Zoë Jenny

Il richiamo della conchiglia

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Collana:
Numero collana:
58
Pagine:
104
Codice ISBN:
9788881123605
Prezzo cartaceo:
€ 6,00
Data pubblicazione:
06-09-2002

Traduzione di Bice Rinaldi

Una mattina Eliza lascia la città insieme alla madre, che la porta a casa della nonna, in campagna, e poi scompare per sempre. La nonna Augusta vive appartata da tutti e con lei Eliza conosce un mondo diverso, un mondo felice. Augusta però muore all’improvviso ed Eliza, rimasta sola ancora una volta, viene accolta in un orfanotrofio e si chiude in un mutismo ostinato. Della nonna le resta soltanto una grande conchiglia. Un giorno, inaspettatamente, i Rosenberg, una famiglia benestante, decidono di adottarla e la conducono nella loro casa sulla collina. Nella ricca casa dei Rosenberg però Eliza trova solo alienazione e vuoto, e insieme a George, figlio della coppia, cerca disperatamente nella fuga una via d’uscita a una realtà fatta di ipocrisia e indifferenza. Con sé porta la conchiglia della nonna. Il suo richiamo è il richiamo dell’affetto autentico, la voce della propria anima sensibile in un mondo squallido e inconsistente. Secondo romanzo di Zoë Jenny, narrato in terza persona in uno stile personalissimo, essenziale e poetico, Il richiamo della conchiglia è un appassionato viaggio attraverso le paure e i sogni di una generazione, a cui la scrittrice appartiene, che non si riconosce nei propri padri e vive un profondo disagio esistenziale. È anche una suggestiva riscrittura della tragedia greca in chiave contemporanea e conferma la maturità e il talento di questa giovane autrice.

IL RICHIAMO DELLA CONCHIGLIA – RECENSIONI

Liliana Rampello, VIA DOGANA
– 01/12/2002

 

Il richiamo della Conchiglia

 

Leggendo la ventottenne svizzera Zoe Jenny viene da chiedersi dove sono mai le madri, dentro all’universo dei suoi due romanzi, La stanza del polline (Fazi 2001) e Il richiamo della conchiglia (Fazi 2002). Nel primo Jo, la protagonista, si sbatte tra un’infanzia vissuta con il padre e il desiderio di riprendersi la madre a 12 anni dall’abbandono fino a ritrovarsi tra due mondi entrambi estranei e muti, tinti del nero scuro dell’impossibile comunicazione, in cui la solitudine di questa adolescente diventa il segno di una maturità affrettata e livida, che la lascia nel vuoto della sua formazione, in valigia solo “le scarpe blu da bambina che aveva comprato per me dieci anni prima ma non mi aveva mai spedito”; nel secondo il ritorno del tema dell’assenza di parola si materializza per la piccola protagonista in una grossa conchiglia. Eliza infatti, che la madre lascia come un pacco dalla nonna Augusta e che, morta lei, viene spedita in orfanotrofio, decide di non parlare più, di mantenere come unica comunicazione la conchiglia della nonna, dentro cui soffia come fosse una tromba. Dall’orfanotrofio a una nuova, ricca famiglia adottiva, ma la cronaca laconica dei giorni non cambia se non per la morbosità del rapporto con il patrigno e i vagabondaggi con il fratellastro George, schiacciato dal suo Edipo. Ancora disperazione. E assenze colpevoli, che lasciano, per la lucidità della rappresentazione, una vera inquietudine.

URSULA DE GASPARI, ROCKERILLA
– 01/10/2002

 

Il richiamo della conchiglia

 

