Brian Moore

La caccia

COD: c45147dee729 Categoria: Tag:

Collana:
Numero collana:
13
Pagine:
240
Codice ISBN:
9788881120727
Prezzo cartaceo:
€ 14,00
Data pubblicazione:
05-01-1998

Traduzione di Lucia Olivieri

Tra il 1940 e il 1944 in Francia fu deportato un ebreo su quattro: Pierre Brossard, come molti ufficiali filonazisti, come alcune frange del clero francese, combatte la sua personale guerra contro i giudei, accecato dall’odio e da un delirio di potenza. Estate del 1989: un vecchio dall’apparenza innocua alla guida di una Peugeot bianca attraversa il sud della Francia chiedendo ospitalità in monasteri e abbazie. Da più di quaranta anni Brossard, ricercato con l’accusa di crimini contro l’umanità, vive in questo modo, in una lunga fuga dal proprio passato. Condannato a morte dai tribunali nel 1944 e nel 1946 e poi graziato, Pierre ha goduto di amicizie influenti tra il clero e la classe politica che tutt’ora lo aiutano, ma adesso qualcosa è cambiato. Intorno al vecchio il cerchio si stringe: una sedicente organizzazione filo israelitica è sulle sue traccie, anche la polizia lo sta braccando e Brossard, che si fa chiamare Pouliot ed è ossessionato dal pensiero della grazia divina, si trova al centro di una drammatica caccia all’uomo dagli esiti imprevisti.

LA CACCIA – RECENSIONI

 

Fulvio Panzeri, AVVENIRE

Morto a Malibu lo scrittore considerato l’erede di Graham Greene

Addio agli antieroi di Brian Moore

 

Un altro “scrittore della coscienza” se ne è andato: Brian Moore è morto ieri nella sua casa di Malibu, in California, all’età di 77 anni. Era il più solido erede di quella linea che, negli ultimi cinquant’anni, ha avuto come capofila Graham Greene. Del resto la narrativa di Moore è forte proprio, in virtù dei continui contraddittori che inscena tra valore utopico delle scelte, coscienza morale dei protagonisti e valore riconosciuto ad una Storia da decifrare, soprattutto nei suoi aspetti umani e religiosi, che continuamente coinvolgono la coscienza del bene e del male. Nato a Belfast nel 1921, nel 1948 si era trasferito in Canada, Paese del quale mantenne in seguito la cittadinanza, pur risiedendo negli ultimi anni negli Usa. Sempre attento alle grandi questioni religiose, ha posto al centro della sua scrittura anche il conflitto tra cattolici e protestanti nell’Ulster, riandando così alla sua patria d’origine. Per Moore la letteratura non è mai stata un esercizio consolatorio: per lui scrivere e raccontare equivaleva a rivelare le verità nascoste, anche le più dure e imbarazzanti. Si veda come esempio il suo ultimo romanzo tradotto in italiano, “La caccia” (Fazi), un “giallo religioso” di grande intensità che indaga sulle contraddizioni del clero francese in rapporto alla questione ebraica durante l’ultima guerra mondiale. Un tema di scottante attualità che Moore sviluppa attraverso il tema della responsabilità individuale, in relazione alla propria funzione pubblica, una responsabilità indicata con forza, in relazione al tema della colpa e della menzogna non percepita e sempre illusoriamente giustificata. E’ la stessa tensione inquieta che si respira anche in “Manto nero” (edito da Piemme), uno dei suoi romanzi più conosciuti, anche perché ne è stato tratto un film di un certo successo. Il rapporto tra Moore e il cinema è stato piuttosto stretto. Molti suoi romanzi sono stati portati sul grande schermo e lo stesso scrittore collaborò con Alfred Hitchcock che lo chiamò a Hollywood. Per lui Moore scrisse, tra l’altro, “Il sipario strappato” del 1966, interpretato da Paul Newman. “Manto nero” riporta anche ad un aspetto preminente nell’opera di Moore, quella di scegliere come personaggi figure di sacerdoti, uomini lacerati nel loro ideale di salvezza in un mondo quasi barbaro nei suoi riti e nelle sue prevaricazioni. Così in “Manto nero” troviamo la figura di un prete francese deciso a portare la parola di Dio tra i pellerossa del Seicento, mentre “Questa sola vita” (che con Manto nero forma una sorta di dittico) propone la figura di un missionario che insegna da anni in un seminario destinato ai meticci ricchi e sceglie il piccolo Jaeannot, non solo come discepolo (verrà accettato nel seminario e lui lo guiderà fino al sacerdozio), ma anche come simbolo della sua lotta per l’apertura anche ai più poveri.

 

Annabella d’Avino, IL MESSAGGERO

 

Philip Dick, incubi di showman

Brian Moore va a caccia di un filonazista braccato dalla polizia

Jason Taverner è un “intrattenitore del mondo intero” con il suo show visto da 30 milioni di persone. Ha 42 anni e molto bello, intellettualmente superiore, con il potere del successo e della ricchezza. Un giorno, dopo un’aggressione, si ritrova privo di documenti, improvvisamente “invisibile nella legalità” perché nessuno lo riconosce e non risulta più nemmeno l’esistenza di qualcuno con il suo nome. “Scorrete lacrime, disse il poliziotto” (Mondadori, 259 pagine, 22.000 lire) è l’ultimo romanzo pubblicato in Italia di Philip K. Dick, morto nel 1983, considerato uno dei più grandi scrittori di fantascienza, forse riduttivamente perché è un grande scrittore e basta. Mentre il protagonista è coinvolto in un delitto e braccato dai poliziotti, il racconto si nutre degli incubi e delle ossessioni ricorrenti dell’autore: l’incertezza della propria identità profonda, l’ambiguità del confine fra realtà, a allucinazioni, Il tutto con visionaria abilità narrativa, sofferenza e ironia. Braccato è anche il protagonista di “La caccia” (Fazi, 238 pagine, 28.000 lire), un vecchio dall’apparenza anonima e innocua che attraversa il Sud della Francia chiedendo ospitalità nei monasteri. In realtà fugge dal suo passato di ufficiale filonazista colpevole dell’assassinio di 14 ebrei, e cerca rifugio perché inseguito dalla polizia e da un’organizzazione israelita. Basandosi su fatti e personaggi reali Brian Moore scoperchia le zone più scure del collaborazionismo francese, le inquietanti complicità e coperture del governo e della chiesa cattolica nei decenni successivi alla guerra, in un thriller che si colora di lacerazioni esistenziali fra fede e coscienza. Molto più leggero è l’ultimo romanzo di David B. Ford che dopo il successo di “Potere assoluto” (da cui è stato tratto il film con Clint Eastwood) continua a sfornare best seller. “Il biglietto vincente” (Mondadori, 499 pagine, 32.000 lire) è la storia di una truffa da cento milioni di dollari ai danni della Lotteria Nazionale. LuAnn, giovane madre senza soldi né prospettive, diventa una pedina nelle mani di uno spietato genio del male. Ma la donna, astuta e intelligente, riesce a sfuggire al suo controllo e alle minacce di vari nemici: sceriffi, giornalisti, agenti dell’Fbi, killer. Fra veloci e imprevedibili colpi di scena, in una tensione serrata e avvincente. Esordiente è invece il ventisettenne Brad Meltzer, appena laureato in legge e già acclamato come rivelazione del legal thriller. “Il decimo giudice” (Garzanti, 469 pagine, 32.000 lire) racconta le disavventure del giovane Ben Addison assunto fra gli assistenti della Corte Suprema, coloro che fanno analisi, studiano le cause, preparano pareri su cui i giudici basano le loro decisioni. I giudici della corte sono nove, ma la vostra influenza, il potere di cui disponete, vi trasforma in una sorta di decimo giudice”. E’ questo potere che un gruppo di affaristi senza scrupoli cerca di controllare, incastrando il protagonista in un serie di ricatti. Esperienza di lavoro e conoscenze tecniche sono alla base anche del primo romanzo di Kathy Reichs, antropologa forense per l’ufficio di Medicina Legale del Québec. In questa provincia canadese è ambientato “Corpi freddi” (Rizzoli, 466 pagine, 32.000 lire) che segue le orme di Patricia Cornwell. Anche la protagonista Tempe Brennan (come la più famosa Kay Scarpetta) si muove fra la sala autopsie, il tribunale, il laboratorio criminale. Quarant’anni, separata con una figlia adolescente, “indecisa nella vita, ossessiva nel lavoro”, si scontra con uno spietato serial killer che ha già ucciso cinque donne lasciando corti decapitati e sezionati. Se il plot non è originale, il racconto ha un’atmosfera ansiogena e coinvolgente per la crudezza delle descrizioni e l’attenzione alla psicologia dei personaggi.

