Leonard Cohen

Il gioco preferito

COD: 3cec07e9ba5f Categoria: Tag:

Collana:
Numero collana:
60
Pagine:
280
Codice ISBN:
9788881123582
Prezzo cartaceo:
€ 16,00
Data pubblicazione:
29-11-2002

Postfazione di Simone P. Barillari
Traduzione di Chiara Vatteroni

Romanzo d’esordio di uno dei più grandi artisti contemporanei, Il gioco preferito è considerato in assoluto tra i dieci migliori romanzi canadesi del ‘900. Pubblicato in Italia nel 1975 da Longanesi, Il gioco preferito è assente dalle librerie da oltre venti anni e viene ora riproposto da Fazi Editore in una nuova traduzione. Scritto qualche anno prima del debutto di Cohen come cantautore, Il gioco preferito è in buona parte autobiografico e racconta gli anni delle scoperte adolescenziali e della prima giovinezza di Lawrence Breavman, unico figlio di un’antica famiglia ebrea di Montreal. Lawrence è un ragazzo dotato di una immaginazione e una sensibilità fuori del comune, e la sua vita si compone di tanti episodi di cui non riesce ad avere chiaro il senso: la morte del padre; l’amicizia e la rivalità con gli altri ragazzini; i giochi d’amore e di guerra; la propria identità umana e religiosa; gli esperimenti segreti sull’ipnotismo; l’affetto per Krantz, il suo migliore amico, con cui divide sogni e avventure. Con gli anni, il giovane Lawrence acquista una discreta fama come scrittore e decide di trasferirsi a New York. Qui, in mezzo a molte difficoltà, incontrerà Shell, di cui si innamorerà in un modo per lui completamente nuovo. Infatti, anche se ha amato molte donne nella sua vita, soltanto grazie a Shell, Lawrence scoprirà la totalità del sentimento d’amore e accetterà quanto è necessario fare per mantenerlo in vita.

IL GIOCO PREFERITO – RECENSIONI

 

Jasmina Trifoni, MERIDIANI
– 01/05/2008

 

Libri

 

 

 

Andrea Morandi, IL VENERDÌ DI REPUBBLICA
– 22/04/2007

 

Leonard Cohen che, 40 anni fa, era “troppo vecchio per cantare”

 

 

 

Mario Fortunato, L’ESPRESSO
– 08/05/2003

 

Freschi di stampa

 

Romanzo d’esordio (anno 1963) del grande cantautore-poeta canadese, questo libro mi piace anche se non mi piace: come si fa a non voler bene alla voce bassa e discorsiva di Leonard Cohen? Come si può non ricordare con travolgente nostalgia tutti i pacchetti di sigarette, i grandi discorsi fumosi (appunto) e febbrili che accompagnavano l’ascolto delle sue ballate, “Suzanne”, “Sisters of mercy”, “So long, Marianne” e tante altre? Impossibile non leggere queste pagine, tradotte da Chiara Vatteroni, senza rimettere sul piatto uno di quei dischi tanto amati. Racconto di formazione di un ragazzo che, nella Montreal dell’immediato dopoguerra e poi in una New York a lungo sognata, scopre l’amore e il suo correlato di disperazione e tormento, “Il gioco preferito” commuove come la vecchia foto di una giovinezza che non vuol finire.

 

Fulvio Panzeri, AVVENIRE
– 10/08/2003

 

L’Italia riscopre il Leonard Cohen poeta e romanziere

 

Prima di essere un folk-singer di fama, il Leonard Cohen che aveva studiato la Torah con il nonno rabbino, era considerato una delle promesse della letteratura canadese, prima con la fama di poeta maledetto e poi con un romanzo d’esordio, Il gioco preferito, uscito nel 1963 e ora riproposto, dopo trent’anni d’assenza dalla librerie italiane, da Fazi (pagine 286, euro 16,00).
Accolto in modo favorevole dalla critica, è oggi considerato uno tra i dieci migliori romanzi canadesi del ventesimo secolo. Sono ancora lontani gli anni del primo disco che esce nel 1968 e già raccoglie alcune ballate che fanno parte della storia della musica da Suzanne a Sister Of Mercy. E la musica Leonard Cohen se la trova direttamente sulla sua strada: “Con la vendita di un libro non mantieni la famiglia. Fare il musicista invece mi ha dato questa possibilità. Ho iniziato per caso. Era la metà degli anni Sessanta. Stavo andando a a Nashville e passando per New York mi sono imbattuto nella rinascita del folk. C’erano Dylan, Joan Baez”.
Quando scrive quel primo romanzo non ha ancora trent’anni, la stessa età del protagonista Lawrence Breavman. Forse sono possibili paralleli tra lo scrittore e il suo personaggio, ma non si può parlare di scrittura autobiografica. Lo afferma lo stesso Cohen: “Lawrence Breavman non sono io, ma abbiamo fatto un sacco di cose insieme. Solo che le nostre reazioni erano diverse, così siamo diventati uomini diversi”. Il protagonista è il figlio unico di un’antica famiglia di ebrei canadesi, scrive poesie, ha una passione per l’ipnotismo. E racconta, sullo sfondo della Montreal del dopoguerra, un percorso di formazione, tre perdite e abbandoni, depressioni della madre e incontri con altri ragazzi, oltre alla scoperta della forza dell’amore. Poi lo scenario cambia e abbiamo i primi anni di vita a New York. E in una lettera così spiega cosa significa per lui quel libro d’esordio: “Il gioco preferito non è solo un libro sull’adolescenza, è un’allegoria per un corpo perduto, perfetto; pallido, impossibile, quello che sfugge quando diamo un bacio…”. C’è un grande interesse verso il Cohen più strettamente letterario, lo dimostrano le proposte di alcune case editrici. Simone Barilllari, che ha curato la nuova edizione de Il mio gioco preferito, traduce anche il secondo romanzo per Fandango, Bautiful Lovers (pagine 280, euro 16,00), la storia di un uomo, solo e disperato, ossessionato dal ricordo della moglie che è suicidata, che compie, quello che Cohen definisce “un viaggio sfrenato e inquietante nei paesaggi dell’anima”. E arrivano anche le sue poesie, in una scelta curata dallo scrittore Giancarlo de Cataldo, intitolata L’energia degli schiavi (Minimum Fax, pagine 172, euro 12,50). Sono di grande interesse a partire dalla sezione che presenta una raccolta del 1964, che nasce dall’impatto con le pagine di Hannah Arendt sul processo Eichmann. Sostiene, a ragione De Cataldo: “Anche se il libro non parla soltanto dell’Olocausto, esso si può considerare come il contraltare poetico della “banalità del Male””.

 

Emidio Clementi, IL MUCCHIO SELVAGGIO
– 01/12/2003

 

Su Leonard Cohen.

 

 

Bukowski racconta che quando ancora era giovane si piazzava sotto il palazzo di John Fante sperando che da un momento all’altro lui, o uno dei suoi personaggi, uscisse dal portone di casa. Vederlo gli sarebbe bastato. Anzi, aggiunge che se anche Fante gli fosse passato a un metro di distanza o gli avesse chiesto da accendere, lui non si sarebbe mai permesso di importunarlo: “perché gli dei vanno lasciati in pace, e non si va a bussare alla loro porta”. Ma forse nel cuore del giovane Bukowski c’era lo stesso la speranza (che poi si è avverata) di riuscire un giorno a parlare con quell’uomo che tanta influenza aveva esercitato su di lui.
Io, per esempio, un incontro con Leonard Cohen sono anni che lo immagino e la maniera in cui questo incontro dovrebbe avvenire l’ho presa in prestito a una scena di un film. Il luogo è un parco d’inverno, io sono seduto su una panchina e aspetto. Probabilmente ho un giornale con me e fingo di leggerlo, come più o meno si fa sempre in questi casi, almeno nei film. E poi ecco: a un certo punto un uomo un po’ in là cogli anni, chiuso in un impermeabile, mi si siede accanto. E’ lui -Cohen- ma non ci sono presentazioni. Non mi guarda nemmeno. Tiene lo sguardo fisso di fronte a sé, forse tira fuori dalla tasca delle molliche di pane che getta ai piccioni e comincia a parlare. Lui sa già cosa voglio sapere e va diritto al punto, senza svolazzi, senza girarci intorno. Con parole precise e dirette mi spiega una volta per tutte come stanno le cose. Non le mie o le sue, ma quelle del mondo intero, da Abramo fino all’istante esatto in cui mi sta parlando. Sono convinto che è uno dei pochi che saprebbe farlo. A chi giova tutto questo dolore, per esempio, è una cosa che sono sempre stato curioso di sapere. O perché ognuno di noi ha sempre quest’ ansia di mandare tutto a puttane, anche le poche cose buone che riesce a fare. Forse sarebbe interessante sentire la sua anche sull’omicidio Kennedy o su Bin Laden, ma non vorrei fargli perdere troppo tempo.
Per me Cohen è stato un dio quando avevo bisogno di avere un dio e queste risposte solo un dio potrebbe darle (e del resto nella mia vita Cohen ha avuto sicuramente più importanza di Dio).
Ma c’è dell’altro. C’è questa foto sulla copertina di un disco: Death of a Ladie’s Man dove c’è lui vestito di chiaro, ha lo sguardo di uno vagamente ubriaco ed è abbracciato a due ragazze dall’aria sofisticata e le spalle scoperte. E c’è questa didascalia a fianco della foto che dice “Leonard in mezzo a Suzanne e Eva La Pierre. Foto scattata in un ristorante polinesiano da un fotografo sconosciuto”.
Sono sempre rimasto attratto da quella foto e da quelle due righe. C’è una magia dentro, un inspiegabile senso di pienezza. Credo che lo spirito di Cohen sia tutto lì. E’ come se in quell’immagine ci passasse la vita attraverso, anzi come se la vita ci si fosse rappresa e si ha la sensazione che guardandola a lungo, potrebbe sciogliersi di nuovo e la scena rianimarsi. Per me ha la stessa forza di un’immagine religiosa dentro cui posso perdermi e rigenerarmi. Una sensazione simile la provo ascoltando le sue canzoni. A volte mi rendo conto di attendere certe frasi particolari che quando arrivano illuminano tutto quello che hanno intorno, come se riuscissero a spandendersi per tutta la durata della canzone.
E’ vero che tutti gli uomini che hai conosciuto dicevano di averne abbastanza delle carte ogni volta che davi loro riparo. Conosco quel tipo di uomini. E’ difficile tenere la mano di qualcuno che cerca di raggiungere la vetta solo per arrendersi. Così comincia una delle mie preferite: The Stranger Song’, e le parole sono accompagnate da questo arpeggio di chitarra molto autunnale, che mi fa immaginare quell’ora del pomeriggio in cui sei ancora incerto se accendere la luce o meno e in mezzo alla stanza c’è questa donna che fa i conti con se stessa e non si rende conto che fuori sta diventando notte. E poi c’è questa frase che arriva, appoggiata allo stesso accordo, allo stesso arpeggio che è come un cuore che comincia a pulsare e manda vita a tutto il resto del corpo, come un quadro d’autore appeso in una stanza spoglia, che fa diventare in un attimo la stanza spoglia solo elegante sobrietà:E poi raccogliendo con la scopa le matte che lui dimenticava, hai trovato che non ti ha lasciato poi molto, nemmeno le risate.

