Angela Carter
La donna pomodoro
Eros, cibo e letteratura
A cura di Valeria Viganò
«Le città hanno un sesso: Londra è un uomo, Parigi è una donna, e New York è un transessuale in piena regola».
Perfetto emblema di questa raccolta di saggi e articoli di Angela Carter è La donna pomodoro, bizzarro feticcio sessuale e alimentare che dalla copertina di un rotocalco denuncia la confusione e l’ipertrofia dei desideri che caratterizza il nostro tempo. Geniale interprete e analista di ogni forma d’eccesso e della nostra décadence, Angela Carter non si è mai tirata indietro di fronte alle conseguenze più bizzarre della sua libertà intellettuale. E nemmeno la forma del saggio critico si sottrae fra le sue mani a una esigenza di originalità, capace di mettere in luce sorprendenti analogie. È soprattutto, quello di Angela Carter, un inconfondibile stile della lettura: il dono di poter discorrere con lo stesso tono, penetrante e malizioso, di un romanzo, di un indumento femminile, di un cibo raffinato; e assieme la consapevolezza che allo sguardo animato dal desiderio spetta in sorte il difficile privilegio di “mutare l’aspetto del mondo reale”.
– 02/02/1997
Nell’antro di Angela
Visionaria e carnale, figlia esemplare del proprio tempo, Angela Carter coglie ed esprime nella poliedricità della sua produzione artistica i momenti più cruciali dell’athos contemporaneo. Racconti, poesie, sceneggiature, recensioni critiche. La complessa attività della scrittrice anglosassone nata in un’età esuberante e feconda, sperimentale e rivoluzionaria cede alla dilatazione e all’eccesso piuttosto che ad un asciutto minimalismo: di linguaggio e di intenzioni. “Mi è capitato una volta di definirla una scrittrice massimalista. Se esiste il minimalismo, perché non il massimalismo?”, scrisse pensando a lei Guido Almansi. E’ una inventrice di “storie ampie e complesse, con una sovrabbondanza barocca della scrittura” a cui accosta intuizione, sarcasmo e trasgressione. Facendo luce sugli spazi d’ombra che offuscano le cose, ne svela gli aspetti profondi e ne rende leggibile ciò che ad occhi disattenti sfugge. Geniale interprete ed esegeta di ogni forma d’eccesso Angela Carter non si sottrae alle più bizzarre urgenze della sua libertà intellettuale e con lo stesso spontaneo incedere, penetrante e malizioso, distende sulla pagina pungente acume e trasognata liricità. Cosicché la scrittura si concede fra le sue mani dando vita ad analogie uniche e ad immagini sorprendenti. “Nell’altro dell’alchimista” (Rizzoli 316 pagine, 27 mila lire) è il primo di due volumi destinati a raccogliere tutti i suoi racconti dalla prima raccolta, “Fuochi d’artificio” uscita nel ’74 a “Fantasmi americani”, pubblicata quasi vent’anni dopo, oltre sei straordinari inediti. I racconti sono presentati in ordine cronologico così da offrire uno sguardo d’insieme di tutti i temi tipici dell’evoluzione cartesiana: le ambientazioni gotiche popolate da lupi, licantropi e vampiri, l’erotismo oscuro, le atmosfere convenzionali del Giappone, Hollywood e il suo universo decadente, il jazz e il luna park: il mondo dell’artista da quattro soldi, dell’ipnotizzatore e dell’imbroglione. E poi le fiabe e i miti reinventati in chiave erotica e femminista, come processo di una decolonizzazione del linguaggio e dell’immaginario patriarcale. Nel tessuto narrativo di Angela Carter Cappuccetto Rosso non è più vittima innocente, ma creatura dissoluta e selvaggia desiderosa di conquistare il lupo con la sua sessualità rapace (da cui “La compagnia dei lupi”, racconto e successivamente film che l’autrice realizzò con Neil Jordan mettendo insieme alcune