Manlio Cancogni
La carriera di Pimlico
Postfazione di Beppe Benvenuto
La carriera di Pimlico, pubblicato per la prima volta nel 1956 da Elio Vittorini nei suoi “Gettoni”, è sicuramente uno dei romanzi italiani più belli, originali e toccanti che trattino di un tema “sportivo”. Pimlico è un purosangue, destinato in teoria fin dalla nascita a conseguire i più prestigiosi successi internazionali nelle gare ippiche; la sua storia, e quella di altri purosangue, Bendigo, Marlù, Fantasio, viene raccontata al lettore attraverso la voce narrante di un anziano allevatore di cavalli che ha dedicato a loro l’intera sua vita. Così, le storie dei cavalli si intrecciano a quelle degli uomini che hanno legato a essi speranze e destini; e la parabola di Pimlico, che inevitabilmente arriva sempre secondo o terzo nelle gare più importanti e riesce a vincere solamente in occasioni meno prestigiose, rispecchia la parabola umana di chiunque si trovi a fare i conti con se stesso e il proprio talento. La carriera di Pimlico, assente nelle librerie italiane da più di 25 anni, è un romanzo incredibilmente moderno, al medesimo tempo lirico e duramente asciutto, allo stesso modo dell’inconfondibile e magistrale stile in cui è scritto. “Per un cavallo il successo nelle corse è questione di vita o di morte. Nel suo mondo non c’è posto per i mediocri e nemmeno per quelli che sanno appena distinguersi”.
– 12/11/2008
Il purosangue
– 17/05/2001
Che supplizio sedurre per gli altri
E l’uomo incontrò il cane. E poi il gatto, il cavallo, il canarino, l’oca, l’asino. Per un pò il rapporto fra le due creature fu paritetico: all’uomo l’animale addomesticato riconosceva il diritto di continuare a essere un umano, e epr l’uomo l’animale era davvero una bestia.
Non tutto era perfetto: spesso l’uomo esagerava nel trattare da cani anche il cavallo o l’asino. Ma il legame fra i due rimaneva nei limiti di un rapporto di sopraffazione e di asservimento del più forte sul più debole, come vuole la natura, profondamente politicamente scorretta.
Oggi questo rapporto è saltato. Il cane non può più fare il cane. Mangia cibi precotti e firmati, viene lavato di frequente, gli si impedisce di abbaiare e correre, deve soltanto camminare educatamente al guinzaglio. Non può accoppiarsi perché poi dei cuccioli che cosa ce ne facciamo, d’inverno indossa il cappotto, d’estate gira ben rasato in modo che sulla testa gli appare un cappellino di peli ricciuti e in punta di coda un civettuolo ponpon.
Gli viene appioppata un’anima a misura d’uomo, ma vede negati i suoi istinti, anche quelli che da sempre sono l’orgoglio della sua razza: il saper seguire una pista se è un cane da caccia, il saper fare la guardia se è un cane pastore. Il padrone gongola quando il veterinario gli spiega che per il suo cane lui è il capobranco, ma di quel suddito fedele capisce ben poco, anche se crede di aver capito tutto. Così, quando il cane fa il cane e sorprende il padrone con comportamenti anomali, lo portano dallo psicologo: questo cane ha qualcosa che non va, nella testa forse. Lo stesso succede con gli altri animali. Prendiamo i cavalli.
C’è chi sostiene che sono intelligenti, e chi è convinto che sono stupidi. Nell’incertezza, l’uomo dice che il cavallo è matto, e così si mette il cuore in pace. Chi però non se l’è messo affatto è lui, il cavallo, che da secoli si offre senza risultato alla nostra comprensione portandosi dentro il suo mistero non si può.
Qualcuno ha provato a raccontarlo, questo si, in un libro del 1956 e che oggi torna in edicola: ne “La carriera di Pimlico” (Fazi Editore), Manlio Cancogni fa infatti proprio un ritratto dell’enigma chiamato cavallo, quello da corsa, dando la parola a un immaginario responsabile di un allevamento.
Nelle parole e nelle riflessioni di questo sessantenne che ha passato la vita quasi in simbiosi col cavallo, non c’è retorica né vaniloquio. Rispetta troppo i cavalli e perciò non gli attribuisce pensieri che gli sono estranei. È pero capace di riconoscerne le emozioni, le sensazioni e le paure. Registra tutto, in silenzio, quasi a rimproverare chi vede il comportamento di stalloni e puledri come una specie di parodia del comportamento umano.