Marco Aurelio aspettava la notte. Quando le truppe si erano addormentate e i generali erano usciti dalla sua tenda con in mano i piani di battaglia per il giorno seguente, sperduto in mezzo alla foresta, ai confini del mondo, appuntava con scrupolo i suoi pensieri sull’esistenza. E’ un’immagine che potrebbe adattarsi anche a Cohen, alla sua arte. Le opere che ha composto sembrano essere state scritte durante una tregua. La battaglia è appena terminata, ma in mezzo alla foresta il nemico è già pronto per un nuovo attacco. E’ in quest’incerto intervallo notturno che in lui sembra nascere la necessità di fissare due o tre cose, se non altro perché potrebbero essere le ultime.
Quando nel 1963 pubblica Il gioco favorito Cohen è solamente ‘uno che ci crede’, non ancora uno scrittore, né un affermato cantautore. Ha trent’anni e il romanzo che lo farà conoscere al pubblico cattura proprio questo periodo di trapasso della sua esistenza; un periodo che poi, per quello che ne so io, non tornerà più a descrivere. C’è una Montreal sonnolenta e borghese che somiglia inquietantemente a tutto quello che di sonnolento e borghese esiste al mondo, c’è una famiglia pure quella borghese, c’è l’arrapamento adolescenziale (arrapamento da cui Cohen pare non si è liberato neanche in età matura) sintetizzato in una frase stupenda: “La lussuria gli allenava lo sguardo ad escludere tutto quello che non poteva baciare” e c’è un giovane in piena mutazione che comincia a prendere le misure con le parole e gli accordi e, più in generale, con l’esistenza.
“Lui prese quella chitarra sconosciuta e l’accordò. Il giradischi venne spento e tutti avvicinarono le sedie oppure si sedettero sul folto tappeto (…) Non appena suonò il primo accordo (un La minore), fu contento di avere acconsentito a suonare. Il primo accordo, per lui, è sempre importantissimo. Cantò solo per Lisa. Cantò le canzoni della guerra civile spagnola, non come un partigiano, ma come uno storico simile a Tiresia. Cantò canzoni poco conosciute che parlavano dell’assenza (…). Più che cantare le parole, le pronunciava. Riscoprì la poesia che lo aveva soppraffatto anni prima, la facile vena che si rivela in modo spensierato e poi, prima della chiusa, colpisce nel segno. Suonò per un’ora e la musica era tutta per Lisa”.

Non so se da qualche altra parte Cohen abbia svelato in maniera più semplice e convincente gli ingredienti della sua poetica e la maniera in cui li avrebbe fatti arrivare al pubblico (a cominciare da quel La minore). A Lisa quel concerto improvvisato piacque.

Questo mi ha fatto sentire in contatto con te più di tutto quello che hai detto, gli confessa. Ti prego, vieni presto a casa nostra.
Per Cohen di lì a poco la vita sarebbe cambiata. Avrebbe cominciato a fare sul serio con le parole. Di quelle parole tanti si sarebbero nutriti. Io per primo.

 

 

Giancarlo De Cataldo, IL NUOVO
– 04/03/2002

 

Cohen, Il gioco preferito

 


Il romanzo impressiona per la brutale sincerità con cui l’autore mette a nudo se stesso seminando temi e suggestioni che caratterizzeranno ossessivamente la sua produzione.

di Giancarlo de Cataldo

Protagonista de Il gioco preferito , primo dei due soli romanzi dati alle stampe da Leonard Cohen, è Lawrence Breavman, un giovane scrittore che racconta, attraverso una catena di efficacissimi flash, il proprio personalissimo universo intessuto di ambizioni, frustrazioni, rovinose cadute e imprevedibili resurrezioni.

Come ogni adolescente, Breavman deve sperimentare sino in fondo le asperità e le delusioni dei riti di passaggio. Finché, varcata la linea d’ombra, non si riscoprirà condannato all’eterno interrogativo: valeva la pena di abbandonare tutto per un’incognita tanto seducente quanto inafferrabile. L’avventura che mi attende è davvero preferibile alla sicurezza che mi lascio alle spalle. E perché, nonostante tutto, sento questo insopprimibile impulso ad andare sempre e comunque avanti.

Riletto quarant’anni dopo, Il Gioco Preferito impressiona, oltre che per la qualità visionaria della scrittura, per la brutale sincerità con cui l’autore mette a nudo se stesso seminando temi e suggestioni che caratterizzeranno quasi ossessivamente la sua successiva produzione.

Cohen si muove da quasi cinquant’anni fra gli ambienti letterari accademici e il backstage del carrozzone pop; fra un forte impegno etico-politico e il più estenuato dandismo; fra cortili di sinagoghe, monasteri Zen e suite di grandi alberghi invase dal fumo acre degli stupefacenti. Perennemente incapace di scegliere fra l’ascesi imposta da un millenario retroterra mistico e la pelle abbronzata delle stelline di cartapesta, il suo continuo oscillare da un estremo all’altro di due visioni profondamente contrapposte dell’esistenza ne fa un esempio unico di vita vissuta e raccontata in una “presa diretta” costantemente sopra le righe.

Con una sincerità disarmante, solo mascherata di narcisistica autoironia, Cohen ci traghetta verso il cuore dell’uomo, di qualunque uomo lacerato, abbandonato, umiliato e disprezzato dal suo tempo, consegnato all’eterna impotenza davanti al gioco indecifrabile delle stelle e al silenzio di Dio.  Prescelto dalla comunità dei dolenti, Cohen si offre, moderno sciamano, in un continuo rito sacrificale dando voce ai nostri turbamenti più segreti, al nostro male oscuro e alle nostre meschine grandezze.

 

LOMBARDIA OGGI
– 16/02/2003

 

Il gioco preferito

 

Opera d’esordio di uno dei più grandi artisti contemporanei pubblicata per la prima volta nel 1963 e oggi ristampata da Fazi, Il gioco preferito di Leonard Cohen racconta le vicende del giovane Breavman sullo sfondo della Montreal del dopoguerra e di una New York magica e intatta. Coinvolgente romanzo di formazione, il libro insegue il protagonista in uno straordinario percorso alla scoperta dei turbamenti e delle paure adolescenziali e dell’irresistibile attrazione che c’è tra uomo e donna.
Come disse Cohen “Il gioco preferito non è solo un libro sull’adolescenza, è un’allegoria per un corpo perduto, perfetto (…), quello che sfugge quando diamo un bacio”.

 

URBAN
– 03/02/2003

 

La prima volta di Mister Cohen

 

 

Grande musicista e chansonnier. Ma anche grande scrittore: ecco il suo (vecchio) esordio

Corpi, corpi. Corpi da esplorare, abbracciare, dissezionare. Cicatrici, rughe, malattie terminali, animali. Però anche episodi comici (un malloppo di kleenex sotto i talloni per rialzarsi in occasione d’una festa studentesca che, ballando, si trasforma in cilicio martoriante). All’inizio del libro Leonard Cohen insiste molto sui dettagli, lobi bucati, una bambina che cade da un albero e si spezza qualche osso, le amichette da far spogliare, topi e rane da osservare, ipnotismo per padroneggiare i corpi degli altri. È molto autobiografico, questo libro d’esordio (risale al 1963) nonostante i travestimenti e le distanze che ci sono dentro: come recita la nota in copertina “dapprima poeta e romanziere, Cohen è poi passato alla musica”. Una prima raccolta di versi pubblicata ventunenne e accolta molto bene, e da lì in poi una produzione meravigliosa soprattutto in musica, ma accompagnata anche da exploit letterari (questo testo è considerato in Canada uno dei dieci romanzi più importanti del paese).
Fulminanti, dense di amore, erotismo, giovinezza, queste pagine sono da leggere al volo, come in uno di quei giri on the road che Breavman e il suo amico Krantz fanno spesso di notte, in macchina, ma anche da rileggere lentamente per apprezzarne i passo poetico, l’incedere per illuminazioni, lo scambio fra i sessi, la grandiosità sommessa.

 

Marco Denti, WWW.LETTERA.COM
– 29/01/2003

 

Il gioco preferito: autoritratto del poeta da giovane

 

Ha detto Leonard Cohen, un anno prima che Il gioco preferito vedesse la luce, nell’ottobre 1962: “Abbiamo tutti molte immagini di noi stessi. E’ sempre una sorpresa vedere quale assumiamo”. E’ attorno a questa semplice deduzione che sembra ruotare il suo esordio nel mondo della prosa. Il suo volto di bambino è solo pulviscolo nella neve esattamente come quello di Lawrence Breavman, il protagonista, in cui non è difficile, anzi, riconoscere lo stesso Leonard Cohen. E’ ovvio che il riferimento comune più esplicito è la morte del padre che conferisce ad entrambi un’aura particolare, ma è soprattutto il rincorrere la vita (attraverso la poesia, l’alcool, l’amore, il sesso), inseguendo un’innocenza che, testimone il tempo, sta inesorabilmente sfumando. C’è un verso di una delle più belle canzoni di Leonard Cohen, Hallelujah (e basta ricordare le versioni di John Cale o di Jeff Buckley) che rende benissimo il senso e l’atmosfera di tutto il libro: “Ho fatto del mio meglio; non era molto./Non sapevo percepire e così ho imparato a toccare”. Ecco: Il gioco preferito accarezza veramente quel momento crepuscolare in cui sogni e realtà (di qualsiasi età essi siano) tendono a sfumarsi gli uni negli altri, e ha tutte le ragioni Michael Ondaatje (citato nella bella postfazione di Simone Barillari) quando definisce questo romanzo un lungo poema in forma di prosa. Del resto, lo dice lo stesso, tormentato Lawrence Breavman alias Leonard Cohen: “La poesia è una cosa sporca, cruenta, rovente che all’inizio deve essere afferrata a mani nude” e quindi toccante è la definizione più logica, per questo romanzo di quarant’anni fa.