delle sue storie di licantropia). Mentre la favola antica della Bella e della Bestia cambia prospettiva e diventa metafora del desiderio e del rapporto sessuale. Poetessa del racconto la Carter smonta e ricostruisce ciò che conosce con quell’alchimia della parola che provoca lo stupore e la sovversione del mondo usuale di vedere le cose: “ci apre una vecchia storia e al suo interno, come in un uovo, trova una storia nuova, la storia di adesso che vogliamo ascoltare”, scrive nell’introduzione Salman Rushdie. E parlando del “funambolismo cartesiano” esibito talvolta sopra una melma pastosa di preziosissimi e stucchevolezze indigeste, resta affascinato dal miracolo della sua scrittura e come spesso “riesca a salvarsi in extremis, quante piroette faccia senza cadere, o quanti numeri di destrezza senza che la palla le sfugga di mano”. Ancora di Angela Carter Valeria Vigano ha recentemente curato e tradotto una raccolta di saggi radunati sotto l’insegna del narrare. “La donna pomodoro. Eros, cibo e letteratura” (Fazi Editore, 169 pagine, 22 mila lire) è il titolo di un prezioso itinerario attraverso la carriera letteraria della scrittrice inglese. Sono schizzi vivaci e impertinenti, una irruzione tra le righe, i contenuti e gli ingranaggi narrativi di libri che in comune hanno una vena provocatoria. Sembra di sentirla pensare, di vederla scrivere, curiosa e sfacciata, di un romanzo, di un indumento femminile, del dandismo gastronomico: “Tutti i libri, anche i libri di cucina e i manuali di manutenzione dell’automobile, sono una narrazione”: è ciò che gli inglesi chiamano “storyteling”. Raccontare storie con un desiderio irrefrenabile, un’inclinazione dello spirito del tutto svincolata dalla forma e dal genere che la contiene. Storie, cibo e la semiotica del cibo. Il femminismo, l’Inghilterra e l’America: “La donna pomodoro” è una prova del lavoro di Angela Carter, quindici anni in cui scrivendo di libri ha dimostrato ciò che uno scrittore prima di tutto dovrebbe essere: un amante appassionato della letteratura che, senza risparmiarsi, assimila, valuta, commenta, penetra. Si parte dal folklore delle leggende irlandesi, arabe e germaniche e dal loro fantamondo per finire al 16 luglio 1904, il Bloosday, il giorno in cui “per qualsiasi scrittore di lingua inglese il ventesimo secolo inizia”. E senza un ordine cronologico i brani si succedono, puntando lo sguardo su Bataille, Burroughs e ballare, dei pulp ante-litteram, come li definisce Valeria Vigano. Quando essere pulp significa davvero rottura e provocazione. Si legge poi di Walter de la Mare e della sua donna nana, di Charlotte Brontë e della sovversiva Jane Eyre. E ancora di costume, di cinema, di moda e di feticismo in un saliscendi di parole tanto corpose quanto affilate, scurrili ed eleganti. “Qui – giura la traduttrice – la sensazione è di essere su un ottovolante impazzito, che curva inaspettatamente, che si fionda nelle viscere, riemerge da uno stagno e punta al cielo”. Ha l’ardire di iniziare la recensione di un libro di cucina accennando alla carestia in Etiopia e alla fame nel mondo. Ha il coraggio di sferrare accuse al suo paese e di gridare a gran voce il suo credo femminista, violento e intuitivo. Difficilmente racconta la trama, poche volte dà riferimenti culturali e spesso si abbandona alla furia dei propri pensieri: “mi piace scrivere di scrittori che mi provocano un godimento. Il godimento ha sempre avuto pessime critiche in Inghilterra. Io sono completamente a favore del piacere. Vorrei ce ne fosse di più in circolazione. Mi piace anche discutere. Un giorno senza discussioni è come un uovo senza sale”.