Assistiamo così alla vicenda di Varedo, campione che non vince più perché “ci ha la femmina qua dentro”, come dice il caporale della stalla battendosi una mano sulla fronte. E di Fantasio, che inspiegabilmente, sotto i nastri d’arrivo, si impenna. O addirittura si rifiuta di partire. Dorme poco, ma ha una nobiltà di portamento e un’eleganza di movimento innate. Ubbidisce, si lascia accarezzare, poi se ne va nell’angolo del box.
Al Premio Principe Amedeo di Torino, a 200 metri dall’arrivo, Fantasio schianta a terra. Il veterinaio sentenzia: “Aneurisma”. Nessuno si era mai accorto che il purosangue fosse malato. Non tutti i cavalli hanno la fortuna di Marlù, che viene donato da una cumenda a Gaby, la giovane amante, come liquidazione di fine rapporto.
Marlù ormai è un brocco, ma Gaby gli vuole bene, lo tratta come un supercampione, non lo venderebbe per nessuna ragione, neanche glielo pagassero d’oro: “Le era indifferente che vincesse o no. Le bastava vederlo entrare nella pista, alto, biondo”, e al termine della corsa “nella quale era arrivato fra gli ultimi gli correva incontro come se fosse il vincitore”. Così Marlù, come un bambino viziato, diventa pigro e permaloso: “Non sopportava di vedersi spuntare a lato il muso di un avversario”, e invece di lottare “seguiva in coda distaccato e indifferente”. Protagonista dei primi tre racconti è il cavallo che dà il nome alla raccolta. Anche Pimlico non è un gran campione, ma qualche gara riservata ai puledri la vince. Muove i primi passi sotto lo sguardo trepido della madre, che a cinque giorni dal parto muore. Per l’anziano “caporazza” la nascita del cavallino è un ritorno alla vita: da un mese è vedovo, negli ultimi tempi aveva “perso tutte le voglie”, ma confida: “L’allevamento ha un nuovo ospite e io mi sento gonfiare il petto di non so quale forza”.
Passano tre mesi, tra biberon e passeggiate: “Si può essere abituati quanto si vuole”, osserva il caporazza, “a vedere nascere e morire i cavalli. Si può dire che il cavallo non è intelligente, e in realtà non lo è, ma è impossibile restare indifferenti quando entrando in un box vedi avvicinarsi quel muso che ti guarda con due occhi umidi e inquieti. Gli occhi delle bestie non ridono mai. Di solito pare che riflettano una coscienza così profonda della vita che al confronto anche gli occhi dell’uomo più intelligente sembrano superficiali e sciocchi”.
E la riflessione non riguarda soltanto il cavallo: “Quando un animale ti avvicina il muso e ti rimane accanto silenzioso pare di sentire il sangue che scorre tiepido nel suo corpo. E qualcosa di quella vita ti entra nell’anima, la senti passare nel cuore, nei pensieri”.
Passano i mesi e Pimlico percorre tutte le tappe della giovinezza di un cavallo da corsa. Non si ribella alla domatura più del previsto, mangia e dorme regolarmente, e questi “sono requisiti essenziali per un corridore di qualità”. Vince la sua prima corsa e anche la seconda, ma a quella successiva arriva terzo. Continua con risultati altalenanti. Pimlico è forte, coraggioso, ma non c’è nulla da fare: è un mediocre: “La mediocrità è il destino dei più, e non soltanto nel mondo dei purosangue”.
Così non viene più portato alle corse e, a quattro anni, fa il bilancino, cioè accompagna negli allenamenti i puledri. È un lavoro faticoso: precedendo il suo allievo gli impone l’andatura, lo mette alla prova. Durante la corsa all’ippodromo gli fa da gregario. A una gara l’allievo si arrende. Pimlico allora abbandona il suo ruolo subalterno e porta alla vittoria i colori della scuderia.
Ma è un fuoco di paglia, al Gran Premio arriva terzo e il padrone sentenzia: “Farà l’esploratore”. In gergo, il cavallo che nell’allevamento deve far innamorare le fattrici destinate non a lui, ma a uno stallone. Un po’ come il cantante di serenate, che richiama la fanciulla alla finestra, la lusinga, la seduce e poi cede al corteggiatore la preda cotta a puntino.