 

Alessandra Milanese , L’ARENA, IL GIORNALE DI VICENZA, BRESCIA OGGI
– 27/01/2003

 

Cohen, le avventure dell’adolescenza

 

Sempre on the road. Sempre in cammino alla ricerca di un senso che passa attraverso esperienze, soprattutto creative, ma anche di vita diverse. Il primo romanzo di Leonard Cohen, enfant prodige della poesia canadese, che ha mantenuto le promesse soprattutto come compositore di canzoni – primo romanzo pubblicato perché aveva scritto anche precedentemente -, risale al 1960 ed è proposto per la prima volta in italiano dalla casa editrice Fazi. Il gioco preferito , il titolo di uno spartito musicale che gioca sulle note dell’adolescenza e della prima giovinezza e che da già la misura del personaggio anticonformista e talentuoso, del tutto determinato a non scendere a compromessi. Quello che Cohen diventerà in seguito quando passerà attraverso droghe e sparizioni in monasteri zen, poesie, canzoni, bagni di folla, mogli e amanti, romanzi. Ma il titolo non è solo metaforico. Esiste davvero un passatempo prediletto che consiste nel farsi buttare nella neve fresca e mettere a confronto le impronte dei corpi. Perché Cohen si rifà pure all’infanzia, e sono queste le parti più riuscite, dal tono incantato e fiabesco in cui raggiunge frequenti felicità espressive.
Per il resto il romanzo è un susseguirsi di scorci non necessariamente in ordine cronologico da cui esce un giovane alter ego che ha la personalità, l’intelligenza, la versatilità e l’imprevedibilità dell’autore.
Dal bambino all’adolescente: l’amicizia con Krantz, altro ragazzino ebreo con cui si intende a volo e che è l’emblema della simbiosi adolescenziale captata nel suo gergo segreto. E poi venature che sembrano far parte di quell’ebraismo d’oltreoceano impersonificato da Woody Allen in molti suoi film (soprattutto «Radio days»), caratterizzato dalla presenza ossessiva della madre – che non tollera di non aver controllo totale sul figlio – e la carica erotica che si fa sentire dalla fanciullezza. Breavman, questo il nome del protagonista, ricorderà sempre le piccole amiche d’infanzia e, addirittura, con una avrà un rapporto in età ormai adulta che lo lascerà con l’amaro in bocca.
Non che il protagonista deva rivolgersi alle compagne di un tempo per contare su delle avventure. Nonostante la statura non imponente non gli manca, infatti, il fascino. Sa corteggiare inventando poesie sul momento e scrivendole sui tovagliolini di carta dei bar, canta accompagnandosi con la chitarra, non gli manca certo lo spirito.
Ma il capolavoro d’improvvisazione è quando chiede al cavaliere – anche lui sconosciuto – di una bellissima, notata per caso ad una mensa universitaria, di poterle esternare tutta la sua ammirazione. Inutile dire che, al prossimo incontro, la dama gli cadrà tra le braccia. Nasce un legame con l’incarnazione perfetta della «shiksa», vale dire della donna non ebraica, la «gentile» appartenente, inoltre, alla bianca borghesia americana: perfetta, fredda, e ricca, reduce da un matrimonio fallito altrettanto freddo e perfetto. Ma anche se la compagna è desiderabilissima, Breavman non riesce ad essere imbrigliato. Come non c’era riuscito con il rapporto focoso, soprattutto sul piano dei sensi, che l’aveva legato alla sensuale Tamara.
Niente sembra capace di arrestare uno spirito vivido e sempre in moto capace tuttavia di osservare e rendere acutamente ciò che gli capita davanti.
L’episodio finale del libro racconta dell’ultimo lavoro post-adolescenziale accettato da Breavman: fare da sorvegliante ad un campeggio estivo di ragazzini. Anche in questo caso il «nostro» non trascura le donne, ma il legame principale è con un bimbo ritardato, ignorato dai genitori. Sarà proprio la morte del piccolo a rimettere in moto il meccanismo di ricerca continua del protagonista. Che, senza motivo, senza darsi lui stesso un perché, abbandona campeggio e lavoro.
Ed è la fine di un periodo, di una tarda adolescenza che si è prolungata anche troppo. Ma non rappresenta la disillusione, le fine dei sogni quanto la ferma volontà di non lasciarsi andare con la corrente.

 

 

Irene Bignardi, LA REPUBBLICA
– 20/01/2003

 

Leonard Cohen e l’impossibile passaggio all’età adulta

 

I turbamenti del giovane Leonard, Leonard Cohen, sullo sfondo di una magica Montreal nel dopoguerra e della New York degli artisti e modelle. Anche se travestito sotto le trasparenti spoglie di Lawrence Breavman, suo sosia e alter ego, Leonard Cohen parla ovviamente di se stesso, della sua adolescenza, formazione, ribellione, amori, cattiverie, in un romanzo di formazione commovente e crudele, poetico e duro, sapiente e ingenuo, irritante e seducente al tempo stesso. Leonard Cohen, come ben sanno i suoi ammiratori, non è solo uno dei più grande poeti in musica del secolo appena trascorso, ma, fin dagli esordi, un poeta (la sua prima raccolta è stata pubblicata che aveva ventun anni)e scrittore riconosciuto, proprio sin da Il gioco preferito, pubblicato originariamente nel 1963 da Secker & Warburg nella collana inaugurata sei mesi prima da On the Road.
I quarant´anni che sono trascorsi dalla pubblicazione del libro -quarant´anni durante i quali Cohen è diventato un mito, una figura misteriosa e leggendaria – fanno oggi leggere il suo Bildungsroman in maniera probabilmente assai diversa da come lo si lesse allora. Più alla ricerca delle coincidenze tra Lawrence Breavman – figlio, come Cohen, di una opulenta famiglia ebraica di Montreal, orfano a dieci anni, lettore compulsivo, talento poetico e seduttore precoce, ribelle di provincia – e l´originale Cohen, più con la curiosità di capire cosa nell´infanzia e nella giovinezza dell´autore di Suzanne e di Bird on a Wire abbia prodotto il miracolo della sua poesia in musica che per il piacere di leggere uno straordinario ritratto del poeta da giovane. E invece Il gioco preferito – libro per certi versi odioso, come l´egoismo, l´arroganza, il machismo che il suo autore esibisce – è un testo squisitamente colto e letterario, toccante per le sue intuizioni e il modo di raccontare l´infanzia, straziante per l´abilità con cui mette in scena i dolori familiari, irritante, ma magico per come arpeggia sull´amore e sul sesso. C´entrerà forse anche la nostalgia per una stagione delle nostre vite più avventurosa (emotivamente e intellettualmente): ma Il gioco preferito è soprattutto il seducente libro di un poeta sul suo impossibile passaggio all´età adulta.

 

 

Marco Denti, WWW.LETTERA.IT
– 13/01/2003

 

Il gioco preferito: autoritratto del poeta da giovane

 

Nel suo esordio letterario Leonard Cohen, scrittore (soprattutto poeta e narratore) tra i più importanti songwriter della storia del rock’n’roll, trasforma un romanzo di formazione in un sottile addio autobiografico.

Ha detto Leonard Cohen, un anno prima che Il gioco preferito vedesse la luce, nell’ottobre 1962: “Abbiamo tutti molte immagini di noi stessi. E’ sempre una sorpresa vedere quale assumiamo”. E’ attorno a questa semplice deduzione che sembra ruotare il suo esordio nel mondo della prosa. Il suo volto di bambino è solo pulviscolo nella neve esattamente come quello di Lawrence Breavman, il protagonista, in cui non è difficile, anzi, riconoscere lo stesso Leonard Cohen. E’ ovvio che il riferimento comune più esplicito è la morte del padre che conferisce ad entrambi un’aura particolare, ma è soprattutto il rincorrere la vita (attraverso la poesia, l’alcool, l’amore, il sesso), inseguendo un’innocenza che, testimone il tempo, sta inesorabilmente sfumando.
C’è un verso di una delle più belle canzoni di Leonard Cohen, Hallelujah (e basta ricordare le versioni di John Cale o di Jeff Buckley) che rende benissimo il senso e l’atmosfera di tutto il libro: “Ho fatto del mio meglio; non era molto./Non sapevo percepire e così ho imparato a toccare”. Ecco: Il gioco preferito accarezza veramente quel momento crepuscolare in cui sogni e realtà (di qualsiasi età essi siano) tendono a sfumarsi gli uni negli altri, e ha tutte le ragioni Michael Ondaatje (citato nella bella postfazione di Simone Barillari) quando definisce questo romanzo un lungo poema in forma di prosa. Del resto, lo dice lo stesso, tormentato Lawrence Breavman alias Leonard Cohen: “La poesia è una cosa sporca, cruenta, rovente che all’inizio deve essere afferrata a mani nude” e quindi toccante è la definizione più logica, per questo romanzo di quarant’anni fa.