– 11/01/1997
Brume celtiche e perversioni britanniche
“Nel mio ambiente sono notoriamente conosciuta come una persona scurrile (…) Do la colpa a mio padre, un giornalista scozzese, che mi ha lasciato in eredità il turpiloquio e il gusto per tutto ciò che è carta stampata. Per cui sua figlia, in questi ultimi quindici anni, ha scritto recensioni di libri per poi cancellare con la matita blu le prime viscerali reazioni come ‘maledettamente schifoso o fottutamente atroce”. Così scriveva Angela Carter nell’introduzione a Expletives Deleted, di cui Fazi ha tradotto diciotto dei trentuno capitoletti dell’originale, con il titolo di una delle sezioni del libro. ‘La donna pomodoro’ non è altro che uno dei disegni di Erté in uno dei libri recensiti (Food in Vougue: Six Decades of Cooking and Entertaining), scelto a rappresentare questa raccolta di saggi e articoli. Angela Carter non nasconde l’atteggiamento feticistico che nutriva nei confronti dei libri, ma ci ricorda che quello che conta veramente è la narrazione: “Noi viaggiamo sul filo della narrazione come funamboli sospesi nel vuoto”. Ecco perché la parte più consistente del libro è quella sul raccontare storie. Grazie a certi scrittori, come John Berger e William Burroughs (‘Terre occidentali’ e ‘E’ arrivato Ah Pook’), James Graham Ballad (‘L’impero del sole’) e Christina Stead, grazie alla loro capacità di usare un linguaggio preciso, “vediamo le cose più chiaramente”. Angela Carter parla delle leggende popolari irlandesi curate da Henry Glassie, di quelle arabe tradotte da Inea Bushnaq, e di quelle germaniche dei fratelli Grimm, passando per la ‘Storia dell’occhio’ di Bataille, e il surrealismo. Tutti argomenti che conosceva bene, e soprattutto amava: da queste pagine emerge una notevole compattezza di gusti. Un’altra sezione, intitolata ‘La petite difference’, raccoglie il saggio che introduce l’edizione Virago del 1990 di ‘Jane Eyre’ di Charlotte Brontë e l’articolo su ‘Moda e feticismo’ di David Kunzle. L’epilogo è dedicato al Bloomsday, perché “per qualunque scrittore di lingua inglese il ventesimo secolo inizia il 16 giugno 1904”. Citando la bravissima curatrice, dalla postfazione che chiude il libro: “La sensazione è di essere su un ottovolante impazzito, che curva inaspettatamente, che si fionda nelle viscere, riemerge da uno stagno e punta al cielo”.
– 02/02/1997
Pomodori come pugni nello stomaco
Chiunque abbia avuto la fortuna di sentirla parlare, non può serbare di lei un ricordo netto, magari anche negativo. Angela Carter era, secondo Barbara Lanati che l’ha tradotta svariate volte per Feltrinelli, una donna “molto”. Molto diretta, molto passionale, dagli occhi molto azzurri. Poteva presentarsi all’università ad una conferenza di stampo aulico e paludato in completo di pelle nera e tacchi vertiginosi o infagottata di jeans da capo a piedi, che il suo sguardo curioso e sfrontato velato di caustica ironia, sarebbe rimasto identico a se stesso. Leggendo “La donna pomodoro”, raccolta di recensioni che attraversano storicamente la carriera letteraria della scrittrice inglese scomparsa nel 1992, sembra di sentirla parlare, di vederla muovere. Cala con naturalezza sulla pagina frasi impegnative come “la fine di ogni storia, anche se lo scrittore evita di menzionarla, è la morte, il punto in cui il nostro tempo si interrompe” ma poi vira bruscamente sugli aspetti più prosaici della vita, quindi della scrittura, per affermare: “Io sono completamente a favore del piacere. Vorrei che ce ne fosse di più in circolazione” lasciando in chi legge la sensazione di avere ricevuto un pugno nello stomaco. Angela Carter è un recensore atipico: non riassume mai la trama del libro di cui parla, dà per scontati molti riferimenti culturali e impiega uno spropositato numero di righe per parlare a ruota libera di altro, mettendoci del suo. Dissemina sulla pagina molti esempi del suo notevole acume critico: “La scrittura di Charlotte Brontë occupa lo spazio che esiste tra passione e repressione. Sa che non avrà ciò che desidera; sa anche che le sarà restituito nella fantasia”. Ha il coraggio di incominciare una recensione su un libro di cucina ricordando la carestia in Etiopia e la fame nel mondo, ma