Blue star è una bionda sua coetanea, con “una fiamma pervinca” che le brilla negli occhi. All’inizio fa la ritrosa. Pimlico l’annusa, le sfiora il collo, le mordicchia la criniera. Lei non reagisce, ma il giorno dopo “Blue Star rispondeva alle tenerezze, allungava il collo, agitava la coda, l’occhio le ruotava”, e il sudore la fa apparire “vaporosa come se fosse uscita dal bagno”.
È il momento. I ragazzi della stalla la portano dallo stallone. Così per dodici volte in un mese. Pimlico diventa capriccioso: “Il carattere gli cambiò perché quando un cavallo ha la femmina nella testa diventa cattivo anche se prima era stato ubbidiente”.
Ricordando la vicenda di Pimlico, il “caporazza” aveva osservato: “In ogni cavallo, come in ogni uomo, c’è un mistero che nessuna esperienza può aiutare a capire”. Sarà anche vero, però noi, con la nostra umana, limitata intelligenza osiamo chiederci: come dargli torto, povero Pimlico?
– 17/05/2001
«Io sono un cavallo da corsa»
Manlio Cancogni ha 85 anni ed è il più grande scrittore italiano. Se ne sta nella sua casetta in Versilia, perlopiù, con i suoi basettoni ormai tinti di bianco ma che erano di un colore rosso vivo (una cosa che per lui, lo scopro ora, è stata da giovane un motivo di disagio, di sofferenza). Spesso soggiorna, per lunghi mesi, negli Stati Uniti. Ha molte passioni: lo sport, per esempio, i quadri, i pittori. I suoi libri sono uno diverso dall’altro. Alcuni suoi articoli sono diventati leggenda come l’inchiesta sulla corruzione al Comune di Roma che andrebbe preso, ristampato a farne un opuscoletto come quello che racchiude le leggi costituzionali della Repubblica italiana, perché quell’inchiesta è come la Costituzione del giornalismo italiano (del buon giornalismo), ne è la legge fondante. Il mio sentimento nei confronti di Manlio Cancogni si può descrivere solo nei termini di quel sentimento assai desueto (caduto in prescrizione) che è la venerazione. Cancogni l’ho visto solo tre volte in vita mia e gli incontri risalgono tutti agli anni Ottanta. La prima volta accadde a Viareggio per un’intervista, tema: sport e letteratura. Seduto su un muretto che delimitava la spiaggia, era estate, pomeriggio tardi, Cancogni mi scrisse lì per lì un romanzo a voce, all’impronta, con protagonista Michel Platini, che allora illuminava d’immenso la Juve, un campione che secondo Cancogni aveva un lato d’ombra, un cruccio segreto, un nodo che era da dipanare. Mi parlò dei suoi romanzi distinguendoli secondo una categoria per me assolutamente inedita, quella del grado di cottura della pasta: mi disse quelli che gli sembravano ormai irrimediabilmente scotti e quelli che invece erano ancora al dente. La seconda occasione fu a Firenze per un convegno letterario. Quando Cancogni fece il suo ingresso nella sala (era Palazzo Medici Riccardi) con la sua giacca a quadri mi sembrò che fosse entrato un personaggio storico, un Garibaldi, un Dino Vallani. La terza volta lo vidi a Milano, che percorremmo a piedi quasi per la sua interezza mentre lo accompagnavo a casa di amici suoi dove era atteso per cena. Parlammo ininterrottamente (io naturalmente più che altro ascoltavo) di due persone in particolare: il grandissimo scrittore senese Federigo Tozzi e il grande puglie americano Mike Tyson. Cancogni parla a scatti, come un ragazzo, con ardore, come se fosse ancora decisivo parlare.
Cancogni scrive come se fosse ancora decisivo scrivere.
Rileggete l’attacco di La carriera di Pimlico, il più bel racconto italiano di tutti i tempi (non si accettano repliche né dissensi), appena ripubblicato da Fazi: «Sono il caporazza di Belfiore e credo, in Italia, il decano della categoria. E’ una buona professione che non annoia mai, forse perché gli animali hanno sempre delle risorse. Dopo anni di esperienza, per esempio, la nascita di un cavallo è ancora un’emozione».