 

Marco denti, BOOKSHIGHWAY
– 01/01/2003

 

Leonard Cohen

 

Ha detto Leonard Cohen, un anno prima che Il gioco preferito vedesse la luce, nell’ottobre 1962: “Abbiamo tutti molte immagini di noi stessi. E’ sempre una sorpresa vedere quale assumiamo”. E’ attorno a questa semplice deduzione che sembra ruotare il suo esordio nel mondo della prosa. Il suo volto di bambino è solo pulviscolo nella neve esattamente come quello di Lawrence Breavman, il protagonista di Il gioco preferito in cui non è difficile, anzi, riconoscere lo stesso Leonard Cohen. E’ ovvio che il riferimento comune più esplicito è la morte del padre che conferisce ad entrambi un’aura particolare, ma è soprattutto il rincorrere la vita (attraverso la poesia, l’alcool, l’amore, il sesso) inseguendo un’innocenza che, testimone il tempo, sta inesorabilmente sfumando. C’è un verso di una delle più belle canzoni di Leonard Cohen, Hallelujah (e basta ricordare le versioni di John Cale o di Jeff Buckley) che rende benissimo il senso e l’atmosfera di tutto Il gioco preferito: “Ho fatto del mio meglio; non era molto./Non sapevo percepire e così ho imparato a toccare”. Ecco: Il gioco preferito accarezza veramente quel momento crepuscolare in cui sogni e realtà tendono a sfumarsi gli uni negli altri e ha tutte le ragioni Michael Ondaatje quando lo definisce un lungo poema in forma di prosa. Del resto, lo dice lo stesso, tormentato Lawrence Breavman alias Leonard Cohen: “La poesia è una cosa sporca, cruenta, rovente che all’inizio deve essere afferrata a mani nude” e quindi toccante è la definizione più logica per questo romanzo di quarant’anni fa.

 

V. T., L’UNITÀ
– 11/01/2003

 

Il gioco dell’amore e delle parole di carne

 

Tempo di ritorni. In libreria si chiamano ristampe. E ce ne sono tante oggi. Tra queste segnaliamo quello di Leonard Cohen, il gioco preferito(Fazi), scritto nel 1963, era ormai introvabile nella sua originaria versione Longanesi uscita nei primi Settanta; l’aveva scritto qualche anno prima del suo debutto come cantautore ed è un opera in parte autobiografica che racconta gli anni adolescenziali di Breavman, unico figlio di un’antica famiglia ebrea di Montreal. Siamo nell’immediato secondo dopoguerra. Vera iniziazione ai sentimenti e alla sessualità, l’opera rappresenta un felicissimo esempio di romanzo di formazione contemporaneo, ma è anche poesia e messa in gioco delle ansie più nascoste della sensibilità del suo autore. Lawrence è un ragazzo dotato di una immaginazione e una sensibilità fuori dal comune, e la sua vita si compone di tanti episodi di cu non riesce ad avere chiaro il senso: la morte del padre; l’amicizia e la rivalità con gli altri ragazzini, i giochi d’amore e la guerra; la propria identità umana e religiosa; gli esperimenti segreti sull’ipnotismo; l’affetto per Krantz, il suo migliore amico, con cui divide sogni e avventure.
Con gli anni il giovane Lawrence acquista una discreta fama come scrittore e decide di trasferirsi a new York, una città ancora intatta e magica, vissuta come sede della speranza e fonte di ogni possibile turbamento. Qui, in mezzo a molte difficoltà, incontrerà Shell, di cui si innamorerà in modo completamente nuovo. Per il giovane Lawrence la paura di vivere coincide con la paura di amare una donna, di esserci. Scappa, ritorna. Un copione consunto dall’uso (nella vita reale come nelle pagine del libro). Ma Cohen ha dalla sua la poesia. Una poesia carnale, concreta, che trasforma le parole in sangue e carne. In allegorie “per un corpo perduto, perfetto, pallido, impossibile, quello che sfugge quando diamo un bacio” (sono parole sue, le usò in una lettera per definire il suo lavoro narrativo). E in cicatrici: i bambini usano le cicatrici come medaglie. Gli amanti le usano come segreti da svelare. Una cicatrice è quello che succede quando la parola si fa carne” (ancora parole sue, queste le troverete nel Gioco preferito.
Il libro di Cohen è considerato in assoluto tra i dieci migliori romanzi canadesi del ‘900. Due anno dopo la sua pubblicazione Leonard Cohen esordisce come cantautore riscuotendo grande successo in Canada e in America. Da allora la sua strada è stata lunga e ricca, e la statura di Cohen è cresciuta fino a renderlo una delle figure culturali di riferimento del secondo Novecento. Un maestro.

 

Masolino D’Amico, TUTTOLIBRI – LA STAMPA
– 11/01/2003

 

Cohen, com´è erotico lo spartito dell´adolescenza

 

 

Leonard Cohen (n.1934) scrisse Il gioco preferito, il suo primo romanzo pubblicato – uno precedente non aveva trovato editori – nel 1960, quando aveva già una certa fama di enfant prodigio della poesia canadese e stava cominciando a farsene un’altra di cantautore.
Costruito mediante una serie di episodi staccati, di solito brevi, incisivi e non necessariamente in successione cronologica, il libro è il ritratto di un giovane che, più o meno come l’autore, è intelligente, eloquente, musicale, appassionato, scontento, ironico, ammiratore del gentil sesso, e perseguitato da una madre ebraica frustrata nel suo desiderio di esercitare su di lui un controllo totale.
Ma questo ritratto comporta anche la conclusione di un ciclo, o di una fase; l’occasione per voltarsi indietro a tirare le somme su di una formazione e su di una esistenza che adesso dovrà decollare. Abbiamo insomma la cronaca frammentaria di una adolescenza e di una giovinezza giunte alla svolta, e percorrendola noi lettori non possiamo ignorare che il vero Leonard Cohen non si fermò certo a questo punto, ma anzi, nei quarant’anni successivi ne combinò come si suol dire di tutte: poesie, canzoni, romanzi, mogli, figli, amanti, droghe, bagni di folla, sparizioni in monasteri zen, e chi più ne ha, più ne metta.
Di questa movimentata carriera futura Il gioco preferito contiene soltanto le premesse, ma il protagonista Breavman ci lascia pochi dubbi sulla sua carica e sul suo talento, e anche sulla sua scarsa disponibilità quanto a scendere a compromessi col mondo arido e commerciale.
Nella prima fase il nostro eroe vive in simbiosi col fraterno amico e quasi alter ego Krantz, un altro spiritoso ragazzino ebreo come lui. I due si intendono a volo, e i loro scambi veloci e allusivi colgono superbamente il gergo segreto delle alleanze tra ragazzi.
Un alone fiabesco avvolge le prime imprese dell’infanzia, che sono quelle che non muoiono e anzi ingigantiscono nella memoria – non per nulla il libro si conclude con una di queste rievocazioni, il gioco di farsi scaraventare lontano nella neve fresca e poi di mettere a confronto le impronte dei corpi caduti.
Anche i ricordi più lontani hanno una loro carica erotica, e Breavman non smetterà mai di vagheggiare le piccole amiche della sua fanciullezza. Corona, anche, il sogno antico di andare a letto con una di loro, ritrovata dopo diversi anni in veste di malmaritata; ma la conquista gli lascia un retrogusto amaro insieme con la consapevolezza di non avere raggiunto il contatto con la creatura dei suoi miti personali, bensì con una signora benportante, coi problemi di una persona adulta.
Senza contare che Breavman non è a caccia indiscriminata di avventure, non ne ha bisogno. Infatti malgrado la statura non imponente, piace a quasi tutte le ragazze che incontra per l’originalità del suo approccio: compone a braccio poesie per loro scribacchiandole sui tovaglioli di carta dei ristoranti, canta con la sua voce calda accompagnandosi sulla chitarra. Con la sensuale Tamara ha per anni un rapporto furiosamente erotico che non riesce mai a impegnarlo sul piano dei sentimenti. Su di un’altra, Shell – l’incarnazione della «shiksa» ovvero della Gentile, una perfettissima, elegantissima, fredda figlia di anglosassoni ricchi e distinti, reduce da un perfettissimo, elegantissimo, freddo matrimonio fallito – fa colpo grazie a una ispirazione: la nota in una mensa universitaria e chiede formalmente il permesso al suo accompagnatore, anch’egli a lui sconosciuto, di comunicarle la sua ammirazione sconfinata. Poi esce teatralmente; ma al prossimo incontro Shell non opporrà resistenza.
L’episodio finale del libro è occupato dall’ultimo impiego postadolescenziale di Breavman, che accetta di fare il sorvegliante a un campeggio estivo di ragazzini. Neanche qui trascura le donne, ma l’esperienza principale è l’amicizia con un bambino ritardato e ignorato dai genitori, la cui morte tragica è per Breavman un segnale – non tanto della fine della giovinezza e dei sogni, quanto della raggiunta determinazione a riscuotersi e a non accettare di lasciarsi andare con la corrente. Senza sapere nemmeno lui il perché, Breavman abbandona allora il campeggio e il lavoro, così come in precedenza ha abbandonato la pur desiderabilissima, amata e a lui legata Shell, per cercare dell’altro.
Non fermarsi: ecco la pulsione principale di una personalità irrequieta, e tuttavia capace di osservare acutamente tutto quello che le capita davanti, e di renderlo con penetrazione e frequenti felicità espressive.