La scrittura si insinua un poco alla volta nella carne come un dardo, come un male silenzioso che coglie all’improvviso, alla sorpresa. Parte in sordina, sotto tono e, all’improvviso, inscena un evento sorprendente che cambierà tutto. Riesce in poche parole a riprodurre la stessa sensazione dello squarcio temporale che si prova quando si prospetta ai nostri occhi un evento inaspettato. Capita di rileggere più e più volte la stessa frase strabuzzando gli occhi: possibile che intendesse dire veramente quello che troviamo scritto? La protagonista è stata abbandonata veramente dalla madre? Possibile che il padre adottivo abbia veramente commesso quello che ci appare dal racconto? Cosa ha combinato il fratellastro a sua madre? L’irreparabile? L’indicibile? La sua testimonianza è infatti talmente fredda che gli eventi narrati lasciano il lettore disarmato. E’ una cronistoria epurata, un telegramma ripulito dai fronzoli. E’ molto teatrale, con cambi di scena repentini, molto vicini, e mi dispiace dirlo, alla nostra vita di ogni giorno. Per pudore mentre si legge si tende a sottovalutare, credendo in una terribile incomprensione. Solitudini, silenzi, egoismi, vite parallele, incesto, emarginazione, si incrociano senza mai generare un giudizio o una qual si voglia presa di posizione. La vita va, con o senza di noi, sembra dire l’autrice. La protagonista Eliza, viene dal nulla e si lascia trasportare dal flusso della vita con molta filosofia ma senza opporre resistenza, come un vascello privo di ormeggi, felice di esserlo. L’unico punto fermo resta la conchiglia già appartenuta alla nonna eccentrica e fumatrice di pipa. Eliza soffiandoci dentro, per un istante, coglie l’attenzione di tutti, anche la nostra.

 

Paola Emilia Cicerone, CORRIERE DEL TICINO
– 19/09/2002

 

“La famiglia è il centro del mondo”

 


“E’ bello essere letta e amata da tante persone, specialmente giovani. Anche se i miei libri sono forse apprezzati più all’estero che in patria: forse vorrebbero che scrivessi storie più rassicuranti, che parlano di montagne e prati verdi…”. 28 anni, svizzera di Basilea, Zoë Jenny è un caso letterario, e un personaggio scomodo: un primo romanzo – La stanza del polline – tradotto in 24 lingue, una raffica di ristampe, critici entusiasti che per definire la sua scrittura hanno scomodato nomi illustri come quello di J.D. Salinger e Dürrenmatt. E lei, figlia di un piccolo editore che è riuscita a dedicarsi alla narrativa a tempo pieno abbandonando una serie infinita di lavori temporanei e poco gratificanti, si è già fatta la fama di autrice timida, quasi scorbutica, capace di liquidare come “grossolane” le recensioni più entusiaste, e di respingere qualsiasi tentativo di capire da dove nasca la sua prosa amara e puntuale.
Zoë Jenny arriva a Milano mentre in Germania è appena uscito il suo terzo romanzo, – cupa storia d’amore sullo sfondo dei conflitti razziali turco tedeschi – per presentare il secondo, Il richiamo della conchiglia (Fazi editore) con la bella traduzione in italiano di Bice Rinaldi.
Anche questa, come La stanza del polline, è una storia di giovani: la protagonista è Eliza, abbandonata dalla madre della nonna, tenta di costruirsi un’identità lottando contro le nevrosi di una famiglia adottiva anaffettiva e ipocrita. Anche qui c’è una madre che scompare fin dalle prime pagine, come quella de La stanza del polline, assente fin dal folgorante attacco: “Quando mia madre se ne andò, in un’altra casa, a qualche isolato di distanza…”. “Però in quel caso la madre ricompare ed è una figura fondamentale per lo svolgimento della storia, qui invece è solo un’apparizione fugace e la figura centrale è semmai quella della nonna”, precisa la scrittrice.
Si tratta sempre, comunque, di una figura familiare “Perché la famiglia è il centro del mondo, il luogo dove si concentrano i conflitti tra gli esseri umani, le catastrofi e le speranze…”.
Soprattutto le catastrofi, a giudicare dalle storie scarne e dolorose raccontate dalla Jenny: “La letteratura non deve mentire: racconto quello che succede nella famiglia come nella realtà che ci circonda. E i miei personaggi cercano di riscattarsi dai traumi che segnano la loro infanzia”.
Forse è un riferimento autobiografico, ma la scrittrice non si sbilancia: “In un certo senso tutti i romanzi lo sono: cerco di immaginare dei conflitti che non ho necessariamente vissuto”.
A segnare il distacco la storia è raccontata in terza persona: “Sto cercando di evolvermi, o almeno spero”, sorride timidamente Zoë Jenny: “Raccontare una storia da una diversa angolazione è un passo di questo processo”. Un lavoro faticoso – “scrittura vuol dire lavoro e disciplina: la mia giornata ideale è quella in cui riesco a rimanere 7/8 ore alla scrivania” – per raccontare storie che si concludono in un centinaio di pagine. Quasi racconti lunghi, come quelli che la Jenny sta completando e che costituiranno il suo prossimo libro: “Non scriverei mai un romanzo di 500 pagine: l’importante non è spiegare, ma descrivere, lasciando libero il lettore di fornire le proprie interpretazioni a piacere”. Anche per questo le sue storie sono collocate spesso al di fuori dallo spazio e dal tempo: “Preferisco concentrarmi sui rapporti tra i personaggi, evitando qualunque elemento che possa distrarre il lettore”, spiega la scrittrice: “Anche nel terzo elemento, il fatto che la storia sia ambientata a Berlino si intuisce senza che sia mai detto esplicitamente”.
Zoë Jenny non ama etichettare il suo lavoro, ora però sembra ammorbidirsi: “Se gli altri sentono la necessità di definirmi una scrittrice generazionale ci sarà pure qualche motivo: è vero che i miei libri girano nelle scuole, nelle Università, e che alle presentazioni ci sono tanti ragazzi…”.
Nel futuro di Zoë c’è molto lavoro, forse un trasferimento: “La Svizzera mi sta un po’ stretta, ho vissuto un periodo a New York e lì è veramente tutta un’altra cosa…”. Un giudizio severo, che però riguarda soprattutto Basilea: “Preferisco la Svizzera italiana. Da bambina vivevo in Ticino – mio padre stava lì per motivi di lavoro – e ne ho veramente un bel ricordo”.