 

John Gross, LA RIVISTA DEI LIBRI
– 09/01/1998

 

Fuga da Vichy

 

Nel 1943 Paul Touvier entrò nella Milice, l’organizzazione paramilitare recentemente costituita dal governo di Vichy per combattere la Resistenza; fu ben presto nominato ufficiale comandante per la regione di Lione. Nel 1994, dopo numerose vicissitudini legali e quasi cinquant’anni vissuti da fuggiasco, Touvier fu il primo cittadino francese a essere condannato per crimini contro l’umanità. Più in particolare, venne ritenuto colpevole di aver ordinato l’esecuzione di sette prigionieri, tutti ebrei, per rappresaglia contro l’assasinio di Philippe Henriot, ministro della propaganda del governo di Vichy. Condannato all’ergastolo, Touvier è morto a luglio del 1996 in un ospedale carcerario. Aveva ottantuno anni. Durante le ultime battute del processo a Touvier ì, un altro ex ufficiale di Vichy aspettava di essere giudicato per crimini contro l’umanità: René Bousquet, segretario generale della polizia dal 1942 al 1944. In questo caso, tuttavia, la giustizia si sarebbe trovata di fronte un ostacolo insormontabile: nel 1993, infatti, Bousquet fu ucciso da un aspirante scrittore malato di mente, il cui movente principale sembra essere stato la sete di pubblicità. Dei due, Bousquet era stato vicino ai centri di potere e i crimini per cui era imputato superavano di gran lunga quelli del primo. Per la precisione, poiché sotto il suo comando la polizia aveva effettuato ripetuti rastrellamenti e deportazioni per conto dei nazisti, Bousquet doveva rispondere all’accusa di partecipazione al genocidio contemplato nella Soluzione Finale. Bousquet era anche un personaggio ben più complesso di Touvier. Politicamente apparteneva allo schieramento di centrosinistra, laddove Touvier – fortemente influenzato dl padre, membro dell’Action Française – era sempre stato reazionario razzista. Negli anni Trenta aveva fatto una rapida e brillante carriera di funzionario amministrativo: nominato capo di gabinetto del prefetto locale a vent’anni, divenne anch’egli stesso il più giovane prefetto di Francia a trentuno. (Touvier, invece, aveva cominciato a lavorare come impiegato delle ferrovie). A collaborare coi nazisti era stato spinto dall’ambizione personale e dalla fede nella continuità burocratica; la loro ideologia non lo interessava particolarmente. Nel 1949 Bousquet fu giudicato colpevole di collaborazionismo (la parte che aveva avuto nella deportazione di prigionieri ebrei venne trattata come una questione marginale) e condannato a scontare cinque anni di “sospensione dei diritti civili”; la sentenza, però, gli fu subito commutata in base a quelli che la corte, da lui stesso persuasa, arrivò a ritenere “atti di resistenza”. Bousquet ebbe in seguito una fortunatissima carriera di banchiere e industriale e godette dell’amicizia e protezione di François Mitterrand. La storia importante, dunque, doveva essere quella di Bousquet. Ma, come sottolinea Richard J. Golsan nell’introduzione alla straordinaria raccolta di articoli e documenti sulle due vicende da lui curata, fu Touvier a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Una ragione è evidente: l’affare Touvier finì in tribunale, mentre il caso Bousquet – cioè quello riguardante i crimini contro l’umanità – non ci arrivò mai. Ma nella storia di Touvier c’erano alcuni elementi volti a suscitare comunque l’interesse generale: gli anni di clandestinità, il ruolo ricoperto dagli esponenti della chiesa cattolica che lo protessero, la bravura con cui egli stesso sapeva ammantarsi d’innocenza. Per quanto mediocre possa esser stato sotto altri aspetti, Touvier aveva un talento raro per raccontare ai suoi potenziali benefattori quel che volevano sentirsi dire. Richard Golsan lo descrive come un mitomane e attribuisce a “Mes crimes contre l’humanité”, il memoriale pubblicato nel 1979 in cui Touvier appariva come un “personnage de roman”. E adesso personaggio romanzesco lo è diventato davvero, dal momento che è impossibile non riconoscere quale sia stata la fonte d’ispirazione del libro di Brian Moore, “La caccia”. Il protagonista Pierre Brossard ha alle spalle un passato talmente simile a quello di Touvier nelle sue fasi più importanti che fra i due non c’è quasi differenza: riveste lo stesso grado di ufficiale della Milice e si rende responsabile di un massacro che ricorda molto da vicino quello comandato da Touvier nel 1944. Dopo la Liberazione, viene condannato a morte in contumacia, ma nel frattempo, raggiunta Parigi, riesce a sopravvivere grazie ai proventi di rapine e borsa nera. Catturato dalla polizia, si dimostra pronto a collaborare rispondendo alle domande su camerati e simpatizzanti della Milice; una volta rimesso in libertà, si dà nuovamente alla macchia. Nel 1971, grazie soprattutto all’intercessione di un alto prelato che perora la sua causa, ottiene il perdono del presidente Georges Pompidou; ma quando il silenzio che circonda l’evento si rompe e la notizia trapela, si scatena l’indignazione generale e Brossard è costretto a tornare nella clandestinità. Se agli inizi della sua vita da fuggiasco aveva fatto affidamento sulla disponibilità di alcuni esponenti del clero, ora dipende da loro più che mai. Il personaggio descritto è Brossard, ma potrebbe benissimo trattarsi di Touvier. Fra i due non vi sono solo analogia alla lontana, anzi: l’una vicenda corrisponde spesso all’altra fin nei particolari. Per individuare i prigionieri ebrei, Brossard usa lo stesso metodo di Touvier, pungolando il loro pene con una pistola per vedere se sono circoncisi. Quando era in clandestinità, Touvier riceveva regolarmente un aiuto economico da un’organizzazione denominata Chavaliers de Notre Dame; Brossard riceve pagamenti regolari da un’associazione chiamata Chavaliers de Sainte Marie. La figura di monsignor Le Moyne amico di Brossard si ispira chiaramente a quella di Charles Duquaire, l’ecclesiastico che portò avanti per Touvier un’efficacissima opera di intercessione presso Poòpidou, mentre dietro il cardinal Delavigne, il quale nomina una commissione d’inchiesta per far luce sui rapporti intercorsi fra Bossard e la chiesa, si nasconde in realtà il cardinal Decourtray di Lione. Ciò nondimeno, “La caccia” è ben lungi dall’essere una semplice biografia romanzata di Paul Touvier (e sarebbe anche difficile credere che uno scrittore di talento quale Brian Moore si cimenti in un’attività così meccanica). La vicenda, costruita in maniera serrata, si svolge nell’arco di due giorni nel maggio 1989 e sconfina in un territorio cui il vero Touvier non approdò mai. Pierre Brossard sa fin dall’inizio di essere un uomo sospetto, ma nel giro di qualche pagina gli appare chiaro che il pericolo che corre è ben più grande del previsto. Da tempo si nasconde in un monastero della Provenza e un giorno, recatosi in paese a prendere la posta, si rende conto di essere seguito. Capovolgendo abilmente la situazione a proprio favore, scopre che il suo pedinatore lavora per un’organizzazione fino ad allora sconosciuta, un sedicente Comitato di giustizia che opera per vendicare le vittime delle sue persecuzioni. L’organizzazione sembra essere formata da ebrei e sembra intenzionata ad ucciderlo. Ma il pericolo proviene anche da un altro fronte: le indagini ufficiali sul suo caso, precedentemente affidate sulla polizia, vengono ora condotte da un militare, il dinamico colonnello Roux, che giunge in Provenza ben deciso a stanarlo. Sapendo anch’egli dell’esistenza del Comitato, mira non solo a catturare Brossard, ma anche e soprattutto ad arrivare prima dei suoi avversari. Ed è consapevole che si tratta di avversari formidabili, i quali a quanto pare hanno un contatto fra le conoscenze di Brossard che li informa in anticipo sulle sue mosse.