Così comincia e quasi subito dopo il caporazza di Belfiore comunica al lettore un’informazione fondamentale eppure (lo stile di Cancogni) racchiusa in un unico giro di frase: «Rimasi solo davanti ai box. Non c’era più tempo di andare a dormire. Mia moglie è morta un mese prima e io non avevo voglia di tornare nella nostra camera dove, sul cassettone e sul comò, erano rimasti i suoi pettini e le sue forcine». Questa frase dà il tono musicale e sentimentale (è la stessa cosa) all’intero racconto ed è un tono di malinconia.
La vedovanza e la solitudine rendono scoperta l’animo del caporazza di Belfiore che nel suo modo elusivo, laconico, si lascia andare a un sentimento che si direbbe quasi paterno nei confronti di un cavallino, Pimlico appunto, nel quale gli sembra di intravedere un campione. Il caporazza di Belfiore, il decano della categoria come dice con quasi rassegnato orgoglio (essere decani significa essere più vecchi di tutti, non può essere un vanto, caso mai è una condanna), è un professionista di cavalli, e un professionista non si fa mai illusioni, deve vedere le cose come sono. Il caporazza di Belfiore si è comportato così tutta la vita, ma con Pimlico non ci riesce: «Si può essere abituati quanto si vuole a vedere nascere e morire i cavalli, a vederli correre, vincere e tornare sconfitti; si può dire che il cavallo non è intelligente, e in realtà non lo è, ma è imossibile restare indifferenti quando entrando in un box vedi avvicinarsi quel muso che ti guarda con due occhi umidi e inquieti. Gli occhi delle bestie non ridono mai. Di solito pare che riflettano una coscienza così profonda della vita che al confronto anche gli occhi dell’uomo più intelligente sembrano superficiali e sciocchi. Quando un animale ti avvicina il muso e ti rimane accanto silenzioso pare di sentire il sangue che scorre tiepido nel suo corpo. E qualcosa di quella vita ti entra nell’anima, la senti passare nel cuore, nei pensieri».
Così scriveva Manlio Cancogni (il libro fu pubbllicato nel 1956) ed era, ne converrete, un modo di scrivere decisivo. Sentiamo ancora il caporazza di Belfiore: «Accarezzavo Pimlico sul collo mentre con l’altra mano tenevo la bottiglia del latte e mi chiedevo: “Riuscirà?”. Per un cavallo il successo nelle corse è questione di vita o di morte. Nel suo mondo non c’è posto per i mediocri e nemmeno per quelli che sanno appena distinguersi». Pimlico è un racconto sul destino (anche).
L’editore Fazi correda la nuova edizione de La carriera di Pimlico con una bella postfazione di Beppe Benvenuto che ricorda, tra l’altro, il giudizio superlusinghiero di Luigi Baldacci sul Cancogni romanziere e su Azorin e Mirò in particolare, un libro unico della storia della narrativa italiana. A rendere la confezione ancora più appetitosa, se possibile, c’è anche uno scritto inedito di Cancogni (Per Pimlico, il titolo), che è come un capitolo che mancava (e non lo sapevamo) al racconto. Per Pimlico è un pezzo di autobiografia dello scrittore organizzata attorno alla sua passione, nata nell’infanzia, per i cavalli da corsa. Vi si narrano le imprese di Nearco e di Ribot. Vi si descrive un Cancogni giovanotto che comprava due volte alla settimana lo Sportman, «un giornale tutto notizie, dati, cifre e rari secchi commenti» (un programma non solo giornalistico ma anche letterario) e lo portava «ostentatamente piegato nella tasca sinistra della giacchetta». La lettura dello Sportman, la passione per le corse faceva sentire Cancogni molto importante: «Ed era forse un modo per rivalermi delle umiliazioni e sconfitte, vere o immaginarie, inflittemi dalla vita: la bassa statura, il pelo rosso, gli amori infelici, le bocciature».
La carriera di Pimlico ha un significato importante nella storia professionale dello scrittore che con questo racconto si riavvicina alla letteratura che aveva abbandonato: «Mi sono chiesto in seguito, seriamente, se non sia stato un errore. Tornare in pista, per un cavallo che ne è stato ritirato, è sempre un rischio».
Mentre Ribot trionfava nelle corse di tutto il mondo, Cancogni (che delle gesta di Ribot fu cronista assiduo) inventava Pimlico, il cavallo che non diventerà mai campione, e il suo dimesso ma intenso cantore, il caporazza di Belfiore.