Manuela La Ferla, LA STAMPA
– 18/10/2002

 

ORFEO, EURIDICE E LA CONCHIGLIA DEI SENTIMENTI DA DIFENDERE

 

Zoë Jenny ha ventisei anni, è figlia di un piccolo editore e vive a Basilea. Il suo primo libro: “La stanza del polline” (Fazi 2001), tradotto in ventiquattro paesi, si è rivelato uno dei casi editoriali più significativi della recente letteratura contemporanea di lingua tedesca. Ma anche se ciò non fosse, questo suo secondo testo varrebbe comunque la pena di essere letto. Perché fa quello che in genere dovrebbe fare la buona narrativa: parlare in modo semplice di tematiche complesse, riuscendo senza troppi artifici a veicolare emozioni.
La storia inizia con un trasloco e finisce con una valigia depositata al centro di una stanza. Non aspettatevi però un racconto di movimento, anzi si tratta di un intreccio piuttosto statico, dove le cose che contano si trasformano in parole rarefatte, distillate con parsimonia per tentare un contatto con il mondo. Volendo definirlo si potrebbe dire che è un libro sulla comunicazione negata. Su ciò che riusciamo a trasmettere a chi amiamo e su ciò che invece non ci è dato esprimere, perché – come nella metafora di Orfeo e di Euridice – pronunciare la parola che deve essere taciuta può equivalere a perdere tutto e per sempre.
Amuleto onnipresente dell’intero racconto è una conchiglia raccolta tra le povere cose della nonna amatissima che muore prima che la vicenda narrativa s’inizi, lasciando la giovane protagonista a gestire un vuoto altrimenti incolmabile. Con frasi brevi e toni delicati, la Jenny sfiora temi duri, scottanti e problematici. La terribile tristezza di un orfanotrofio dove i bimbi vengono scelti su un catalogo. Coppie che vivono un’inquietante minuetto borghese fingendo un legame inesistente. Un figlio sedotto con malizia e poi scacciato. Una donna: stilista di moda, dedita alla carriera. Un uomo, suo marito: studioso di logopedia, fragile e imploso, che riversa la propria inettitudine in malattia dei sensi e della mente coinvolgendo la figlia adottiva in un incesto vissuto con una superficialità che raggela e indigna. Siamo sul filo della pedofilia, in territori cupi e nefasti che è difficilissimo toccare andando dritti al cuore del problema. Però – ed è qui la grandezza dell’autrice – nel testo vi accorgerete che non c’è una sola parola di troppo sull’argomento. Il giudizio rimane come sospeso: il dramma si compie ma non viene rappresentato.
Sembra una tragedia vittoriana invece è una storia moderna e veloce, dove i giovani scontano le paure dei padri e si chiudono in se stessi come animali impauriti, trovando sicurezza solo all’interno del loro scombiccherato gruppo di amici. Unica certezza in un mondo che appare – e in effetti è – un manicheo gioco delle parti. Per questo, alla fine “Parlare non era più necesssario” e il silenzio diventa l’unico modo concesso per testimoniare la bellezza dei propri sentimenti, incredibilmente intatti nonostante la realtà.