 

IL FOGLIO
– 07/01/1998

 

La caccia

 

In pellegrinaggio da una casa religiosa all’altra nel sud della Francia. Con un uomo che ha passato i settant’anni , che si fa chiamare Pouliot. In fuga da una casa all’altra da una casa religiosa che dopo l’altra rifiuta quell’ospitalità che in passato ha accordato generosa e cordiale. Telefonate sempre più apprensive a uomini anziani e sussiegosi che rassicurano evasivi. La sensazione dell’abbandono il sospetto del tradimento. Dopo una complicità e una solidarietà di più di cinquant’anni. Cinquant’anni di latitanza cominciata mezzo secolo prima con la ritirata dei tedeschi dalla Francia con la caduta del governo Pétain con un processo per collaborazionismo con una condanna a morte con una fuga dal carcere provvidenziale e pilotata. Una latitanza eterna per non avere voluto abbandonare la Francia per non avere accettato di camminare solo senza la lingua senza un orgoglio nazionale sulle strade del mondo pullulanti di gente inferiore. Ma l’ostinazione di una vita si avvia alla fine su una strada solitaria che dal paese porta alla pace di un convento quando un giovanotto come nome ebraico su un passaporto falso canadese finisce con la macchina in fondo a una scarpata sorpreso dalla pistola di un vecchio baciapile che aveva cercato di sorprendere con la pistola. Si avvia alla fine quando comincia “La caccia”, il romanzo che l’Irlandese Brian Moore naturalizzato canadese ha costruito intorno alla storia vera del vecchio collaborazionista Papon. Ma Papon non è Pouliot come un romanzo non è un libro di storia. Al romanzo non si impone il punto di vista unitario dello storico. Che ha ricercato raccolto esaminato scelto i documenti che quando inserisce una considerazione non sua usa virgolette, caporali, parentesi tonde e quadre puntini di sospensione, note a piè di pagina. Il romanziere può scegliere di cambiare punto di vista e narratore di capitolo in capitolo. Può scegliere di vedere le vicende con gli occhi con la voce di chi agisce in quel momento. Può riuscire a creare una scatola ottica con tanti obiettivi quante sono le persone del dramma. Può lasciare libero il lettore di parteggiare per la vittima o per l’assassino. Può indurre il lettore a mettersi di volta in volta nella pelle della preda e del cacciatore. Anche senza evitare una prospettiva storica e morale acquisita e convenzionale. L’uomo che riceve lettere con il nome di Pierre Pouliot è in realtà Pierre Brossard, graziato per i crimini di collaborazionismo di cui si era reso colpevole negli anni di Pétain incriminato di nuovo per avere salvato un uomo. Per avere consegnato ai tedeschi solo tredici dei quattordici ostaggi richiesti poiché tra di essi solo tredici e non quattordici erano circoncisi. Per essersi macchiato con quell’atto di razzismo. Non richiesto dai padroni te deschi ma connaturato in una cultura che considera l’aggettivo diverso sinonimo di inferiore di un crimine contro l’umanità. Di un crimine per il quale non esiste prescrizione. Non tutti sono convinti che Brossard sia un criminale . non ne sono convinti coloro che ne condividono le convinzioni. Non ne sono convinti i vecchi compagni d’arme che sono riusciti a evitare la condanna a inserirsi in posizioni di prestigio nella nuova società. Non ne sono convinti alcuni religiosi ce reggono severi monasteri in Provenza che alle prescrizioni conciliari preferiscono la Messa in latino. Non ne sono convinti gli Chevaliers de Sainte Marie, un’associazione segreta tradizionalista e anticomunista alla quale Brossard appartiene dalla quale Brossard riceve una pensione. Della sua colpevolezza sono convinti un giovane juce d’instruction e un colonnello della gendarmerie. È convinta una misteriosa organizzazione ebraica che si serve di giustizieri piuttosto inetti. Finché…

 

Maria Serena Palieri, UNITÀ

 

1989, il nazista in fuga

La caccia

Nome: Pierre Brossard, pseudonimo : Monsieur Pouliot. Da più di quarant’anni vive in clandestina nel suo paese la Francia, facendosi ospitare a rotazione in una serie di abbazie e conventi che praticano per lui una specie di medioevale diritto d’asilo. I soldi inece gli arrivano per vaglia in posti sempre diversi da una misteriosa organizzazione. Pierre Brossard è stato un esponente della famigerata “Milice” ai tempi della Francia invasa dai nazisti e in quei panni ha ordinato l’esecuzione e la deportazione di centinaia di ebrei. Era biondo con gli occhi azzurri un volto d’angelo ma lui preferiva sentirsi dire dai tedeschi che era un “puro ariano”. Quarant’anni dopo fa conti complicati con la sua coscienza è un assiduo della confessione specie quando uccide. Perché per sopravvivere Brossard deve farlo: dopo la guerra ha rifiutato di fuggire come altri in America Latina – è un patriota voleva continuare a parlar francese e a mangiare “salade nicoise” – e ora due organizzazioni estremiste di ebrei hanno mandato dei killer sulle sue tracce per ucciderlo. Ambientato nel 1989 questo romanzo a suspense procede sulla falsariga del caso Papon, Brian Moore settantacinquenne irlandese, prolifico autore di romanzi dal ’48 residente in Canada durante la guerra fu nei servizi agli ordini del governo inglese. Nel suo libro ricostruisce con veridicità storica e fiuto psicologico la rete di connivenza tra nostalgici del regime di Vicky cattolici ultrareazionari, politici coinvolti, anche all’altezza d’Eliseo che ha potuto permettere a un ex-nazista un criminale di guerra ricercato di vivere senza essere scoperto nel suo paese per quasi mezzo secolo. Finché qualcuno non decide di stanarlo con l’obiettivo di mettergli al collo il cartello “Comunicato. Comitato di giustizia per gli ebrei morti a Dombey. Quest’uomo è Pierre Brossard ex comandate della sezione della Milice della regione di Marsiglia. Condannato a morte in contumacia dal tribunale francese nel 1944 e nel 1946 e accusato di un crimine contro l’umanità per l’assassinio di quattordici ebrei a Dombey belle Alpi Marittime il 15 giugno 1944…”

 

John Vignola, ROCKERILLA
– 09/01/1998

 

Brian Moore

La caccia

Il lavoro di una agguerrita realtà editoriale quale si sta dimostrando la romana Fazi merita un plauso particolare: cura e distinzione nella veste grafica ed un piano di pubblicazioni molto attente ai successi (di qualità) ed agli scrittori stranieri ben noti fuori d’Italia ma per le solite inspiegabili alchimie quasi ignorati da queste parti. Brian Moore irlandese di nascita e canadese d’adozione girovago e scrittore dalla vena felice e assai fertile giocata su un perfetto uso dei tempi e dei moduli narrativi, è decisamente tra questi. “La Caccia” è una dei suoi lavori più celebri si allontana subito dal thriller a senso unico tutto concatenazioni ritmiche e basta per dedicarsi ai caratteri dei personaggi visti con u n processo immedesimativi ottimamente calibrato tanto da rendere con plausibile efficacia spostamenti d’animo anche piccoli angosce e bugie dette solo per se stessi. È la storia – ispirata ad una vicenda reale – di una fuga che dura una vita quella di Pierre Brossard un ex (?) criminale nazista francese ricercato per delitti contro l’umanità appoggiato nella sua perenne peregrinazione da (qualcuno del) clero e politici: su di lui incombe la scure di una vendetta definitiva. Mentre il protagonista viene inseguito da killer forse inviati da qualche organizzazione ebraica e da uomini di legge che vorrebbero fare giustizia anche ai piani più alti, entriamo a fondo in un clima dove l’intrigo e la convivenza del potere (religioso o politico che sia) con il “male” diviene sempre più insopportabile. L’ex carnefice, il prelato che lo appoggia il misterioso mandante dell ‘uccisione di Brossard, i killer: una umanità che si muove letteralmente schiacciata da se stessa e dalle sue colpe e che talvolta (Brossard) cerca improbabili giustificazioni morali mostrando tutto il suo grigiore. Un quadro desolante e senna redenzione nonostante l’infantile fiducia del protagonista nel perdono di Dio. Sconsolato e avvincente.