 

Cesare G. Romana, IL GIORNALE
– 24/12/2002

 

Leonard Cohen, quando la poesia incontra la musica

 

Nel 1967 Leonard Cohen incontrò per la prima volta Bob Dylan. L’uno aveva ultimato cinque anni prima Il gioco preferito, suo romanzo d’esordio ora ripubblicato (Fazi editore, pagg. 286, euro 16), l’altro era il cantautore idolatrato tanto dal popolo rock quanto dai letterati, non restii a includerlo tra i maggiori poeti d’America. Un maestro, dunque, per il più anziano Cohen, anche grazie alle affinità che legavano l’ebreo canadese e l’ebreo del Minnesota: entrambi solitari, stralunati, con un retroterra che dalla Bibbia arrivava ai grandi beatnik e un culto della poesia come “musica della parola”, per dirla col Cohen di molti anni dopo.
Il che non significa ridurre la sacralità della scrittura a pura arte del suono, e Cohen, ben prima di “convertirsi” al cantautorato, lo aveva mostrato proprio col suo esordio narrativo. Quanto a Dylan lo confermò appunto nel ’67 in tarantula, libro enigmatico e tortuoso che l’autore definì “un manoscritto-incubo”, altri “un oltraggio dada alla letteratura”, e in cui il joyciano stream of consciousness sposava la prosodia jazz di kerouac, il beffardo delirio di Burroughs e l’urlo rappreso nelle litanie di Ginsberg. Modelli forse non estranei, pur in una cornice narrativa meno sfuggente, alla scrittura di Cohen.
Questo per ricordare quanto l’epoca fosse ricca di feconde irrequietezze. Ben venga dunque la riedizione de Il gioco preferito, per trent’anni assente dalle librerie italiane. Sono già qui, le radici da cui sarebbero germogliate poesie in musica come Suzanne, Bird on a wire, The famous blue raincoat, Sisters of mercy, Seems so long ago Nancy: l’intreccio di vissuto e azzardo visionario, la convivenza tra una religiosità atavica, sentita molto fisicamente come “marchio sulla pelle, acqua in cui nuotiamo”, e l’intrusione pagana, liberatoria d’una golosa carnalità.
“Non c’è niente che possa prendere da voi, se non una coscienza inquieta”: lo slogan di Tarantula ben s’attaglia al romanzo coheniano. Troppo dominato dall’inquietudine come misura del vivere, per coagularsi in una descrivibile trama, che non sia l’impervia iniziazione alla vita del giovane Breavman, ebreo canadese in cui l’autore si proietta. È un’esistenza senza picchi, la sua: protesa ad una orizzontalità di eventi spiccioli e dunque in cerca di quell’”ardua prova” da cui risorgere uomo vero, completo. Ma “ho paura di vivere in qualsiasi posto, se non nell’illusione, non amo il rischio della vita”, ammette Breavman: e con l’amico-mentore-complice Krantz, che è insieme la sua buona e cattiva coscienza, e tra un susseguirsi di amanti insieme provvisorie e definitive, sempre cioè in transito tra la realtà e la memoria, cerca il bandolo del proprio presente e del proprio futuro. Ma Montreal, dove vive, è fatta piuttosto “per conservare il passato”: il mutare degli usi, delle mode, della fisionomia urbanistica porta l’oggi a sbriciolarsi continuamente, donde la fascinazione che lega Breavman a New York, così ebbra di presente.
Neppure la religione degli avi fornisce risposte. Nel partecipare ai riti, i notabili cercano la “proiezione dei loro successi finanziari e sociali”, compiono gesti che credono eterni e in realtà “stanno morendo tra le loro mani”: agli occhi dell’ebreo Cohen, tormentato dall’utopia dell’Assoluto, i maggiorenti della sinagoga “ignorano l’arte della devozione, sono semplicemente devoti; non credono che il loro sangue sia consacrato; non sanno che la Legge è albero di vita”. E l’amore? Emblematico, tra i tanti, l’incontro con l’americana Shell: lei vive in uno straniamento fiabesco, “affronta la debolezza degli adulti senza la spietatezza dei bambini”, nella sua sognante nevrosi s’affacciano il flirt con una docente e un matrimonio mal cementato da una sessualità incompiuta. Quanto a Breavman, lui cerca nei corpi delle sue donne – e Cohen li descrive con una minuzia dolente, come occasioni godute eppure perdute – quella realizzazione di sé che non può esistere senza la linfa della parola, se il gioco dei sensi non accende la complicità d’un dialogo, o d’un progetto.

 

Alessandra Masu, GRAZIA
– 17/12/2002

 

Storia di Lawrence

 

A 40 anni dall’uscita e 30 anni dopo la prima edizione italiana, Fazi ripropone l’opera d’esordio del romanziere canadese, oggi più noto come musicista. Ma c’è molto di autobiografico in questo romanzo ambientato tra la Montreal del dopoguerra e una New York anni ’60. E Lawrence Breavman finalmente diventerà adulto.

 

Cristina Taglietti, CORRIERE DELLA SERA
– 27/12/2002

 

L’educazione sentimentale del giovane Leonard

 


Torna dopo 40 anni il romanzo d’esordio di Cohen: ritratto dell’artista prima che diventasse un cantautore

Storia di un’adolescenza possibile da Montreal a New York. Si chiama Lawrence Breavman il protagonista di Il gioco preferito, romanzo che il ventinovenne Leonard Cohen scrisse nel 1963 quando era soltanto un poeta maledetto, una “celebrità da night club” e non ancora il cantautore dalla Famous Blue Raincoat, il Capitano Mandrax sempre sull’orlo della crisi di nervi (“Hey, Captain Mandrax” gli urlarono dal pubblico durante un concerto a Londra nel 1970 per la sua nota dipendenza da un antidepressivo). Un libro che Longanesi pubblicò trent’anni fa e che adesso Fazi ripropone con la traduzione di Chiara Vatteroni e una preziosa postfazione di Simone Barillari. Il gioco preferito è una selvaggia educazione sentimentale, divisa in quattro tempi, quattro capitoli che l’editore Jack McClelland all’inizio liquidò severamente come “una prolungata e noiosissima storia d’amore di Cohen con se stesso”.
C’è molto dell’autore nel ritratto di questo figlio unico di un’antica famiglia di ebrei canadesi che scrive poesie, è appassionato di ipnotismo ed è animato dall’irresistibile forza dell’amore. “Lawrence Breavman non sono io, ma abbiamo fatto molte delle stesse cose – scrisse Cohen -. Soltanto abbiamo reagito in modi diversi e così siamo diventati uomini diversi”. Non sappiamo che uomo sarebbe diventato Lawrence Breavman, ma sappiamo che cosa c’è di Leonard Cohen nel libro: la morte del padre quando lui ha soltanto dieci anni e la conseguente fine di “un bel pezzo di vita, pieno di ottusità e oblio”, i primi approcci amorosi, la madre depressa che finisce in un ospedale psichiatrico, l’esperienza estiva in un campo scuola dove conosce un ragazzino autistico, i primi anni a New York.
Ma soprattutto c’è quell’“imperialismo delle emozioni” che l’uomo di molte donne (A ladies’ man) esercitò pur essendo fortemente tentato dall’ascesi, dal bisogno di porre una distanza con l’oggetto del desiderio, quasi per contemplarne da lontano la bellezza e poterla raccontare. Come succede con Shell, abbandonata per generare materia alla poesia (“Credo di amarti, ma amo di più l’idea di una pagina bianca”, le scrive nella lettera d’addio). D’altronde Shell altri non è che Suzanne, la protagonista della più celebre canzone di Cohen, la donna che lui non ebbe mai, limitandosi a toccare il suo corpo perfetto soltanto con la mente (“And you know that she will trust you / For you’ve touched her perfect body with your mind”).

 

Giancarlo de Cataldo, LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO
– 27/12/2002

 

Ritratto di sciamano da giovane

 

Leonard Cohen pubblicò “Il gioco preferito” nel 1963, quando non aveva ancora trent’anni ed era già un poeta affermato. Stessa età ha il protagonista del romanzo, il giovane scrittore Lawrence Breavman, che ci racconta il proprio personalissimo universo intessuto di ambizioni, frustrazioni, rovinose cadute e imprevedibili resurrezioni.
“Con questo libro” scrisse Cohen “volevo raccontare una certa società e un certo uomo, e rivelare qualcosa dall’interno della bastarda Arte della Poesia. Penso di sapere ciò di cui parlo. Autobiografia? Lawrence Breavman non sono io, ma abbiamo fatto un sacco di cose insieme. Solo che le nostre reazioni erano diverse, così siamo diventati uomini diversi”.
Come il Dedalus di Joyce, Breavman deve “vivere, errare, cadere, trionfare, morire, ricreare la vita”: in altri termini, imparare a liberarsi di ogni vincolo affettivo in nome di una nuova e più alta affettività. O di ogni legame e di ogni legge in nome di nuovi e diversi legami e di leggi più imperiose. Come ogni adolescente deve sperimentare sino in fondo le asperità e le delusioni dei riti di passaggio. Finché, varcata la linea d’ombra, non si riscoprirà condannato all’eterno interrogativo: valeva la pena di abbandonare tutto per un’incognita tanto seducente quanto inafferrabile? L’avventura che mi attende è davvero preferibile alla sicurezza che mi lascio alle spalle? E perchè, nonostante tutto, sento questo insopprimibile impulso ad andare sempre e comunque avanti?
Riletto quarant’anni dopo, “Il Gioco Preferito” impressiona, oltre che per la qualità visionaria della scrittura- forse la miglior dote del Cohen romanziere- per la sincerità, quasi brutale, con cui l’autore mette a nudo se stesso e la propria costellazione antropologica, seminando temi e suggestioni che caratterizzeranno quasi ossessivamente la sua successiva produzione.
Leonard Cohen ha sempre saputo chi era- il trovatore dotato di un talento unico; che cosa lo minacciava- un’insopprimibile, esagerata tendenza alla dissipazione; qual era la strada che gli si chiedeva di percorrere- contribuire al riscatto dell’umanità dolente con la potente energia dei suoi versi; quale il lato oscuro che lo attraeva oltre ogni misura: un prepotente desiderio, allo stesso tempo metafisico e fisicamente urgente, di abbracciare l’Eterno Femminile attraverso le sue molteplici incarnazioni nelle donne amate, possedute e gettate via, o soltanto immaginate e mai nemmeno sfiorate. Cohen si muove da quasi cinquant’anni fra gli ambienti letterari accademici e il backstage del carrozzone pop; fra un forte impegno etico-politico e il più estenuato dandismo; fra cortili di sinagoghe, monasteri Zen e suite di grandi alberghi invase dal fumo acre degli stupefacenti. Perennemente incapace di scegliere fra l’ascesi imposta da un millenario retroterra mistico e la pelle abbronzata delle stelline di cartapesta. Il suo continuo oscillare da un estremo all’altro di due visioni profondamente contrapposte dell’esistenza ne fa un esempio unico di vita vissuta e raccontata in una “presa diretta” costantemente sopra le righe. Con una sincerità disarmante che a prima vista può rendere diffidenti: dove porta, e che senso ha, ci si potrebbe chiedere, questo sfrenato narcisismo? La risposta è una e una sola: al cuore dell’uomo, di qualunque uomo lacerato, abbandonato, umiliato e disprezzato dal suo tempo, consegnato all’eterna impotenza davanti al gioco indecifrabile delle stelle e al silenzio di Dio. “Ho ascoltato ogni dissenso e ogni dolore”, ha cantato una volta Cohen, “e sarò un pazzo, ma penso di potervi guarire con questa canzone”. Prescelto dalla comunità dei dolenti, Cohen si offre, moderno sciamano, in un continuo rito sacrificale dando voce ai nostri turbamenti più segreti, al nostro male oscuro e alle nostre meschine grandezze.