Pasquale Bottone, WWW.LIBRERIE.IT
– 21/10/2002

 

Il richiamo della conchiglia

 

Zoe Jenny nei paesi di lingua tedesca, pur essendo ancora molto giovane, vende libri come il pane. In Italia Fazi aveva già dato alle stampe il suo romanzo d’esordio, La Stanza del polline; ora la casa editrice pubblica anche questo suo ultimo Il richiamo della conchiglia. Un romanzo tenero e malinconico, ricco di immagini semplici e delicate, dall’ambientazione itinerante che segue le vicissitudini della protagonista Eliza, abbandonata dalla famiglia, affidata alla nonna e poi, alla scomparsa di quest’ultima, preda di solitudine e sofferenza. Erano belli i tempi in cui Elisa scendeva a valle di giorno per poi venir chiamata a casa dal suono tipico e forte creato dal soffice soffio in una conchiglia, “strumento” caratteristicamente suonato dall’anziana donna.

Il richiamo della conchiglia offre anche un po’ il quadro di ultime generazioni vittime della solitudine, ma si segnala soprattutto per la liricità del suo linguaggio, per la piacevolezza della scrittura, per la limpidezza dei ritratti in esso tratteggiati.

 

Marta Cervino, IL SOLE 24 ORE
– 29/09/2002

 

Una conchiglia per raccontarsi

 

Che cos’è per la piccola Eliza Il richiamo della conchiglia? Si deve partire proprio da qui, dal titolo dell’ultimo libro della ventottenne Zoe Jenny – autrice svizzera alla sua seconda prova con la narrativa dopo il successo di La stanza del polline – per risalire gli affluenti della memoria e tessere la storia di Eliza, la protagonista del romanzo.
Perché quella “conchiglia bianca” con riflessi madreperlati, ricevuta in eredità dalla nonna Augusta che si occupa di lei dopo l’abbandono della madre, funge da leitmotiv, da oggetto del ricordo, da simbolo sul quale proiettare le eredità del passato e i sogni del futuro. La scrittura di Zoe Jenny è laconica, essenziale, asciutta e molto cinematografica. Non descrive, racconta. E racconta storie di dolori e abbandoni, della nuova condizione di Eliza con i genitori adottivi, i coniugi Rosenberg – lui medico logopedista, lei stilista affermata – narrando un universo popolato di solitudini e silenzi in cui troneggiano le stanze vuote e l’estraneità totale di tutti i protagonisti.

La conchiglia non è solo una metafora affettiva, è anche l’altra voce di Eliza, l’unica udibile per buona parte del romanzo perché lei, che ha scelto il silenzio dopo la morte della nonna, al silenzio ritorna, compiendo quella parabola discendente che la accomuna agli altri personaggi. E nel silenzio, assurto a grembo materno e protettivo – dopo aver amato il patrigno, dopo essere fuggita con il fratellastro George (che viene poi rinchiuso in una clinica psichiatrica) – trova la forza per cercare, come tutti del resto, il proprio posto nel mondo.

Alberto Rivaroli, TUTTO
– 01/10/2002

 

Il richiamo della conchiglia

 

La vita è dura per la piccola Eliza, abbandonata dalla madre e, dopo la morte della nonna, affidata a una famiglia che non le piace. Per chi ha il coraggio di crederci e tanta fantasia, però, il futuro può essere migliore… Dopo il sorprendente successo di La stanza del polline, il nuovo romanzo della giovane scrittrice svizzera.

Paola Polidoro, IL MESSAGGERO
– 01/10/2002

 

Zoë Jenny: le paure e gli affetti dei trentenni

 


Dopo il successo del suo romanzo d’esordio, La stanza del polline, tradotto in 24 paesi ed edito in Italia dalla Fazi, la ventottenne tedesca Zoë Jenny (nella foto di Esmeralda Afan de Rivera) ci riprova con Il richiamo della conchiglia (ancora Fazi). La volontà di tratteggiare i connotati dell’attuale generazione di trentenni, le paure nascoste dietro il mutismo che si intreccia attorno ad esistenze gracili e desiderose di affetto, ecco le ossessioni di Zoë, che a volte – inseguendole – rischia di emulare se stessa. Il titolo e lo stile avvicinano Il richiamo della conchiglia ad una favola.

La brevità delle frasi e i colori dei dettagli fanno addirittura sperare nel lieto fine. Ma questo non è un libro per bambini. E’ la storia di Eliza, lasciata dalla mamma alle cure della nonna. Ovvero, abbandonata. Questo precedente non impedisce alla bimba di conoscere un mondo felice, anche se a scuola fa parte “del gruppo degli indifferenti”.