 

Cristiano Dan, IL MONDO

Romanzi. “La caccia” di Brian Moore

Troppe assoluzioni per il boia

Pouliot fugge da mezzo secolo. E’ un criminale nazista. Per anni protetto e accolto all’ombra del campanile.

Francia meridionale, 1989. Pierre Brossard , alias Poulios, 77 anni viaggia a bordo di una scalcagnata Peugeot. Passa di convento in convento, di abbazia in abbazia, mendicando un letto e un pasto. Lo fa da 44 anni , e per 44 anni né letto né pasto gli sono mai stati rifiutati. E nemmeno regolari somme di denaro. E’ un vecchio, Brossard, ma lucido. Si muove con circospezione, sempre sul chi va là. E riesce a scampare a un tentativo di assassinio. Ma qualcosa, si è rotto: conventi e abbazie nono sono più ospitali come prima, qualche porta gli viene chiusa in faccia; un fantomatico “Comitato per la giustizia per gli ebrei morti a Dombey” è sulle sue tracce; e anche un giudice, madame Livi, e Roux , un colonnello della Gendarmerie. Così Pouliot si avvia all’ultima fuga. E’ uno strano, e a suo modo affascinante, squarcio su una Francia sotterranea quello che ci offre l’irlandese Brian Moore nel suo “La caccia” (Fazi Editore, 28.000 lire). ASSASSINO. Brossard è un ex ufficiale della Milice petainista nella Francia di Vichy, torturatore, due volte condannato a morte e poi graziato, accusato di genocidio. Si dispiace, ma non dei crimini commessi (“Non era pentito. Non si era mai pentito”, scrive Moore), quanto di non aver approfittato, a suo tempo, della possibilità di rifugiarsi in qualche Paese sudamericano. Posti pieni di meticci, indigeni. E anche ebrei. E lui, biondo, occhi azzurri, si sentiva invece così “ariano”, come aveva giustamente notato, giusto 44 o 45 anni prima, quell’ufficiale nazista… D’altro canto, pensa Brossard, questa Francia che lo rifiuta, che gli dà la caccia, non è più la sua Francia, piena com’è ormai di “beurs e noirs”. E la prospettiva del Paese sudamericano gli sembra ora meno sgradevole. E poi l’importante è salvare la pelle. Questo pensa Brossard, mentre vaga di convento in convento, trascinando con sé una valigia zeppa di chincaglieria del Terzo Reich: gagliardetti, medaglie, pugnali. Ha paura Brossard. Non tanto o non solo di morire, quanto di morire in stato di peccato mortale, senza il tempo di confessarsi. Un buon cattolico? Un cattolico strano, che se ripete un crimine cambia confessore, perché l’importante per lui è avere comunque l’assoluzione. Anche a costo di fingere il pentimento. RESPONSABILITA’. Con uno stile volutamente semplice, apparentemente dimesso, Moore porta alla luce un reticolo di complicità e di alleanze fra poliziotti, alti funzionari governativi, gerarchie ecclesiastiche il cui unico scopo è proteggersi a vicenda da un passato imbarazzante che può riemergere e cercare di influire sul presente riportandolo indietro nel passato. E pone al centro del romanzo non solo la vicenda, ma anche la tortuosa e sorprendente psicologia di un uomo che “era rimasto rintanato per quarantaquattro anni” senza che questo quasi mezzo secolo fosse servito a modificarlo di una virgola. Inutile dire che si tratta di “realtà romanzata”, e neanche troppo: basti pensare al processo a Maurice Papon . E’ invece utile sottolineare come qui e in altri romanzi, per esempio “Una sola vita” (Anabasi, 1992) ispirato alle vicende dell’Haiti di padre Aristide, Moore continui a interrogarsi (e a interrogarci) sulla pagina oscura e che nessuno sembra voler chiarire del “collaborazionismo” di una parte della Chiesa cattolica – delle sue gerarchie – con regimi dittatoriali e fascistoidi.

 

Marina Valensise, PANORAMA
– 06/10/1998

 

In fuga da un crudele passato

 

Troppo vero per essere romanzesco troppo romanzesco per essere vero, questo thriller psicologico a sfondo politico – religioso è una perfetta testimonianza dei sensi di colpa che affliggono la coscienza storica. Racconta infatti di un vecchio collaborazionista francese responsabile durante il regime di Vichy dell’omicidio di 14 prigionieri ebrei e da allora costretto a un’esistenza raminga. Dopo aver vissuto per quarant’anni nell’ombra accolto come un mendicante nei conventi della Provenza protetto dal diritto d’asilo della Chiesa l’uomo è chiamato a rispondere di crimini contro l’umanità reato imprescrittibile che gli scatena contro un’organizzazione di vendicatori. Stretto nella morsa di una colpa che gli appare ingiusta eppure in espiabile assediato dal sospetto e dalla paura, l’anziano signore, sentendosi braccato da un paio di killer, li uccide entrambi, con la freddezza di un personaggio di Chandler e il nichilismo – pulp di un eroe di Tarantino. Ma tanta scaltrezza nel far perdere le tracce trovando riparo presso la vecchia moglie inacidita dal matrimonio suo miserrimo, non basteranno a trarre in salvo il vecchio boia. Così con la condanna dell’eroe l’autore del thriller, un cattolico irlandese che ha visto da vicino giustiziare i “collabos” per le strade di Marsiglia si prende una rivincita sulla storia. Scavalca la vicenda di Paul Touvier, il capo dei servizi segreti della milizia di Vichy processato nel ’95 dal quale ha tratto spunto. E denuncia senza mezzi termini la protezione della Chiesa cattolica e dell’alta burocrazia di stato nei confronti dei criminali nazisti. Non sorprende che il libro osannato dai lettori anglosassoni in Francia non sia uscito, come annuncia l’editore Diogenes che invece ne vuol fare uno best-seller tedesco.