 

 

Pietro Cheli, DIARIO DELLA SETTIMANA.
– 20/12/2002

 

L’infinito amore di Cohen

 

 

In due ore e mezzo di un doppio cd che raccoglie il meglio
di trentacinque anni di canzoni e nel suo romanzo d’esordio
ristampato, tutta la capacità seduttiva dell’artista canadese

Se Billy Wilder, come si confessava su queste pagine due settimane fa, è il nonno ideale per la redazione di Diario, Leonard Cohen è un cugino, o forse uno zio, al quale rivolgersi quando la vita diventa pesante senza una ragione particolare. O forse tante, troppe per essere analizzate o capite. La sua musica, le sue parole hanno la capacità di entrare nel corpo di chi ascolta non solo attraverso le orecchie, ma per ogni poro, per ogni anfratto del corpo e sedimentarsi quasi galleggiando. Provate ad ascoltarlo tenendo gli occhi chiusi e vi accorgerete che la sua voce arriva piano piano: si fa spazio con dolce malinconia come se vi prendesse per mano, come se cullasse la vostra anima dolente e avida di piaceri al tempo stesso.
C’è in tutta l’opera di questo tormentato signore canadese di 68 anni la consapevolezza di camminare su un sentiero molto stretto e scosceso in bilico tra rigore e caos, tra moderazione e sensualità, tra materialismo e ascesi. Va detto che negli ultimi anni quest’ultima ha prevalso consigliandogli di passare parecchio tempo nel ritiro buddista sul Mount Baldy, dove è noto come “Jikan” ovvero “il silenzioso”. Atmosfere rilassate e tempi dilatati all’infinito hanno tenuto a battesimo Ten New Songs, meraviglioso album con cui nell’autunno del 2001 è tornato, dopo otto anni di silenzio, a cullare le anime di nipoti, cugini e, soprattutto, fans di tutto il mondo. Il disco bellissimo e imperdibile ha addirittura fatto capolino in Italia nella classifica tra i più venduti. Quasi un’anomalia per un autore appartato come lui e al tempo stesso un segnale da leggere con entusiasmo per chi non ama le leggi del marketing, ma anche con preoccupazione perché segno di come l’alto costo dei dischi selezioni gli acquirenti e abbia fatto diventare best seller un autore di nicchia.
Nicchia che speriamo si allarghi. La maniera migliore per chi deve avvicinarlo si chiama The Essential Leonard Cohen (Columbia) doppio cd nel quale è distillata una carriera lunga 35 anni e 14 lp. Dopo il primo Best of del 1975, ecco un seducente percorso tra le sue canzoni, ballate eleganti, scarne, intense, rigorose, ma al tempo stesso cariche di eros grazie a una voce profonda che assume colorazioni e intensità nel tempo che passa dal 1968 a oggi. Da Suzanne, Sisters of Mercy che regalano la voce di un uomo giovane tormentato in conflitto con i suoi fantasmi fatti di un’educazione che lui cerca di togliersi di dosso, restandovi ovviamente incagliato. Proprio come capita a Lawrence Breavman, rampollo anch’egli di una famiglia ebraico-canadese e protagonista dell’esordio, molto autobiografico, di Cohen nella letteratura avvenuto nel 1963 con il Gioco preferito. Il romanzo, esaurito da diversi lustri nelle librerie italiane, torna oggi in una nuova traduzione firmata da Chiara Vatteroni e pubblicata dall’editore Fazi. A dominare sono i turbamenti e le paure di quei momenti che dall’adolescenza portano all’età adulta, da Montreal a New York carica di attrazioni nel quale il giovane scrittore Lawrence scopre le pulsioni, l’attrazione come motore profondo (e molto spesso incomprensibile) delle relazioni umane.

UN LUNGO PERCORSO. Sentimenti e passioni che dagli anni Sessanta a oggi hanno attraversato come masse di dolore libri e canzoni, ma anche la vita di Cohen, travolgendo a volte rischiando, di annichilire tutto. Un tutto dove il gusto agrodolce si è stemperato in pause sempre più lunghe tra un lavoro e l’altro. Come testimonia il doppio antologico nel quale la voce si modifica restando uguale. Sempre più rauca, dall’inizio del secondo disco quando Ain’t No Cure for Love seguita da Take the Waltz e First We Take Manhattan riporta al 1988 e a un tour di altissimo livello che aveva fatto tappa anche all’Orfeo di Milano. Ma sempre più sicura, ferma, seducente quando si arriva agli ultimi In My Secret Life o Alexandra Leaving.
A sentirlo tutto di fila questo doppio (calcolate 78 minuti abbondanti a disco e avrete due ore e mezza di ascolto indispensabile) viene voglia di rivederlo dal vivo, di nuovo e subito in concerto. Sembra che ci stia meditando e che dopo anni di monastero il misterioso chansonnier canadese si sia appassionato di nuovo al mondo di oggi. Che abbia ripreso a fumare e che l’inquinamento non gli dispiaccia. Vivendo, come sempre, su quel sentiero in bilico di cui si diceva, sentiero che lo porta a pendolare tra il monastero di Mount Baldy e la modernità più sfrenata. Tanti amori, alcuni infelici, sono passati e lui (il nostro cugino o zio che sia) è sempre più charmant ed elegante nell’avvolgere chi lo ascolta o lo legge con una nuvola di sentimenti irrisolti e fantasmi con cui viene sempre più a patti ogni giorno che passa. E se la sua Suzanne, o Shell contraltare femminile di Breavman in Il gioco preferito, è sempre lì pronta a fargli girare la testa, lui è pronto a perdere la medesima sapendo che alla fine dal collo non si stacca.

 

Antonella Fiori, D/LA REPUBBLICA
– 14/12/2002

 

Quattro domande a Leonard Cohen

 

Dopo l’exploit dell’anno scorso col CD di inediti Ten New Song, Leonard Cohen torna con il suo primo libro, Il gioco preferito, del 63, ripubblicato dopo 30 anni.
Cos’é per lei la scrittura? Condanna, piacere, rifugio?
Posso dire che Thomas Wolfe scriveva 30 mila parole per notte, Flaubert 3 o 4 al minuto.
Scrivere romanzi poesie, canzoni: qual é per lei la differenza,
Molto semplice. in una poesia o in un racconto puoi fermarti a rileggere. In una canzone no.
Prima di diventare cantante ha scritto romanzi lodati. Perché non ha continuato?
Con le vendite di un libro non mantieni la famiglia. Fare il musicista invece mi ha dato questa possibilità. Ho iniziato per caso. Era la metà degli anni 60. Stavo andando a Nashville e passando per New York mi sono imbattuto nella rinacita del folk. C’erano Dylan , Joan Baez…
Ha citato due miti. Che effetto fa essere un mito?
Più che un mito mi sento parte di una specia di catena. Devo molto a chi viene prima di me. Sono contento di essere uno di questi anelli, di stabilire un legame con le nuove generazioni.

 

Gianluigi Ricuperati, ALIAS/IL MANIFESTO
– 07/12/2002

 

La vetrina lirica del romanzo beat

 

L’apparenza dice che Il gioco preferito è un bellissimo romanzo di formazione; l’anedottica pop aggiunge che è il primo romanzo di Leonard Cohen; in realtà è soprattutto una cavia ideale per certe operazioni di genetica letteraria fantastica. Un ingegnere abbastanza dotato saprebbe dove impiantarlo per illuminare al meglio il suo codice profondo: ecco che l’autore nucleico di Cohen sarà Jaromil , il protagonista de La vita é altrove, uno dei romanzi più dolorosi di Mian Kundera. Ma procediamo con calma.
il gioco preferito– dato alle stampe nel 1963, sette anni dopo il suo esordio in versi e cinque anni prima di Suzanne– racconta la lunga vertigine tra adolescenza e giovinezza di lawrence Breavman da una Montreal ebraica e familiare a una New York selvaggia e be-pop, dal primo corpo femminile alla vocazione del poeta. Le pagine sono scandite da quattro “libri” divisi in brevi capitoli, lungo i quali si dipana la trasmissione del dolore, della piccola sapienza, della piccola incoscienza, ma soprattutto del’attrazione erotica, come dice con esattezza il risvolto di copertina della nuova edizione Fazi (traduzione dall’americano di Chiara Vatteroni, pp. 286, euro 16), arricchita da una postfazione di Simone Barillari. (Quest’ultima, tra le altre cose, fornisce un mirabile esempio di cronologia della vita dell’autore, grazie a cui si viene a conoscenza dell’avventura proto dannunziana di Cohen presso l’esercito di Israele in occasione della guerra del kippur – partito alla volta di Tel Aviv per arruolarsi, ha finito soltanto per mettere canzoni nei loro cannoni).
Chi svolta tra le pagine 113 e 114 incontrerà un passaggio esemplare: “la macchina che sfreccia, gli alberi, la luna e la sua luce sui campi di neve, gli accordi striduli e rassegnati della canzone: tutto è in posa perfetta per un rapido congelamento, la vetrina eterna del museo astrale”. In questo e in altri luoghi del Il gioco preferito compare l’armamento tipico del romanzo lirico in età beat: tensione ritmico-metaforica, connessioni violente, urgenza ontologica. Anche se il narratore è esterno, seppur di pochi millimetri, è Breavman l’io poetico de Il gioco preferito. Qui finisce la portata dell’esordio di Cohen e comincia un’ottima occasione per chiedersi che ruolo occupano opere come questa nella genealogia del romanzo.
La vita é altrove , ambientato nella Praga sovietica, disegna la parobola di jaromil, dapprima poeta ispirato, poi laureato e infine complice di nefandezze di regime. jaromil é l’ombra negativa di Breavman, che é l’ombra diretta di Cohen. A fare de Il gioco preferito il romanzo che jaromil non ha mai scritto é soprattutto la voce del poeta. Com’é noto il titolo originale de La vita é altrove doveva essere L’età lirica . Meglio lasciar chiarificare l’intera questione a kundera stesso: “l’aggettivo lirico non riguarda direttamente un genere letterario, la versificazione, ma é una nozione che ha le sue radici nell’esistenza… Il poeta lirico, affascinato dalla sua anima, lascia parlare il suo “io” interiore per risvegliare nel lettore gli stessi sentimenti”.
La storia del romanzo non sembra beneficiare dell’apporto lirico, basti pensare che il magnifico Rilke de I quaderni di Malte laurids brigge – uno dei sottesti de il gioco preferito – non ha mai dialogato con le grandi voci del romanzo: che per Flaubert, Musil joyce, Nabokov, non é mai stato un’espansione emotiva e decorativa dell’io ma l’esatto opposto: un megafono a rovescia, che registra le molteplicità dei piani conducendole a un sistema che diventa voce – unica, irripetibile, antilirica.

