma la mia ammirazione va solo all’artista, non all’uomo. In privato, Huston era crudele con la moglie, con gli amici, lo fu con me… Faceva di tutto per scoprire le debolezze degli altri, e, poi, li attaccava in modo meschino. Si serviva delle sue “scoperte” come armi. È difficile descrivere cosa fosse capace di fare con la sua perfidia».Tornando al futuro, qual è il suo sogno per il Terzo Millennio, mister Bradbury?«Beh, il mio sogno è ovviamente che non ci siano otto o nove guerre contemporaneamente, come è adesso. L’Africa è un disastro…credo che sia il sogno di tutti: un mondo finalmente unito, dove ognuno – individuo o nazione – possa vivere in pace e non ci siano guerre in India o in Pakistan, in Iran, o in Iraq, in Congo, o in Ruanda. Mio Dio, la storia è proprio orribile. Ma bando ai cattivi pensieri, sto per compiere ottant’anni e mi farebbe piacere vivere almeno per altri dieci anni. Perché, potrei sbagliarmi, ma il primo decennio del Nuovo Millennio dovrebbe essere molto bello. Potrebbe darci un mondo meraviglioso. Just a wonderful world».