 

Fulvio Panzeri, AVVENIRE
– 06/06/1998

Da Brian Moore un “thrille religioso”

Il rimorso del killer

 

L’indagine religiosa e morale è senz’altro uno dei temi prediletti da uno scrittore come Brian Moore già introdotto con vari libri in Italia e che ora viene proposto da Fazi con l’ultimo romanzo pubblicato originariamente nel 1995. Una conferma di quanto Brian Moore sia sulla linea di uno scrittore come Graham Greene. Ciò interessa a Brian Moore è indagare dentro il nodo delle contraddizioni morali. Per questo le snuda e le propone con grande efficacia soprattutto grazie ad un ritmo narrativo incalzante e carico di inquietudine . scrivere e raccontare equivale a rivelare le verità nascoste anche le più dure, anche le più imbarazzanti. Così quando come nel caso di questo romanzo ‘La caccia’ basa la vicenda sui caratteri di Paul Touvier e del famoso Maurice Papon, riesce a dare il meglio di sé attraverso un romanzo che ha il fluire incalzante del thriller religioso che non lascia soste al lettore. Attraverso questa vicenda che potrebbe riassumersi in un “tutti contro uno” Brian Moore intesse una specie di processo alle intenzioni lasciando ad ognuna delle parti la possibilità di spiegare la propria posizione, i propri silenzi l’irresponsabilità degli atti. Emerge così un paesaggio interiore di colpa e di rimorso di incredula fedeltà a ideali politici improponibili a ingenue giustificazioni della terribilità dei propri atti: il tutto mentre il racconto segue le mosse di questa finale caccia all’uomo nel momento in cui si sente tradito da tutti e fiuta il pericolo come un’animale braccato , dovendo provare in s quella paura e quella tensione che lui ha sempre osservato negli occhi delle sue vittime quegli occhi che non voleva guardare . lui è Pierre Brossard uno degli ufficiali francesi filonazisti responsabili dell’eccidio di molti ebrei . ha firmato gli ordini per la partenza di molti treni carichi di ebrei ed è responsabile dell’uccisione di quattordici uomini quegli stessi che, nel finale mentre la pallottola fatale colpisce anche lui, gli compaiono allineati di fronte al muro del cimitero. Nell’atto finale quando la morte lo coglie deve oltrepassarli , quasi in un attimo estremo atto di rispetto quello che vita non ha voluto avere. Dopo la guerra Brossard viene condannato per crimini contro l’umanità, ma troppi hanno interesse a difenderlo a far sì che lui non compaia nelle aule di un tribunale comprese certe frange del clero francese, le più conservatrici che lo ospitano in incognito presso i loro conventi. Il libro racconta l’epilogo di questa vicenda inquietante quando Brossard inizia la sua fuga. Ossessionato dal pensiero della grazia divina, contraddetto tra il desiderio di essere perdonato dal Signore e la necessità di non tradire e di non rinnegare i propri atti, per lui nel 1989 inizia una resa dei conti che Brian Moore riscrive soprattutto cercando di mettere a nudo tutte le contraddizioni di una moralità dai contorni ambigui. Brossard che ora si fa chiamare Pouliot, è costretto a fare i conti con se stesso con il proprio passato e contempla la sua continua impostura quel perdono che forse ricerca ma che nemmeno la confessione riesce a restituirgli tanto che si chiede: “E’ possibile confessare i propri peccati senza dire la verità fino in fondo?” . Adesso tutte le sue difese cadono e si frantumano:sente la paura sul collo e nell’anima e ritorna ad uccidere. Questa volta le vittime sono i suoi inseguitori. Tutti gli negano un nascondiglio e il cerchio si restringe: la polizia ma anche un gruppo di terroristi filoisraeliani lo segue nei conventi arriva l’ordine di non ospitarlo più. Così la sua fuga nel sud della Francia, da Nizza a Cannes, è un fitto intreccio di trame e di investigazioni, di colpi di scena che permettono a Brian Moore di tenere alta la tensione morale, soprattutto quando mette a confronto le posizioni delle varie figure di religiosi.

 

Masolino d’Amico, LA REPUBBLICA
– 07/09/1998

 

Una messa per il nazi

Moore come Simenon

Nonostante i numerosi romanzi appassionati che continua a scrivere, Brian Moore non è ancora così famoso da noi da rendere superfluo ricordare qualche suo dato: irlandese di Belfast, è nato nel 1921, si è naturalizzato canadese e ultimamente viveva a Los Angeles. Nei due suoi libri che mi è capitato di recensire su queste pagine, entrambi a sfondo esotico, la chiesa cattolica aveva una parte centrale: il protagonista di “Manto Nero” era un gesuita secentesco pieno di buone intenzioni ma anche di intransigenze, che non riusciva a stabilire un contatto con i pellerossa, gente dal canto suo altrettanto poco elastica, nonché infantilmente crudele con gli appartenenti ad altri clan; in “Questa sola vita” un messia nero educato alle missioni tentava brevemente di emancipare una repubblica di banane dal pugno di ferro dei suoi colonnelli. Né nel primo caso né nel secondo i preti di Roma facevano troppo buona figura, anche se ad alcuni di loro erano attribuiti scrupoli di coscienza. Lo stesso avviene nell’odierna “Caccia”, che in gran parte si svolge dentro priorati e conventi, alla fine degli Anni Ottanta: alcuni religiosi sono in grado di ragionare in modo costruttivo ma per altri la convinzione di essere dalla parte giusta porta a decisioni e a contegni inaccettabili. Con alcune costanti – storie veloci e ben congegnate, concisione di scrittura con efficace attenzione a particolari come sapori, odori, sensazioni fisiche, che ci fanno sentire sul posto -, Moore è un eclettico, a ciascuna delle cui prove si può trovare un accostamento con un autore famoso. Per “Questa sola vita”, ad esempio, si fece il nome di Grahm Greene; per “La caccia” un modello potrebbe essere Simenon, non a caso anche citato nel testo. Anche qui abbiamo infatti una Francia minore, di piccoli bar e ristoranti, di commissari a riposo con mogli attente alla cucina,, di investigatori benintenzionati anche se non troppo astuti, e di sordidezze nascoste. Il tema, che secondo un’altra consuetudine di Moore si basa su di una situazione verificatasi nella vita vera, è, come dice il titolo italiano, la caccia a un vecchio criminale nazista, un francese biondo e occhiglauco che quarant’anni prima come comandante della milizia di Vichy si rese responsabile di un eccidio di ebrei. A differenza di altri come lui condannati a morte in contumacia, questo Pierre Brossard si è sempre rifiutato di espatriare, continuando a vivere in patria sotto mentite spoglie; nel ’71 ottenne anche la grazia, ma subito dopo una nuova inchiesta lo accusò di crimini contro l’umanità, per i quali non c’è prescrizione. Ora il cerchio intorno a lui si sta stringendo, ma non sono solo le autorità, o alcuni esponenti di queste, a braccare il vecchio fuggiasco per presentargli il conto; c’è anche chi ha interesse a eliminarlo, magari attribuendo l’esecuzione a un fantomatico comitato di giustizia di matrice ebraica. Non si vogliono troppe indagini sui vari tipi di protezioni di cui Brossard ha beneficiato negli anni, da quella di un’ampia rete di ecclesiastici patriottici e nostalgici di papa Pacelli, che secondo loro aveva individuato nel nazismo il male minore, se non addirittura il baluardo contro i veri nemici del cristianesimo, ossia i bolscevichi e i giudei. Naturalmente non è lecito rivelare troppo di una trama che si basa sulla suspense di un inseguimento, dove la preda benché anziana è apparentemente fragile dà continuamente dei punti ai cacciatori. Bisogna però segnalare, nell’economia dell’eccellente risultato di Moore, l’attenzione che lo scrittore dedica alla pericolosa psicologia del criminale, il quale a parte qualche fastidioso incubo notturno che talvolta gli si affaccia, è perfettamente a posto con la coscienza: cattolico praticante, frequenta messe e sacramenti, ha da tempo ricevuto ogni sorta di assoluzione, e si adatta volentieri al regime spartano delle comunità monastiche che lo accolgono regolarmente come un fratello. Ripercorrendo i propri ricordi, rifarebbe tutto quello che fece allora, non senza un pizzico di nostalgia per l’inebriante sensazione di potere provata quando sollevava con la canna della pistola il pene di uomini nudi tremanti, per controllare se fosse circonciso.