 

Maria Cristina Gurainelli, MARIE CLAIRE
– 01/10/2002

 

L’autore: Leonard Cohen

 

“Dio se era bella. Perché non doveva stare con lei? Ma aveva bisogno di stare da solo, in modo da poter sentire la sua mancanza, per acquisire una prospettiva. (…) Carissima Shell, se tu me lo lasciassi fare, ti terrei sempre a quattrocento miglia di distanza e ti scriverei belle poesie e lettere. E’ vero. Ho paura di vivere in qualsiasi posto, se non nell’illusione”.
Quando scriveva così nel romanzo d’esordio, Il gioco preferito (oggi ripubblicato da Fazi), Leonard Cohen aveva 29 anni, una carriera di cantautore da inventare, alcune personalissime idee su tre o quattro cose fondamentali tipo l’amore, il sesso, l’amicizia, l’immaginazione. Bene, rileggetelo ora. Ora che lui ha 68 anni, 12 album alle spalle e alcune idee sempre più personali su quelle stesse cose.
P.S. Mentre leggete ascoltate il suo ultimo CD (“quando la notte è lunga/mettiamo insieme i nostri cuori e andiamo/a mille baci di profondità”) e ricordatevi quel che ha detto una volta: “E’ bello ascoltare un ventenne che parla d’amore, ma se lo fa un sessantenne è stupendo”.

 

Claudio Todesco, TUTTO
– 01/11/2002

 

Il gioco preferito

 

All’inizio degli anni 60, Leonard Cohen si trasferì con una macchina per scrivere e poco altro in un’isoletta greca. Non era solo: l’isola di Hydra accoglieva una folta comunità di artisti in cerca d’ispirazione, oppio e “fumo”. Qui, Cohen affrontò la stesura del suo primo romanzo, Il gioco preferito, che oggi torna nelle librerie italiane dopo 20 anni d’assenza. Alternando momenti di romanticismo ad altri gustosamente ironici, Cohen lo ha costruito come una lunghissima poesia in versi liberi. Che ricorda, come spiega Simone P.Barillari nella bella postfazione di quest’edizione, la sequenza di fotogrammi di un film. Guai a considerarlo lo sfizio letterario di un cantante: nella vita di Cohen, infatti, la canzone sarebbe arrivata solo in un secondo tempo. Il gioco preferito è piuttosto una “biografia possibile”, un’ipotesi letteraria avanzata su dati di realtà. Si narrano gli anni di gioventù di un certo Lawrence Breavman (ebreo di Montreal, che tanto assomiglia al giovane Cohen…) attraverso varie fasi: la morte del padre, l’inevitabile rapporto con la religione, le prime rivelazioni sessuali, i giochi amorosi, gli echi assordanti della guerra, la passione per l’ipnosi. E, infine, la scoperta della poesia, quasi un’epifania. Un romanzo che, a 39 anni dalla prima pubblicazione, è ancora capace di affascinare.

 

Simone Barillari, LA GAZZETTA POLITICA
– 29/11/2002

 

Il Gioco Preferito

 

A nove anni e mezzo, una notte di gennaio in cui aveva appena smesso di nevicare, Leonard Cohen prese dall’armadio il cravattino da cerimonia di suo padre e lo strappò, cucì all’interno un foglietto dove aveva annotato dei pensieri e andò a seppellirlo sotto la neve nel retro del giardino di casa sua, a Montréal. La mattina del giorno prima, affacciandosi alla camera mortuaria, era riuscito a vedere il viso di suo padre oltre il bordo della bara aperta. La privazione è madre della poesia. Questo dirà anni dopo Breavman in Il gioco preferito, scritto quando ancora non era stata scritta nessuna canzone: storia di formazione di un artista attraverso l’amicizia e due opposti amori. “Lawrence Breavman non sono io, ma abbiamo fatto molte delle stesse cose. Solo abbiamo reagito in modi diversi, e così siamo diventati uomini diversi”, rispose Cohen al suo editore che in una lettera dell’ottobre 1960 chiedeva quanto di autobiografico ci fosse nel romanzo, pubblicato poi tre anni più tardi alla fine di molte rielaborazioni.
Leonard Cohen avrebbe scritto di sé come di qualcun altro che era anche Leonard Cohen: è successo, ma è una bugia, dice nel Gioco preferito. appena uscito in Italia per Fazi Editore, una bugia attendibile. Fin da quel libro, mescolato in prima persona di sé e dei suoi amori, Cohen ha tentato differenti autobiografie, reali o immaginarie, plausibili, smisurate o ancora attese. “La mia più grande esigenza è di essere interessante a me stesso”. E infatti, dopo un solo libro di poesie, stampato a tiratura minima per la casa editrice dell’università pochi mesi prima del suo ventiduesimo compleanno, Leonard Cohen si era già procurato o aveva ricevuto fama di poeta maledetto, quando ancora un poeta maledetto poteva essere anche una “celebrità da nightclub”. Coltivava con alterni risultati una passione per l’ipnotismo, conosciuto attraverso il padre di una sua fidanzata e il basilare trattato di M. Young del 1899, 25 Lessons in Hypnotism. E ogni estate, nell’Ontario settentrionale, organizzava gare di haiku tra i ragazzini del campo-scuola, dove conobbe un bambino autistico, e in barca remava al ritmo dei versi di Keats. Era stato molto presto – malgrado la bassa statura, malgrado un naso ingombrante, malgrado o forse grazie alla sua disperazione – un uomo di molte donne: a ladies’ man, come si definì in un disco famoso dove ironizzava sulla sua morte.
L’educazione sentimentale Nel romanzo trasportò tutto questo, insieme ai due amori che avevano segnato la sua giovinezza e molte piccole apocalissi nella severa famiglia Cohen, che occupava la terza fila nella principale sinagoga della città. Ci fu innanzitutto una certa Freda Guttmann, studentessa di una scuola d’arte e sua prima amante assidua, che disegnò poi le illustrazioni e la copertina della raccolta Let Us Compare Mythologies: alla perfezione delle sue cosce venne dedicata la poesia The Fly. Ad Anne Sherman, invece, incontrata e amata a New York, venne dedicata questa lettera poco prima che Cohen partisse per un viaggio in Grecia, invitandola ad andare con lui: “Ti auguro buon appetito, un sonno sereno, Buona Pasqua, una facile Quaresima, ciao, bel tempo, nuove poesie, tv intelligente. Sii nobile, fredda, selvaggia. Ti sollecito a unirti a me nelle mie celebrazioni”. Lei aveva appena divorziato, e, come lui le disse possedeva una grazia durevole, disciplinata, atletica: ma nel romanzo, prestare a Shell l’intero destino di Anne Sherman avrebbe significato immaginare scene da un matrimonio con un facoltoso ristoratore di New York.
Una risposta alle donne Sull’isola greca di Hydra, nella primavera del 1961, Cohen si innamorò presto di Marianne Ihlsen, e sei anni dopo certificò la fine della loro storia con una delle sue canzoni più belle: So long, Marianne. Da lei, disse una volta Cohen, si lasciava chiedere capolavori in un modo “morbido e buffo e molto più sottile di quando lei si rendesse conto”. Quasi tutte le opere di Cohen, d’altronde, sarebbero nate in qualche modo in risposta a una donna. Forse per questo, lui stesso si mostrò sempre gentilmente restio a stabilire corrispondenze esatte tra le sue opere e la materia da cui erano nate. Come anche per una certa reticenza a dire di sé più di quanto potesse essere difeso dall’alibi delle convenzioni di un artista davanti alla sua vita.
C’è un profilo di Cohen sul frontespizio della sua biografia ufficiale e ce n’è uno anche sul retro, e distendendo la copertina, le due metà di Cohen sono una di fronte all’altra e sembrano completarsi in un volto, entrambe a occhi chiusi e con una traccia di sorriso: sono invece tutte e due il suo profilo sinistro, il secondo visto allo specchio. Sulla terrazza della casa di Hydra, intanto, davanti a solenni duelli di colori primari e alla gardenia che ogni mattina Marianne metteva sul suo tavolo, si compiva in un solo lustro la carriera del Cohen romanziere. Al Gioco preferito seguì Belli e perdenti: quando scriveva, Cohen giurò di poter sentire “le molecole danzare nelle montagne”. Osservava inoltre lo shabbat ed esplorava l’hashish come due condizioni per attrarre su di sé la purezza. “Qui il mio stile si è purgato dalle insincerità gotiche sotto l’influenza di montagne vuote e di una compagna che apprezza l’inglese semplice”. E anche, in una poesia, “ho levigato la lingua contro una luna di pomice”.
I suoi romanzi, ha detto Michael Ondaatje, sono lunghi poemi in prosa. Rispetto alle raccolte in versi del passato, hanno però la nuova virtù dell’autoironia. “È difficile essere un poeta maledetto quando hai una bella abbronzatura”, scrisse a un amico. Presto si rivelò difficile anche solo continuare a essere un poeta. Leonard Cohen non fece mai mistero del fatto che furono innanzitutto problemi economici a spingerlo verso la carriera del cantautore, e al contempo non si preoccupò mai di smentire che la decisione sopraggiunse dopo aver sentito a una festa Highway 61 revisited di Bob Dylan. Lasciò allora Montreal diretto a Nashville, patria americana del country, facendo una tappa di due anni a New York. Lì abitò alberghi di grandezza decaduta, l’Henry Hudson Hotel e poi il Chelsea e il Royalton, popolati da tossicomani e falliti, da Joan Baez, Jimi Hendrix, Kris Kristofferson e da Janis Joplin. Una sera gli si avvicinò Janis Joplin chiedendogli se lui non fosse per caso Kris Kristofferson. Cohen annuì, e di lì a poco iniziò tra loro la storia d’amore che è raccontata in Chelsea Hotel # 2. Mesi dopo al La Dom, il club di Andy Warhol sulla 8th Street, Cohen vide cantare una “perfetta regina ariana di ghiaccio”: da quella notte, per anni e inutilmente, Cohen tentò di sedurre Nico, che presto diventerà la voce dei Velvet Underground. Take this Longing è per lei, che però, pur avendola più volte eseguita, non la inserì mai nei suoi dischi.
La prima incisione In un giorno d’autunno, Cohen convinse infine Judy Collins a registrare Suzanne nell’album In My Life cantandogliela al telefono: è il suo primo pezzo a essere inciso: anno 1967. Il suo nuovo mestiere gli sembrò probabilmente una semplice variazione di quello che aveva accantonato: a quindici anni aveva imparato insieme la poesia di Lorca e la chitarra, e si deve forse a questo la convinzione, più volte ribadita da Cohen, che esista un’invisibile spartito su cui è scritto ogni suo romanzo o poesia. L’anno successivo la Columbia, dopo molte riluttanze, accettò di produrre Songs of Leonard Cohen. Spaesato negli studi di registrazione, Cohen chiese di suonare al buio, con poche candele, odore d’incenso e uno specchio in cui osservarsi mentre cantava, per riavere la sensazione di essere nella sua stanza. Come aveva già fatto e avrebbe continuato a fare, Cohen non firmò mai alcun contratto, con la conseguenza di essere poi costretto a riacquistare a caro prezzo, negli anni Ottanta, i diritti dei suoi pezzi più celebri. Intanto, però, sulla soglia di un altro ascensore, Cohen si era presentato alla diciannovenne Suzanne Elrod, che sarebbe diventata sua moglie e la madre dei suoi due figli. Ironia sottile della sorte, non è però lei l’ispiratrice di Suzanne: la più celebre canzone di Cohen si deve a una donna che lui non ebbe mai. A quell’album ne seguirono altri nove originali, tra i quali alcuni che Leonard Cohen ha impedito fossero dimenticati: Songs of Love and Hate, Songs from a Room (che contiene Bird on the Wire, una delle sue canzoni più belle: dopo averla ascoltata, Kris Kristofferson decise che i primi tre versi sarebbero diventati un giorno l’epitaffio sulla sua tomba), Various Positions, The Future. Solo i primi furono sostenuti da esibizioni in concerto, che sarebbero state sempre tanto rare quanto memorabili. Durante il suo primo tour, Cohen salutò la folla tedesca di Amburgo con un ‘Sieg Heil!’ a braccio teso.
A Londra Captain Mandrax, com’era stato soprannominato per la sua dipendenza da un noto antidepressivo, venne chiamato a suonare alla Royal Albert Hall, e all’Isola di Wight, alle 4 del mattino del 31 aprile, salì sul palco subito dopo Jimi Hendrix, ottenendo alla fine l’ovazione di trecentomila persone. Quella notte la sua band si guadagnò l’appellativo di The Army, l’esercito. A Gerusalemme, nel 1972, Cohen abbandonò il palcoscenico, stremato dalle droghe e dalla responsabilità che sentiva davanti a quel pubblico. Convinto a rientrare, suonò per il resto del concerto piangendo, e presto l’intera folla finì per unirsi alle sue lacrime. Come a volte accade, gran parte di tutto quello che dovrebbe essere detto su di lui venne riassunto con la mira perentoria di certi slogan nella fascetta che accompagnava l’edizione canadese del Gioco preferito. La fascetta (a firma peraltro di Irving Layton, poeta e solido bevitore amico di Cohen) riportava la seguente frase: “Leonard Cohen è un uomo che seduce le donne con le parole, e viceversa”. Nel senso incorrotto in cui Cohen li ha intesi, l’amante e l’artista sono le categorie parallele e complementari dell’assoluto. Sono la luminosa schizofrenia dei santi, dove un santo è, come si legge in Belli e perdenti, qualcuno che abbia realizzato una remota possibilità umana, e che sia in qualche modo entrato in contatto con l’energia dell’amore. Nella loro forma più alta, l’amante e l’artista sono metafisiche rivali, e Cohen è sempre stato un artista minacciato dal nirvana, e dalla tentazione dei deserti: la tensione dell’ascesi senza il talento dell’estasi. In lui, l’amante e l’artista sono stati duellanti inestinguibili, gelosi l’uno dell’altro, e hanno perseguito opposte eternità: l’una nell’annullamento di sé, l’altra nella moltiplicazione. Da ormai dieci anni, nel corso dei quali ha inciso un solo disco e non ha mai suonato in pubblico, Leonard Cohen continua a trascorrere gran parte del tempo nel monastero zen di Mount Baldy, dove il suo nome è Jikan, il Silenzioso.