Ma Augusta muore ed Eliza, accolta in un orfanotrofio, sceglie di non parlare più. Porta con sé solo la conchiglia nella quale la nonna soffiava per richiamarla a casa dal gioco. Viene adottata da una famiglia benestante, ma complessa: una madre che sceglie di fare carriera per noia dimenticando il resto e un padre con il quale finisce per avere una storia che travalica l’affetto, che sortisce comunque l’effetto di farla parlare. Eliza fugge con il fratellastro, che nutre un affetto morboso per la mamma, e con lui cerca una via d’uscita. Salvo doversi rendere conto che per sopravvivere deve scontrarsi con lo squallore di tutto quello che sta fuori.

Chiara Simonetti, TUTTO LIBRI – LA STAMPA
– 28/09/2002

 

Zoë Jenny, in orfanotrofio stretta alla conchiglia

 

 

E´ un libro cupo il secondo romanzo della scrittrice svizzera Zoë Jenny, nata nel 1974, scoperta dal Premio Ingeborg Bachmann 1997 al suo romanzo d’esordio, La stanza del polline, edito da Fazi nel 2000 (più di cinquecentomila copie vendute in Germania, in Italia quindicimila in tre edizioni) e successivamente tradotto in ventiquattro lingue. Anche questa storia, Il richiamo della conchiglia, racconta, con la scrittura densa ed essenziale che la contraddistingue (resa limpida anche dalla traduzione dal tedesco di Bice Rinaldi), la solitudine e le violazioni sofferte da Eliza, abbandonata dalla madre fin dalle primissime righe a casa della nonna, dove viene lasciata senza spiegazioni. Fortunatamente la nonna Augusta sa volerle bene, anche se in paese si mormora, “lo sanno tutti”, che “la vecchia” sia “pazza”. Per la nipote invece è “(…) una montagna calda, fumante”, affettuosa, nonostante “l’aria (…) pesante, carica di una nebbia blu che saliva dalla sua pipa di spuma di mare e rimaneva imprigionata nelle sue larghe gonne.” Spesso “la sera la nonna prendeva dal tavolo la grande conchiglia (…) e vi soffiava dentro come fosse una tromba. (…) Quel suono grave, penetrante, lo si udiva per tutta la valle” ed era il segnale “che era ora di tornare a casa”, “(…) un ponte che, gettato verso di lei, rompeva la sua solitudine”. Questa sedicente follia riesce dunque a sanare, anche se per poco (morirà con la testa “spaccata” (…) “cadendo dalle scale”), l’incolmabile distanza dal mondo che la madre di Eliza ha lasciato dentro sua figlia. Alla morte di Augusta però, Eliza viene messa in un orfanotrofio dove, stretta alla sua conchiglia, sceglie di non parlare. “La parola era fatta per gli altri, non per lei. (…) Per lei era solo un gioco con cui gli esseri umani ingannavano il tempo.” Nonostante il suo “disturbo”, che avrebbe teoricamente potuto diminuire le “possibilità che una coppia la prendesse con sé”, Eliza viene, si fa per dire, adottata, in realtà tirata, per pura disperazione, dentro una famiglia altrettanto lacerata. I Rosenberg abitano in una zona dal significativo nome di Colledoro: la stilista Maria non fa che pensare alle sue creazioni, il figlio George, ossessionato dalla freddezza materna, o è all’estero o frequenta King Sor, un barbone cui attribuisce erroneamente virtù da grande saggio e il padre Mike, perso nell’incomprensione della moglie (e nella propria, in-conscia incapacità affettiva), è uno studioso, guarda caso, “dello sviluppo del linguaggio del bambino”. Nel frattempo, grazie alle attenzioni più incestuose che professionali di Mike (che pare non lascino in lei alcuna traccia, al confronto sembrano il male minore) Eliza riprende a parlare, anche se solo per comunicare con il fratello acquisito George e architettare con lui la fuga. A questo punto potrebbe aprirsi un epilogo più roseo delle premesse, per quanto narrate con intelligente levità, senza concessioni alla violenza e al rancore, ma l’abile autrice, tessendo l’incontro con la lavapiatti Sue, con la quale Eliza pensa addirittura di “diventare una famiglia”, ha in mente qualcos’altro. Forse, la spia delle sue convinzioni (cui rimane rigidamente fedele) la si può trovare nella descrizione della pace che Eliza prova nel guardare le statue di santi di una certa chiesa, su una collina, che “erano come degli amici per lei”, li “(…) andava a trovare ogni volta che passava di là”. Come una novella Peter Handke, sembra prediligere concise descrizioni di gesti che compiono le persone attorno a lei, scegliendo definitivamente il silenzio, la fissità degli oggetti e, perché no, dei sentimenti piuttosto che le parole per dire.