Cancogni spiega che il nome del cavallo viene dall’omonimo quartiere londinese. Pimlico, dice Cancogni, non è un nome facile da pronunciare, così come il suo nome: Manlio. «Qualcuno, non ricordo chi, riferendosi ai guai del protagonista della storia, ha creduto di vederci un significato metaforico coinvolgente l’autore stesso. Può darsi».
Pimlico era lui, dunque? Può darsi, ma con una differenza. Che Cancogni è un campione.
– 31/05/2001
Premiato dai lettori
Il premio dei lettori Arge Alp fa gola a molti scrittori: perché è internazionale e a decidere sono migliaia di lettori che frequentano le biblioteche e le librerie. Il vincitore di questa seconda edizione del Premio lettori Arge Alp è Carmine Abate: lo scrittore nato nel 1954 a Carfizzi, piccolo centro di origine albanese in provincia di Crotone – e che da anni vive in Trentino, dove insegna – ha preceduto, al termine di un vero e proprio sprint letterario, lo svizzero Martin Suter. La proclamazione del vincitore è avvenuta a Coira, nel Cantone dei Grigioni, in Svizzera, dove una vera e propria festa della lettura ha fatto da cornice all’incontro tra autori, lettori, bibliotecari dell’Arge Alp.
Carmine Abate – che era in lizza con “il ballo tondo” edito da Fazi in Italia e da Malik in Germania (i dieci libri in gara dovevano essere accomunati da questa particolarità: essere pubblicati sia in edizione italiana che tedesca, a ribadire ulteriormente lo spirito di questo Premio capace di andare al di là dei confini a partire dal tema scelto per l’incontro di culture diverse: “Uebergaenge”, Passaggi) – ha ottenuto 1992 voti e ha preceduto lo svizzero Martin Suter che con “Com’è piccolo il mondo” (Feltrinelli e Diogenes editori) ha invece ottenuto 1942 segnalazioni dai lettori di Alto Adige, Bade-Wuerttemberg, Baviera, Cantoni dei Grigioni, S. Gallo e Ticino, Lombardia, Salisburgo, Tirolo e Trentino. Al terzo posto Carlo Lucarelli, il giallista conosciuto anche per le trasmissioni televisive che lo vedono protagonista-detective con il suo “Almost Blue” (Einaudi e DuMont) ha incassato 1070 voti. A seguire gli altri sette scrittori in lizza. Nell’ordine i lettori hanno voluto segnalare Friedercih Christian Delius, “La passeggiata da Rostock a Siracusa”, Sellerio; Dacia Maraini, “Dolce per sé”, Rizzoli; Josef Haslinger, “Ballo all’opera” e/o: Giuseppe Culicchia, “Paso Doble”, Garzanti; Birgit Vanderbeke, “Alberta riceve un amante”, Marsilio; Eralso Affinati, “Campo del sangue”, Mandadori, ed Elke Naters, “Regine”; Bollati Boringhieri. In totale le schede votate a questa seconda edizione del Premio dei lettori Arge Alp (titolo significativo: “Leggere senza confini”) sono state 9348.
Per Carmine Abate anche questo premio suona come una conferma di una carriera iniziata proprio con “Il ballo tondo” nel 1991 (poi ripubblicato in edizione riveduta nel 2000, ed è uscito in Germania e in Francia e che ha vissuto nel 1999 con “La moto di Scanderberg” (che ha sfiorato la cinquina del Campiello, ha vinto il Premio Libero Bigiaretti, ha ottenuto unanimi consensi di critica e in questi giorni inaugura la nuova collana di tascabili dell’editore Fazi) un’altra significativa tappa.
– 10/06/2001
La lunga vita di Pimlico il purosangue
Ci sono due tipi di libri che sono molto difficili scrivere: quelli erotici e quelli sugli animali. Se èpossibile credere di saper fare gli uni, con gli altri è praticamente impossibile illudersi. Un romanzo che ha per protagonista unanimale è uno straordinario pezzo di bravura. Non solo perchè è arduo tenere sveglia l’attenzione del lettore, ma anche perchè, per un’insondabile alchimia, tutto si traspone immdiatamente in una dimensione simbolica.