 

Giuseppe Videtti, MUSICA! – LA REPUBBLICA
– 28/11/2002

 

Cohen, l’uomo che voleva amare

 

“Non aveva mai visto una donna così nuda. Fece correre la mano lungo tutto il corpo di lei. Era stupefatto, felice e spaventato di fronte a tutte le autorità spirituali dell’universo. Non riusciva a togliersi dalla mente che stava celebrando una messa nera. I seni erano stranamente piatti perché era distesa sulla schiena. Il monticello del suo delta fu una sorpresa e lui vi posò sopra le mani a coppa con meraviglia. Le percorse il corpo con mani tremanti simili a rilevatori di mine. Poi si mise di nuovo seduto a guardare, come Cortez sul suo nuovo oceano”. Nel 1963, quando riempiva pagine con la sua Smith & Wesson meccanica e scribacchiava continuamente appunti ovunque, Leonard Cohen aveva 29 anni, viveva a Montreal e aveva appena iniziato la sua personale forma di psicoterapia per togliersi di dosso l’educazione ebraica e prendere confidenza con i suoi fantasmi.
Il gioco preferito, che dal 29 novembre torna in libreria edito da Fazi nella nuova traduzione di Chiara Vatteroni, è il suo primo romanzo, ormai introvabile nell’originaria versione Longanesi del 1975. Scritto qualche anno dopo il debutto di Cohen come cantautore, Il gioco preferito è un’opera in parte autobiografica che racconta l’adolescenza di Lawrence Breavman, unico figlio di un’antica famiglia ebrea di Montreal che, acquistata una discreta fama come scrittore, decide di trasferirsi a New York. Qui, immerso in mille difficoltà, incontra Shell, di cui si innamora in un modo per lui completamente nuovo.
Il gioco preferito non è solo un libro sull’adolescenza, è un’allegoria per un corpo perduto, perfetto, pallido, impossibile, quello che sfugge quando diamo un bacio” scriveva Cohen in una lettera, parlando del suo esordio come narratore. Chi ha più familiarità con le canzoni dell’artista canadese non farà fatica a riconoscere in Shell, ”una ragazza che si è fatta fare i buchi alle orecchie per mettersi lunghi orecchini di filigrana. I fori si sono infettati e adesso lei ha una piccola cicatrice su ciascun lobo. Lui le ha scoperte sotto i suoi capelli”, la stessadonna che ispirò le liriche della leggendaria Suzanne, uno dei primi grandi successi di Cohen cantautore.
Come annotò T.F.Rigelhof sul Globe and Mail, “Shell tocca il corpo di Lawrence col suo pensiero, esattamente come Suzanne quello dei suoi uomini”. Il corpo della santa-puttana (la bellezza, come scriveva Genet, giace in fondo a un letto di turpitudine) è un’immagine ricorrente nella poetica del canadese. Insieme a una sensualità senza sesso, che qui culmina in un rapporto sessuale con Shell ipnotizzata che ha la stessa intensa, palpabile carnalità della scena di Belli e perdenti (il romanzo del 1966) in cui il protagonista guarda in uno stato quasi autoipnotico, affascinato ed eccitato, il suo miglior amico che si masturba gloriosamente mentre guida l’automobile in una strada di campagna ad altissima velocità.
Tutta l’esistenza dell’artista 68enne, d’altronde, è in bilico tra disciplina e sregolatezza, cupidigia e astinenza, voluttà e ascetismo. Nel suo primo periodo americano, quando lascia Montreal alla volta di Nashville, deciso a diventar cantautore (fuHighway 61 revisited di Dylan a far scoppiare la scintilla più che le prime composizioni interpretate dall’amica-amante Judy Collins), Cohen prende a bastonate il professore che si è impadronito di lui a colpi di rock’n’roll.
Si stabilisce al Chelsea Hotel di New York, incontra Janis Joplin, stabilisce con lei una morbosa complicità carnale, cerca di sedurre l’algida Nico (la musa dei Velvet Underground, l’unica preda che non finirà mai nel suo paniere), flirta pericolosamente con la conterranea Joni Mitchell, prima d’incontrare, nel 1969, la madre dei suoi due figli, che, ironia della sorte, si chiama Suzanne (Elrod). La incontra nell’ascensore del Plaza Hotel, dov’era andato ad assistere a un seminario di Scientology (la setta che poi abbandonerà). Continuerà a vagabondare, come Dylan, alla ricerca di una religione che gli dia più conforto del Mandrax (l’antidepressivo che ingoiava spesso e volentieri, al punto che gli inglesi, durante un concerto a Londra, gli gridarono: “Hey, Mister Mandrax!”). La trova, non la trova. La prende, poi la lascia.

E adesso, che dopo i due anni di ritiro buddista sul Monte Baldy è tornato a fumare e ad amare l’inquinamento che lo circonda, forse ha deciso: non più bello come una volta, ma nemmeno così perdente. A 68 anni si può fare.

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