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Bice Colarossi, TV SORRISI E CANZONI
– 21/09/2002

 

Il richiamo della Conchiglia

 

Vita difficile per la piccola Eliza. Abbandonata dalla mamma, cresce in campagna con la nonna augusta, i nun solitario mondo di racconti e di sogni. Lasciata anche lei, che muore all’improvviso, Eliza pasa dall’orfanotrofio all’adozione in una famiglia ricca e infelice, da cui fuggirà insieme al fratellastro e suo unico amico.
Per difendersi dalle delusioni della vita, si chiuderà in un silenzi ostinato, rotto solo dal suono della vecchia conchiglia di sua nonna.

Vittorio Macioce, IL GIORNALE
– 18/09/2002

 

Zoe Jenny, la ragazza che ha fatto innamorare i tedeschi

 

Nel 1997 una ragazzina di 23 anni, carnagione scura, capelli neri, grandi occhi azzurri, nata a Basilea, nella Svizzera tedesca, provocò un piccolo terremoto editoriale in Germania. La stanza del polline (Fazi), romanzo d’esordio, dopo il rifiuto di una dozzina di case editrici, arriva nelle librerie tedesche, supera le centomila copie, e raggiunge la vetta delle classifiche di vendita. Il nome della ragazza è Zoë Jenny e la storia che racconta, quasi autobiografica, parla di genitori immaturi, di una madre troppo egoista per amare la figlia, di un mondo di silenzi, di risposte chieste e non date. La stanza del polline viene tradotto in 24 paesi. I giornali scrivono: “E’ il romanzo della techno generation”. E’ una formula vuota, che non spiega nulla. Anche perché Zoë di techno ha veramente poco. Non ha la televisione, ascolta Glenn Gould, legge Sylvia Plath, da cui sembra aver rubato un po’ i personaggi: fragili, disadattati, incompiuti, forti del proprio silenzio.
Zoë è passata nei giorni scorsi da Milano, e ha parlato di sé, del suo stile, dei suoi personaggi. Non pensa di rappresentare la sua generazione. “Anche se – dice – ogni età e ogni epoca ha le sue storie. Raccontarle è l’unico modo per lasciare una traccia. Ed è quello che cerco di fare”. Parla della letteratura svizzera, che ha sempre faticato a mostrare una sua identità, divisa com’è tra gli scrittori di lingua francese, tedesca o italiana. E lei spiega: “Per me non esiste. Quando scrivo, mi sento tedesca. E lo stesso si può dire di Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch”.
Zoë Jenny ora ha 28 anni. Spegne una sigaretta e ne accende un’altra. Ha lasciato Basilea senza rimpianti. Ha vissuto a Berlino. Si è trasferita per un po’ a New York. E’ tornata. Ha scritto altri due romanzi. Il secondo è stato appena pubblicato in Italia, sempre da Fazi: Il richiamo della conchiglia (101 pagine, € 12). Ancora una storia di silenzi e disagi. Eliza, la protagonista, vive con la nonna in una sorta di Arcadia, un pezzo di mondo al riparo dalla civiltà, magico, rarefatto, in fondo quasi folle. L’Arcadia dura poco. La nonna muore e lascia in eredità ad Eliza un conchiglia, da usare come strumento musicale, un suono che richiama la pace perduta. La ragazza finisce in un orfanotrofio. Smette di parlare. Viene adottata da una ricca famiglia. Finisce a letto con il patrigno. Scappa con il fratellastro, George, suo unico amico. E si ritrova alla periferia di una metropoli, terra di nessuno, con altri disadattati.
“Sono affascinata – dice Zoë Jenny – dalle periferie senza nome, territori di confine, dove vive gente più o meno dimenticata dal mondo”. Zoë Jenny parla spesso di neo-classicismo, l’ideale di un’armonia perduta contaminata dal presente. Non è un caso, forse, che i suoi personaggi restano sempre dei chiaroscuri, appena delineati, quasi incorporei. Di loro si sanno solo pochi particolari, il minimo necessario che serve a sviluppare la storia, il resto sono atmosfere, prosa poetica, concentrata, scarna, narrazione essenziale. “Non mi interessa – spiega – scrivere romanzi di cinquecento pagine. Per questo non sviluppo mai le storie laterali. I miei personaggi sono degli schizzi sulla pagina, appena abbozzati. Faccio sapere di loro solo quello che io voglio che si sappia”. Sono ombre, fantasmi di un mondo quasi irreale, al confine tra un’arcadia magica da cui sono stati strappati (e verso cui vorrebbero tornare) e il presente, periferie metropolitane che sanno di Blade Runner e di cemento.