«La carriera di Pimlico» di Manlio Cancogni – uscito la prima volta nei “Gettoni” di Elio Vittorini nel 1956 – è un capolavoro del genere. L’autore, rileva Beppe Benvenuto nella postfazione, ha«le stimmate dell’irregolare, dell’inquieto, dell’asistematico». E’ una di quelle penne che, come diceva Hemingway, si sono spuntate nella pratica del giornalismo. Una pratica che ha spinto Cancogni a denunciare, con una memorabile inchiesta, la speculazione edilizia che ha devastato Roma nel dopoguerra.
Quest’esperienza ha sporcato la sua prosa, ma ha lavorato per il lettore.
Certo, a vedere la limpida perfezione della prosa di Cancogni, viene l’impressione che il giornalismo gli abbia giovato molto. La parabola di Pimlico, il purosangue che rasenta la gloria per poi scendere lentamente, uno dopo l’altro, tutti i gradini della carriera dei cavalli da corsa, è un implicita lezione morale. Infatti il cavallo- raccontato dalla scabra voce di un affezionato, schivo “caporazza” – fatutto con lo stesso slancio. Taglia i traguardi con l’identico zelo con cui, tramontato il succeso, si consacra docilmente, senza rimpianti ai doveri, sempre più umili, cui viene adibito.
Il nostro compito, sembra dirci Cancogni, non è vincere, ma servire, dando di volta in volta il nostro massimo. L’onore non lo si raggiunge o si perde superando o mancando un traguardo. E’ qualcosa che si mantiene, un ritmo, un passo interiore silenzioso e coerente. E l’ultimo traguardo è la morte.
Si entra nelmondo delle corse – nella corsa della vita – con un rituale d’iniziazione che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Si comincia dai primi ferri, leggeri, agli zoccoli, al capezzone, una museruola che obbliga il cavallo a obbedire al ragazzo che ne tiene l’estremità, obbligando il corridore a correre. Si finisce con le redini. «La sua rivolta dura qualche giorno e d’un tratto cessa».
Leggere questo libro significasentire il profumo dell’erba al mattino, quello dl fieno nelle stalle. Il rumore sordo degli zoccoli sui prati, quello convulso sulle piste e quello sonoro sul pavimento di legno della stalla. Significa perdersi nello sguardo di un cavallo. «Gli occhi delle bestie non ridono mai. Di solito pare che riflettano una coscienza così profonda della vita che al confronto anche gli occhi dell’uomo più intelligente sembrano superficiali e sciocchi».
Leggendo queste pagine, viene da pensare naturalmente agli scrittori come dei cavalli. E viene da chiedersi che tipo di cavallo sia l’autore.
Se le gare che gli scrittori vincono sono i premi e le tirature, andiamo male. Se la muscolatura è lo sforzo di aderire a una parte politica vincente, ancora peggio. Pochi saprebbero dire se e come è schierato Cancogni. Forse il mmondo dei cavalli è più semplice. Non ci sono purosangue come Cancogni lasciati da parte. Ma, insistendo sulla metafora, ci piace pensarlo come un campione che corre da solo, nella penombra e vince gare senza premi e altoparlanti. E’ inutile chiedersi se la cosa ha un senso o non ce l’ha.
– 08/06/2001
Il cavallo perdente
«Non sono intelligenti. Sono nervosi; uno stecco di traverso sul terreno bastaadatterrirli. Non hanno misura, non collegano le cose, gli effetti con le cause. Sono ancora selvaggi, forse matti. Con quale acutezza sentono, però». Il mondo dei cavalli visto con gli occhi e raccontato con le parole di chi questi animali da sempre li accudisce.
«La carriera di Pimlico» (il nome di un cavallo, preso in prestito da un quartiere di Londra) è un breve, asciutto, ma sentito romanzo di Manlio Cancogni uscito nel ‘56 e ripubblicato da Fazi Editore (116 pagine, 22.000 lire). Pimlico non vince mai nelle occasioni che contano, non oltrepassa la soglia che porta alla gloria, sfida vanamente la vita. Pimlico è in fondo un cavallo comune. Con un destino simile a tanti uomini.
– 15/06/2001
La carriera di Pimlico
Può capitarvi sotto gli occhi di sorpresa mentre curiosate tra gli scaffali di una libreria. Vi colpirà subito la copertina che raffigura un cavallo in corsa e il suo fantino volto a guardare se sarà raggiunto dai rivali. E sul retro alcune parole: “Per un cavallo il successo nelle corse è questione di vita o di morte. Nel suo mondo non c’è posto per i mediocri e nemmeno per quelli che sanno appena distinguersi”.