 

Marisa Rusconi, L’ESPRESSO
– 05/08/1998

 

Dentro i cassetti

 

Tutti i giornali hanno parlato di recente del processo a Maurice Papon, criminale filonazista . ma la sua vicenda reale ha ispirato anche un romanzo “La cacci” di Brian Moore ( narratore assai conosciuto all’estero, nato in Irlanda nel 1921, emigrato in Canada nel ’48 ) che sta per uscire da Fazi. Costruita come un thriller, ma con il più ampio respiro di un dramma etico politico, la storia si dipana intorno a Pierre Brossard, alto ufficiale filonazista che, tra il ’40 e il ’44 fece deportare ( e a volte fucilare ) molti ebrei. Ora – anno 1989 – il vecchio ex comandante dall’apparenza mite attraversa il Sud della Francia chiedendo ospitalità nei conventi. Per decenni ha vissuto protetto dall’alto clero e da alcuni politici; ma adesso un’organizzazione filoisraelitica è sulle sue tracce, la polizia lo bracca… E a nulla serve la sua ossessione per la grazia divina.

 

Masolino D’Amico, LA STAMPA

 

Una messa per il nazi

Moore come Simenon

Nonostante i numerosi romanzi appassionanti che continua a scrivere, Brian Moore non è ancora così famoso da noi da rendere superfluo ricordare qualche suo dato: irlandese di Belfast, è nato nel 1921, si è naturalizzato canadese e ultimamente viveva a Los Angeles. Nei due suoi libri che mi è capitato di recensire su queste pagine, entrambi a sfondo esotico, la chiesa cattolica aveva una parte centrale: il protagonista di Manto nero era un gesuita secentesco pieno di buone intenzioni ma anche di intransigenze, che non riusciva a stabilire un contatto con i pellerossa, gente dal canto suo altrettanto poco elastica, nonchè infantilmente crudele con gli appartenenti ad altri clan; in Questa sola vita un messia nero educato alle missioni tentava brevemente di emancipare una repubblica di banane dal pugno di ferro dei suoi colonnelli. Nè nel primo caso nè nel secondo i preti di Roma facevano troppo buona figura, anche se ad alcuni di loro erano attribuiti scrupoli di coscienza. Lo stesso avviene nell’odierna Caccia, che in gran parte si svolge dentro priorati e conventi, alla fine degli Anni Ottanta: alcuni religiosi sono in grado di ragionare in modo costruttivo, ma per altri la convinzione di essere dalla parte giusta porta a decisioni e a contegni inaccettabili. Con alcune costanti – storie veloci e ben consegnate, concisione di scrittura con efficace attenzione a particolari come sapori, odori, sesazioni fisiche, che ci fanno sentire sul posto -, Moore è un eclettico, a ciascuna delle cui prove si può trovare un accostamento con un autore famoso. Per Questa sola vita, ad esempio, si fece il nome di Graham Greene; per La caccia un modello potrebbe essere Simenon, non a caso anche citato nel testo. Anche qui abbiamo infatti una Francia minore, di piccoli bar e ristoranti, di commissari a riposo con mogli attente alla cucina, di investigatori benintenzionati anche se non troppo astuti, e di sordidezze nascoste. Il tema, che secondo un’altra consuetudine di Moore si basa su di una situazione verificatasi nella vita vera, é, come dice il titolo italiano, la caccia a un vecchio criminale nazista, un francese biondo e occhiglauco che quarant’anni prima come comandante della milizia di Vichy si rese responsabile di un eccidio di ebrei. A differenza di altri come lui condannati a morte in contumacia, questo Pierre Brossard si è sempre rifiutato di espatriare, continuando a vivere in patria sotto mentite spoglie; nel ‘71 ottenne anche la grazia, ma subito dopo una nuova inchiesta lo accusò di crimini contro l’umanità, per i quali non c’è prescrizione. Ora il cerchio intorno a lui si sta stringendo, ma non sono solo le autorità, o alcuni esponenti di queste, a braccare il vecchio fuggiasco per presentargli il conto; c’é anche chi ha interesse a eliminarlo, magari attribuendo l’esecuzione a un fantomatico comitato di giustizia di matrice ebraica. Non si vogliono troppe indagini sui vari tipi di protezioni di cui Brossard ha beneficiato negli anni, da quella di alti funzionari governativi che a loro volta hanno spiacevoli cadaveri nell’armadio, a quella di un’ampia rete di ecclesiastici patriottici e nostalgici di papa Pacelli, che secondo loro aveva individuato nel nazismo il male minore, se non addirittura il baluardo contro i veri nemici del cristianesimo, ossia i bolscevichi e i giudei. Naturalmente non è lecito rivelare troppo di una trama che si basa sulla suspense di un inseguimento, dove la preda benché anziana e apparentemente fragile dà continuamente dei punti ai cacciatori. Bisogna però segnalare, nell’economia dell’eccellente risultato di Moore, l’attenzione che lo scrittore dedica alla pericolosa psicologia del criminale, il quale a parte qualche fastidioso incubo notturno che talvolta gli si affaccia, è perfettamente a posto con la coscienza: cattolico praticante, frequenta messe e sacramenti, ha da tempo ricevuto ogni sorta di assoluzione, e si adatta volentieri al regime spartano delle comunità monastiche che lo accolgono regolarmente come un fratello. Ripercorrendo i propri ricordi, rifarebbe tutto quello che fece allora, non senza un pizzico di nostalgia per l’inebriante sensazione di potere provata quando sollevava con la canna della pistola il pene di uomini nudi e tremanti, per controllare se fosse circonciso.

 

GAZZETTA DI REGGIO

Una storia nazista

Senza respiro

 

LA CACCIA è quella verso un uomo, un criminale nazista intorno al quale pian piano si stringe il cerchio della giustizia: tra intrighi e colpi di scena veniamo però a conoscenza di misfatti atroci, vergognose coperture, omertose complicità. Il racconto, da una storia reale, non lascia respiro.

 

Carlo de Risio, IL TEMPO

Papon e il regime di Petain ne “La caccia”, romanzo-verità non a caso nato fuori dai confini di Francia

Vichy, uno scheletro nell’armadio

Il protagonista adombra il collaborazionista recentemente condannato ma scampato al carcere. Antisemitismo, connivenze di politici e clero nella torbida atmosfera del 1940

Non è un caso che il romanzo-verità “la caccia”, sul collaborazionismo francese e sulle colpe dello Stato di Pétain nella persecuzione degli ebrei, sia stato scritto da un autore, Brian Moore, nato nell’Irlanda del Nord e trapiantato in Canada. I francesi, non da ora, hanno una istintiva “pruderie” a trattare, anche in chiave romanzata, le compromissioni con la Germania nazista, dopo la disfatta del 1940, nella convinzione che anche la patria di Voltaire dovesse contribuire alla edificazione di un “ordine nuovo” in Europa, all’ombra della croce uncinata. Il thriller di Moore ha come personaggio centrale, ovviamente inventato, Pierre Brossard, alias Pouliot, braccato dalla giustizia per i crimini commessi nel 1941-44, quando era un componente della Milizia pétainista. Ma dopo qualche pagina, il lettore non fa fatica a dare un nome e un cognome al personaggio: Maurice Papon, recentemente processato e condannato da un tribunale di Bordeaux per i suoi trascorsi collaborazionisti. Mentre il Brossard del romanzo paga con la vita i suoi misfatti, l’ultra ottantenne Papon, proprio per l’età avanzata, ha evitato la legge del taglione. Brian Moore va oltre il caso singolo e chiama direttamente in causa le connivenze politiche e quelle ecclesiastiche, il mondo cioè che a lungo ha coperto i vari Papon-Brossard. Col che si torna alla torbida atmosfera che regnava nella Francia non occupata, a Vichy, quando la Germania hitleriana controllava l’Europa continentale da Capo Nord ai Pirenei. I massimi dirigenti di quello Stato – Pétain, Laval, Darlan – erano decisi a dare un nuovo destino alla nazione francese, non più all’insegna del trinomio Liberté, Egalité, Freternité, bensì Dieu, Patrie, Famille, con l’implicita negazione degli “Immortali Princìpi” della Rivoluzione e della democrazia. Quanto alla ostilità verso gli ebrei, la Milizia non fece molta fatica a sfruttare i sentimenti contro Les Juiffes, sedimentati da secoli in Francia (basta e avanza quanto vi accadde con l’ “affaire Dreyfus”, provocando la veemente reazione di Emile Zola). Gli scheletri nell’armadio della Francia contemporanea -questa la verità- sono tali e tanti da scappare fuori non appena si solleva il sipario sulle ramificate ed “eccellenti” responsabilità della classe dirigente negli anni dell’occupazione tedesca. I Papon, dopotutto, erano soltanto personaggi “minori”. Si racconta che quando nell’estate del 1942 gli ebrei furono rastrellati a Parigi e concentrati al Vélodrome d’Hiver, gli abitanti della capitale non fecero una piega, mentre i mezzi pubblici utilizzati percorrevano i boulevardos con il carico di dolore. Questo per dire l’aria che tirava. Nel 1989, quando venne processato l’ufficiale delle SS Barbie, il “boia di Tolone”, saltarono molti luoghi comuni e si apprese che il prestigioso capo del Maquis, Jean Moulin, era stato denunciato dai suoi stessi connazionali. Conseguentemente, molti particolari del processo non furono resi di pubblico dominio. Si comprende (ma non si giustifica) perché la Francia ufficiale della Quarta e anche della Quinta Repubblica abbia “coperto” a lungo i vari Papon. E passato sotto silenzio anche il sanguinoso regolamento di conti prima per mano della Milizia Pétanista, poi del Maquis: una faccenda che costò la vita a decine di migliaia di francesi.