 

Antonella Fiori, D-LA REPUBBLICA
– 21/09/2002

 

Eliza nel mondo sbagliato

 

C’è un mondo incantato dove ogni fiore ha un nome diverso, e gli effetti autentici risuonano nel respiro di una grande conchiglia. E c’è un mondo che può fare impazzire, freddo come un cielo di morte dove sfrecciano gli aerei di una guerra incombente. L’universo sognato dai ragazzi-adolescenti e quello indifferente degli adulti, nel secondo romanzo della ventottenne svizzera Zoe Jenny, caso letterario con La stanza del polline,sono due rette parellele che non s’incontrano mai.
Favola noir, meno aspra nel linguaggio ma altrettanto disperata di quelle narrate da J T Leroy, Il richiamo della conchiglia narra le vicende speculari di due adolescenti: Eliza-Pollicino, che viene abbandonata dalla mamma in campagna nella casa-nido di una nonna a cui si affeziona (ma la nonna muore e la ragazzina, sprofondata nel mutismo, viene iternata in un orfanotrofio) e George, da sempre alla ricerca di un segnale di affetto da parte della madre stilista in carriera, figlio dei ricchissimi Rosenberg che decideranno di adottare Eliza.
Dalla grande casa di famiglia in collina, dove si ritrovano a vivere insieme, i due ragazzi fuggiranno per andare a cercare il calore del mondo (per Eliza racchiuso nella conchiglia che le ha lasciato la nonna). Vivranno prima per strada e poi in un ménage à trois con un’altra ragazza, Sue.
Ma l’Eden dura poco, tutto si frantuma di nuovo. Restano, bellissime, le sequenze delle immersioni nel lago e in piscina delle due ragazze, ritorno pacificante al liquido amniotico, ma anche fuga illusoria dal vuoto di una generazione che ha terrore di vedersi specchiata nel deserto esistenziale dei propri padri.

Brunella schisa, IL VENERDI DI REPUBBLICA
– 20/09/2002

 

Jenny, ragazza prodigio in lotta contro i “grandi”

 

Dopo il successo, due anni fa, del romanzo di esordio, La stanza del polline, tradotto in 24 paesi, Cina compresa, Zoe Jenny di Basilea, classe 74, torna con un libro che ripercorre i temi del primo, l’adolescenza, il doloroso percorso di nascita, i rapporti familiari complicati, abbandoni, ritorni, solitudine. Eliza, abbandonata dalla madre, va a vivere con la nonna, ma quando questa muore, lasciandole come unico bene una conchiglia, smette di parlare.
Eliza e la Jo del primo libro sono due facce dello stesso dolore?
“Non sono uguali, ma entrambe hanno una sensibilità estrema e cercano di trovare un posto nel mondo”.
Lei descrive sempre un mondo adulto inadeguato, dove la madre é il crogiuolo di tutte le sofferenze.
“Si, i genitori nei miei romanzi sono poco responsabili, ma nel secondo la protagonista cresce con la nonna, personaggio caldo e positivo, che le lascia in eredità una conchiglia, il simbolo della fragilità della vita”.
Anche questo come il precedente é un romanzo di formazione.
“Si, Eliza si dibatte attraverso diverse fasi e situazioni difficili e, anche se alle fine rimane sola, sarà una ragazza riconciliata e indipendente”.
Comunicare attraverso una conchiglia non é una disfatta totale?
“Il romanzo ha un finale aperto e per lei tutto é possibile”.