Potreste pensare che quella di Pimlico sia la storia di un crack, un campione imbattibile come lo furono Ribot o Nearco. E invece no. Perché La carriera di Pimlico di Manlio Cancogni, ripubblicata da Fazi dopo 45 anni -la prima edizione è del 1956 nella collana Gettoni curata da Elio Vittorini- è una storia (anzi, una raccolta di storie) di cavalli mediocri, purosangue così così che hanno vinto raramente.
E allora vi affezionerete ancora di più alle loro vite come a chi le racconta, cioé il decano dei capirazza italiani, un sessantenne rimasto vedovo da poco che non ha voglia di tornare nella camera “dove sul cassettone e sul comò, erano rimasti i suoi pettini e le sue forcine”. Per solitudine o per attacco di sentimentalismo il decano si innamora di un puledro rimasto orfano alla nascita, Pimlico, malgrado “solo i dilettanti commettono l’ingiustizia di preferire un cavallo a un altro perché credono che dovrà riuscire meglio”, visto che “in ogni cavallo, come in ogni uomo, c’è un mistero che nessuna esperienza può aiutare a capire”.
Pimlico ritornerà nell’allevamento come “bilancino” -darà l’andatura ai puledri che si preparano alle corse- e poi come “esploratore” -farà innamorare le fattrici che una volta in calore saranno montate dallo stallone di turno.
Vite e destini ‘dietro le quinte’, dunque, malinconici e incerti, incompiuti e perdenti nelle corse e nell’amore. Vite e destini quasi umani: Varedo non vincerà più perché nessuno si è preoccupato di togliergli ‘la femmina’ dalla testa; Fantasio, potente nelle corse, ma inquieto e irregolare per temperamento morirà durante una corsa perché nessuno si è accorto della sua malattia; Marlù è senza coraggio; Bendigo è buono e capace ma sarà rovinato da un fantino; Moltrasio è “un cavallo di carattere” ma incompreso, malgrado ci sia “un punto (…) dove si fissa subito lo sguardo di un padrone che sa il fatto suo: fra la fronte e gli occhi; è lì dietro che s’annida la verità”.
La carriera di Pimlico rimane -anche a distanza di un quarantennio- uno dei pochissimi, se non l’unico libro italiano che guarda “nelle faccende degli uomini attraverso il mondo entro cui si allevano i cavalli (…) la visione che se ne ha risulta subito molto italiana”, come scriveva Vittorini. Ci sono i proprietari inesperti e sentimentali come Gaby o quelli acuti e benevoli come il padrone del caporazza che ricompra un vecchio cavallo per evitargli il macello. Quelli arricchiti che hanno le scuderie perché fa prestigio.
E poi gli allenatori, i fantini (su di loro vd. anche http://www.caffeeuropa.it/libri/106libri-fantini.html), gli stallieri, gli intenditori d’ippica con lo Sportman in mano. E ci sono gli odori e i paesaggi degli ippodromi come San Siro, “il migliore”, e Le Capannelle, “terra di pipe, non c’è niente da fare”, o dei luoghi dove si sverna come la Barbaricina. Ci sono le gare: il Gran Criterium, il Chiusura, il Derby, l’Optional.
Con questo libro Manlio Cancogni tornava in quegli anni nella pista della letteratura dopo un decennio dedicato unicamente al giornalismo, rischiando “per un cavallo che ne è stato ritirato”, ha scritto. E per un caporazza -aggiungiamo- attento osservatore che, vissuto per tutta la vita fra gli allevamenti e gli ippodromi, mette insieme termini tecnici come van, yearling, castrone, e massime dettate dal mestiere in un linguaggio semplice e diretto, che potrà straniare i giovani abitueè delle letterature cyber-punk, post-splatter, post-pulp e bla bla bla.
Un linguaggio tipicamente giornalistico -Cancogni ora ottantacinquenne è stato cronista sportivo e famoso inchiestista tra il 1945 e l’89- e cinematografico -ebbe alcune proposte per trarre un soggetto da La carriera di Pimlico- tanto che leggendo la storia sembra di vederne già il film: le corse spettacolari, il lavoro di scuderia ma soprattutto Pimlico che si avvicina a Blue Star, per annusarla, sfiorarle il collo, mordicchiarle la criniera.