 

Brian Moore, LA REPUBBLICA
– 05/04/1998

 

Io, testimone di quei crimini

 

Il 16 luglio del 1995 il Presidente francese Jacques Chirac, durante un discorso tenuto al memoriale del Velodrome d’Hiver di Parigi (luogo in cui 53 anni fa la polizia francese agli ordini dei nazisti arrestò 13.000 ebrei), ha dichiarato pubblicamente la complicità del suo Paese nelle deportazioni di massa che condussero 76.000 ebrei francesi allo sterminio. Quella di Chirac è stata finalmente una pubblica resa di coscienza delle responsabilità dello Stato francese nell’aver mandato a morte migliaia di francesi di origine ebraica nei campi di concentramento tedeschi. La sua ammissione ha messo fine a oltre mezzo secolo di equivoci, delusioni e dinieghi. Ho scritto questo romanzo per due ragioni: in primo luogo, ero in Francia al termine della seconda guerra mondiale, al servizio del governo inglese, e ho visto di persona collaborazionisti catturati dalla Maquise e poi giustiziati per le strade di Marsiglia. Più tardi, sempre in quell’anno, ho seguito il processo di Pierre Laval, ministro degli esteri durante il governo collaborazionista di Vichy, successivamente giudicato colpevole e condannato a morte dalla Corte francese. In realtà, dopo aver giustiziato e condannato alcuni dei collaborazionisti più in vista, la nazione francese sembrò ansiosa di rimuovere il fatto che in Francia, nonostante il confortante mito perpetuato da De Gaulle e altri nello sforzo di salvare l’onor patrio, solo pochi cittadini decisero di entrare a combattere nelle file della resistenza. Il mio romanzo è nato proprio nel tentativo di investigare su questa tacita complicità e su una copertura che si è protratta per quasi 50 anni, coinvolgendo numerose figure nelle alte sfere dei governi francesi del dopoguerra, compreso naturalmente il protagonista del romanzo Pierre Brossard, basato sulla figura storica di Paul Touvier. Touvier era al tempo a capo dei servizi segreti della milice, l’organizzazione militare filonazista, e fu il mandante dell’uccisione di prigionieri ebrei: finalmente fu catturato e processato nel 1995. Seguendo tale processo, mi sono reso conto che Touvier aveva trovato ospitalità e protezione per più di 40 anni in monasteri e abbazie cattoliche sparsi in tutta la Francia, beneficiando della complicità della Chiesa, e, quasi certamente, della continua protezione di alti funzionari della polizia francese. Perché? Il misterioso e sinistro personaggio che vive nell’ombra e compare ne “La caccia” si basa integralmente sulla figura di Maurice Papon, l’ufficiale-burocrate che durante il regime di Vichy fu ben più importante di Touvier. Papon era il Segretario generale del distretto della Gironda nella Francia di Petain, e fu lui a firmare personalmente gli ordini che mandarono un totale di 76.000 ebrei, uoimini, donne e bambini, nei campi di concentramento in Germania. Subito dopo la guerra, Papon fece in modo di evitare il processo reintegrandosi nella vita civile e conducendo una brillante carriera politica. Sotto De Gaulle, rivestì la carica di Prefetto della Polizia di Parigi al tempo della guerra d’Algeria, e fu responsabile dell’uccisione, da parte delle forze dell’ordine, di oltre duecento algerini insurrezionisti. Successivamente fu ministro nel governo Giscard d’Estaing ed ebbe modo, ovviamente, di usufruire di appoggi nelle alte sfere. Diversamente da Touvier, inoltre, poteva disporre di ottimi avvocati. Per quanto riguarda la mia esperienza in quegli anni, dopo la Francia fui assegnato anche a una missione italiana, e fui incaricato di assistere il primo ufficiale inglese responsabile del porto di Napoli tra il 1943 e il 1944, e al controllo di approvvigionamenti, equipaggi e carbonili per le navi mercantili alleate che occupavano il porto. Erano i tempi dello sbarco di Anzio e della liberazione di Roma; aleggiava un’a

 

Corrado Augias, LA REPUBBLICA
– 05/04/1998

IL CASO/Esce a giorni “La caccia”, il thriller di Brian Moore ambientato nella Francia collaborazionista di Petain

Pierre Brossard boia in fuga

 

Il thriller di Brian Moore, “La caccia” (pagg. 238, lire 28.000 – Fazi ed.) ha un impianto di tipo classico molto efficace: un uomo braccato tenta di sfuggire ai suoi inseguitori. Chi ricorda il capolavoro di Frederick Forsyth, “Il giorno dello sciacallo”, sa di che cosa sto parlando. I romanzi di questo tipo permettono parecchie varianti dal momento che la caccia può essere raccontata sia dalla parte del cacciato che da quella dei cacciatori. Moore presenta una terza possibilità: presenta i fatti dal punto di vista dei vari personaggi che vi sono coinvolti. In questo modo il lettore sa in anticipo le intenzioni e le mosse il che gli dà una conoscenza anticipata e quasi una superiorità totale sui protagonisti. Se la memoria non m’inganna credo questo sia uno dei pochissimi romanzi che rievoca i misfatti del collaborazionismo nella Francia del marescaillo Petain. La sua forza è negli effetti da spy story, più accentuata nella seconda parte, ma è il tema portante che imprime alle pagine di Moore una cupa originalità, un sinistro vigore. Pierre Brossard, a suo tempo, gareggiando in ferocia con i nazisti, si rese personalmente colpevole della fucilazione di 14 ebrei. Allo scoppio della guerra gli ebrei francesi erano 330 mila. Un quarto di loro, donne e bambini compresi, vennero deportati in Germania e assassinati nei campi di sterminio del terzo Reich. I nazisti da soli non sarebbero stati capaci di tanto senza l’aiuto della polizia e delle autorità amministrative francesi come ha dimostrato anche il recente processo a Maurice Papon, all’epoca segretario generale della Gironda. Ancora più imbarazzante il caso dell’allora capo della polizia e, dunque profondamente coinvolto nelle deportazioni, la qual cosa non gli impedì di diventare in seguito un grande sostenitore di François Mitterand. Nel romanzo di Moore uomini come questi si agitano sullo sfondo, compaiono brevamente ma in momenti risolutivi, con intenzioni che restano oscure fino al repentino e drammatico colpo di scena finale quando capiamo chi è che in realtà vuole far uccidere Brossard. Il quale Brossard, l’uomo in fuga, feroce antisemita e anticomunista, è stato a suo tempo un valido ufficiale della Milice e anche oggi, ormai settantenne conserva un poderoso fiuto da poliziotto che gli permette di scampare a un paio di agguati. I contorni del personaggio sono largamente ispirati a quelli reali di Paul Touvier, accanito cacciatore di partigiani e di ebrei. Ma l’aspetto principale del romanzo, che alcuni potranno considerare provocatorio, sta nell’assunto che Brossard è riuscito per tanto tempo a sfuggire alla polizia grazie alla protezione della chiesa cattolica. Mentre gli agenti lo braccavano, conventi e monasteri gli davano ospitalità in nome della comune fede che le parole di un personaggio così riassumono: “A Roma Pio XII, aveva chiesto un’amnistia per chi era rimasto fedele al maresciallo (Petain). Il Papa conosceva il nostro vero nemico. Sapeva che il marescaillo era l’unico vero difensore della fede”. Non dirò nulla sull’intrigo che è un ottimo congegno basato sulla reciproca capacità di riscatto, anche perché un altro aspetto caratterizza questo racconto psicologico: tutti i personaggi, e Pierre Brossard più di ogni altro, si interrogano sulle ragioni del proprio agire sia rispetto al presente che all’oscuro passato di mezzo secolo fa. Gli abati dei vari monasteri si chiedono, con diverso spirito, che fine abbia fatto quella campagna anticomunista in nome della quale perfino i delitti del nazismo erano parsi errori rimediabili, anche a guerra finita, sovrapponendo questioni di coscienza e di fede, talvolta di semplice ipocrisia. Tra i molti thriller in questo momento in circolazione, nessuno tenta come questo di gettare uno scandaglio in un passato tanto sinistro e tuttora così difficile da raccontare.