Luigi Reitani, CORRIERE DELLA SERA
– 19/09/2002

 

Zoë Jenny, generazione whisky e latte

 

 

Eliza e i suoi amici sono diventati grandi troppo in fretta o forse non sono mai davvero cresciuti. Sue «mangiava solo omogeneizzati in vasetti di vetro e beveva whisky col latte», George coltiva sentimenti incestuosi verso la madre bella e distante, divenuta stilista in carriera, ed Eliza ricorre a una conchiglia esotica – unico ricordo della nonna che l’ha allevata – come a un amuleto contro la solitudine. La loro adolescenza è una grottesca infelicità senza desideri che porta le stigmate dell’abbandono e i genitori sono chiusi in illusioni di celebrità e ricchezza. Naturalmente c’è anche chi si è spaccato la testa cadendo dalla moto o chi vive sotto il ponte di un’autostrada circondato da bande di esagitati, il cui passatempo è imbrattare i muri con le bombolette o incendiare senza motivo le fattorie della zona. E quando la falsa leggerezza dell’essere appare davvero insostenibile, si può fare immersione nelle acque di un lago e desiderare di morire sull’infido fondo sabbioso, rimpiangendo la vita in montagna con la nonna. Se Zoë Jenny (nata nel 1974 a Basilea, dove vive) è divenuta, dopo il fortunato esordio della Stanza del polline (1997), un piccolo caso letterario, ciò non si deve certo al buon ritmo narrativo che lega tra loro figure e situazioni abbastanza fragili, ma al riverbero di sentimenti che giunge da un mondo ancora inesplorato, come quello delle nuove generazioni. E mentre nei Paesi di lingua tedesca la critica fa a pezzi il suo ultimo libro, Ein schnelles Leben (Una vita veloce) , ecco arrivare da noi la sua seconda prova narrativa, in cui si respira ancora l’aria un po’ greve di una stanza di teenager all’alba del nuovo millennio. Alla fine George finisce in clinica psichiatrica, Sue diventa modella e parte con un fotografo, Eliza resta a lavorare in un ristorante dell’aeroporto, sola con la sua conchiglia. Verso Sud sfrecciano bombardieri diretti verso una guerra imprecisata. Il racconto è troppo realista per essere una parabola esemplare dell’adolescenza ed è troppo patetico per essere una buona rappresentazione della realtà. Metà latte, metà whisky.

© Corriere della Sera

Paola Sorge, LA REPUBBLICA
– 16/09/2002

 

Nel suono di quella conchiglia un universo giovane e disperato

 

 

Dopo la morte della nonna, con la quale ha vissuto in una piccola fattoria, Eliza, accolta a tredici anni, in un orfanotrofio, si rifiuta di parlare. Continua a non parlare anche quando viene adottata dalla ricca famiglia Rosenberg; si ostina invece a soffiare dentro una grossa conchiglia, il solo ricordo della nonna che le rimane. Come fosse una tromba, e il suono grave, penetrante che ne ricava è per lei l’unico mezzo di comunicazione per il mondo.
Poi all’improvviso Eliza comincia a parlare con soddisfazione del padre adottivo, studioso dello sviluppo del linguaggio femminile. Ma la favola di pigmalione qui è completamente rovesciata, è priva di ogni senso e di ogni morale: il signor Rosemberg in realtà abusa ripetutamente della figlia adottiva; il fratellastro di Eliza, George, è preso così morbosamente dal fascino di sua madre che questa è costretta a cacciarlo via.
Comincia così per Eliza una nuova vita di vagabondaggi assieme a George in un mondo desolato dove i giovani vivono autisticamente alla giornata senza illusioni e senza ribellioni. Con questo libro la giovanissima Zoe Jenny ha confermato le sue doti di sensibile, laconica cronista di una realtà che qui appare più dura e spietata che nel suo primo successo, La stanza del polline; qui il sono della conchiglia, che fa da basso continuo al breve romanzo, dà voce alla disperazione senza parole di un mondo alla deriva.

 

Maria Cristina Guarinelli, MARIE CLAIRE
– 01/09/2002

 

Il richiamo della conchiglia

 

Questa è la storia di Eliza, che dopo essere stata abbandonata una volta di troppo dalle persone che avrebbero dovuto amarla, alla fine si chiude in un ostinato mutirsmo. E se la sua realtà è ftta di ipocrisia e indifferenza, l’unica via di uscita è provare a fuggire seguendo il richiamo dell’affetto più autentico. In sintesi: l’identikit (l’autrice è del ’74) poetico, essenziale e personalissimo di una generazione.

Il richiamo della conchiglia - RASSEGNA STAMPA

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