 

Francesco Piccolo, IL MANIFESTO

Thriller

I conti in sospeso del maresciallo Pierre Brossard

 

La caccia di Brian Moore comincia così: un uomo spia un altro uomo in un bar. Aspetta l’ultima prova che gli confermi che quello è il suo uomo. La prova arriva. L’uomo segue con la sua macchina la macchina dell’altro, poi lo supera, dopo una curva si ferma e aspetta, pronto a uccidere l’altro uomo. Quando lo vede a tiro, alza la pistola, ma due colpi lo raggiungono al petto e muore. L’altro uomo si impossessa del punto di vista del romanzo, non è più l’altro uomo ma sarà il protagonista da ora in poi; scende dalla macchina e guarda il foglio che l’uomo avrebbe dovuto depositare accanto al suo corpo, se fosse riuscito a ucciderlo. C’è scritto: “Comunicato del comitato di giustizia per gli ebrei morti a Dombey. Quest’uomo è Pierre Brossard, ex comandante della seconda sezione della Milice della regione di Marsiglia. Condannato a morte in contumacia dal tribunale francese nel 1944 e nel 1946 e accusato di crimini contro l’umanità per l’assassinio di 14 ebrei a Dombey nelle Alpi Marittime il 15 giugno 1944. Dopo 44 anni di occultamenti, rinvii giudiziari e protezione da parte della chiesa cattolica, le vittime sono state vendicate. Il caso è chiuso”. E invece il caso non è chiuso. “La caccia” è un “thriller psicologico” di cui l’irlandese Moore si serve per raccontare la storia vera di Maurice Papon, un criminale nazista nella Francia di Petain, ricercato dopo quarant’anni da un magistrato finalmente deciso a fare giustizia e da quel “Comitato” che vuole farsi giustizia da solo. Quindi, dopo quarant’anni di complicità della Chiesa e dello Stato francese con i resti e gli eredi di colui che nel romanzo viene chiamato semplicemente “il maresciallo”, all’improvviso la caccia al vecchio Brossard ha una accelerazione, dovuta soprattutto alla volontà del giudice di evitare la giustizia sommaria extralegale. E’ per questo che anche i complici di Brossard, per la maggior parte monsignori e alti funzionari spesso in pensione, gli consigliano di andarsi a costituire. Ma Brossard è un uomo che dopo essere stato condannato nel ’46 ha ottenuto una scandalosa “grazia” e da quarant’anni vive scappando. La sua vita è questa, non ne ha paura, nemmeno quando vede che il cerchio si stringe. La sua vita è fatta di un carcere più grande di quello dove non vuole assolutamente entrare, grande quanto la Francia, le sue celle sono monasteri, le sue ore d’aria i caffè dove riceve l’assegno dalla fantomatica organizzazione e le pasticcerie dove compra torte che poi è abituato a mangiare in macchina, senza accorgersi delle briciole che gli rimangono attaccate al mento. Ecco, quel che costituisce l’interesse e a tratti la bellezza di questo romanzo è vedere un uomo che un tempo ha fatto cose agghiaccianti e che ancora oggi, vecchio e malandato, ha la capacità di ammazzare e di mostrare i suoi deliri attraverso una fede religiosa da fanatico – vederlo solo e triste, con una vita grama trascorsa senza più nessun ricordo da aggiungere agli unici che ha, che sono quelli dei suoi crimini nel tempo in cui era giovane e aveva potere. Tutto il resto della sua vita è stata così, come la vediamo ora, senza una vita vera da condurre in porto. Ora, in più, c’è soltanto la dentiera che traballa e che non può farsi aggiustare. Tutto qui. E questo è a tratti più forte, per il lettore, dell’orrore del personaggio, e tiene in piedi un romanzo che altrimenti sarebbe scontato e “facile”, e non ci sarebbe da fare altro che partecipare alla caccia anche noi.

LA CACCIA – RECENSIONI

 

Gerardo Marrone, LA SICILIA
– 27/11/2002

 

La caccia

 

Un thriller che non concede respiro, come la caccia sferrata – in parallelo con la polizia – da una misteriosa organizzazione, impegnata a mettere le mani su un collaborazionista francese. La preda è un ufficiale filonazista, autore di crudeli persecuzioni contro gli ebrei nel corso della Seconda Guerra Mondiale e ancora ben capace di mettere mani alle armi per ammazzare i suoi nemici. L’ormai anziano ex colonnello dell’esercito di Pètain si muove attraverso una rete di protezione, che ormai da decenni gli è garantita da sacerdoti e monaci  legati alla Chiesa tradizionalista d’Oltralpe: non a caso, più volte nel libro di Brian Moore ricorre il nome di monsignor Lefebvre, il vescovo che sfidò Roma e il Papa contestando le aperture del Concilio Vaticano II e ripristinando la messa in latino.

Per Brian Moore, scrittore nato a Belfast e morto in Canada tre anni fa, quest’inseguimento lungo le strade di Francia rappresenta un’occasione: riproporre vecchie ferite, lasciate dalla Guerra, mettendo in scena un tragico gioco delle parti per il quale sono morti milioni di uomini, donne, bambini, vittime delle ideologie. “La caccia” è un bellissimo giallo storico, che la casa editrice Fazi invia in questi giorni alle librerie in edizione tascabile, offrendo un altro avvincente esempio di romanzo ispirato alle piaghe purulente del Conflitto mondiale.

La caccia - RASSEGNA STAMPA

Libri dello stesso autore

Cielo gelido

Brian Moore

Traduzione di Laura Evangelista Considerato da Graham Greene come il migliore scrittore contemporaneo, Brian Moore ci offre con Cielo gelido una suspense degna del miglior thriller che, unita a una profonda indagine morale dei suoi protagonisti, conferma lo scrittore irlandese tra i più abili e...
VEDI DETTAGLI

La moglie del mago

Brian Moore

Traduzione di Lucia Oli­vieri Henri Lambert, illusionista celebre in tutta Europa per i suoi straordinari numeri di prestidigitazione e di magia, viene inviato in Algeria dall’imperatore Napoleone III, nella speranza che riesca a convincere gli arabi della miracolosa potenza della Francia e a...
VEDI DETTAGLI

Privacy Policy   •   Cookie Policy   •   Web Design by Liquid Factory