soprattutto dà l’impressione di aver letto dall’inizio alla fine i libri di cui si occupa. Agguerrita vetero femminista (“Mio Dio, anch’io nella mio giovinezza sprecata come casalinga avevo l’abitudine di fare il pane”), non perde occasione per criticare gli inglesi e la loro cultura, senza però mai dimenticare l’ironia: “L’entusiasmo per la tavola, per il vino, e addirittura per il tipo di cucina (…), è una caratteristica di una sottospecie deviante della borghesia britannica che è sempre andata pazza per l’arte con l’entusiasmo diligente del vero amateur”. Quando però si occupa di qualcosa che le interessa davvero, come l’arte e la letteratura, trova parole sognanti e accorate: a proposito del Surrealismo scrive. “La bellezza surrealista è caotica. Si può percepire, non vedere. È come un’eccitazione dei nervi” e si sbilancia nel giudicare il “Il Budda delle Periferie” di Kureishi “Un romanzo meraviglioso”. Ma è a James Joyce che dedica le parole più rispettose. In una cronaca del Bloomsday, festa irlandese dedicata all’autore dell’Ulisse, scrive: “Joyce rende l’inglese più irlandese, più europeo, lo decolonizza: lo ritaglia a misura di questo secolo, e crea un’enorme spaccatura tra la letteratura inglese e la letteratura in lingua inglese e, facendolo, ha reso (scusate l’annotazione personale) anche me libera. Libera non di fare ciò che ha fatto lui; piuttosto, di trattare la parola non come fosse sacra ma con la certezza che è sempre Profana”.
– 02/02/1997
PROSA SANGUIGNA PER CIBI MANIPOLATI
Occasioni, ma non d’occasione. Si può riassumere così l’attività giornalistica di Angela Carter di cui si può leggere ora una scelta con “La donna pomodoro, Eros, cibo e letteratura” (a cura di Valeria Vigano), ordinata dalla stessa scrittrice proprio l’anno della sua morte prematura, il 1992. Infatti è subito evidente lo stretto rapporto – e il continuo travaso – esistente tra i temi degli articoli e quelli della sua narrativa che si snoda, come sappiamo, tra eccessi dell’immaginazione, oniriche visioni di desideri sensuali e umorismo (quello particolare che non rifiuta l’invettiva e le scurrilità). La Carter non rinuncia proprio a nulla, la sua è una prosa sanguigna fatta di materialità che conduce all’indignazione e al divertimento: il lettore, là dove fatalmente lo conduce la scrittrice, ride di cuore nel pigiare il piccolo bottone che fa scoprire gli altarini dei tabù più nascosti della civiltà borghese occidentale (non solo inglese). Anzi, nell’introduzione, con autoironia, la Carter confessa che una rinuncia l’ha fatta: ricordando il gusto per il turpiloquio ereditato dal padre, scrive che “sua figlia, in questi ultimi quindici anni, ha scritto recensioni di libri per poi cancellare con la matita blu le prime viscerali reazioni come “maledettamente schifoso” o “fottutamente atroce” e poter dare un giudizio più equilibrato e oggettivo”. Il titolo inglese (“Expletives Deleted”, “Bestemmie cancellate”) ci rimanda a questa autocensura. Invece, il titolo italiano ci rinvia al nucleo centrale (che la Carter scruta con occhio insieme dolorante, sarcastico e politico). Sono le recensioni a libri dedicati alla manipolazione del cibo nelle classi abbienti (da quella classica borghese alla nouvelle couisine) contrapposta all’invariata alimentazione dei poveri, quella della patata (memorabile la sua riduzione di un classico su questa panacea a doppio taglio, il saggio “La storia della patata” di Redcliffe Salaman). Dove (attualità dell’inattuale) la dicotomia tra Nord e Sud del mondo viene esemplificata nel motto campeggiante sulla copertina di un tipico manuale di estetica ed etica del cibo, “The Official Foodie Handbook”: < Siate moderni – venerate il cibo >. Ma anche gli altri articoli hanno lo stesso piglio di conoscenza desiderante: ad esempio, quello divertente quanto icastico sul surrealismo (dove la scrittrice non manca di rilevare il maschilismo di fondo dei surrealisti storici), o quelli sulle leggende popolari o sulle imprevedibili affinità (con qualche “piccola differenza”) con Charlotte Brontë. La Carter è stata un’ottimista irriverente: le sue fantasie di sangue che affrescano camere in cui fatalmente entrano donne di ogni età e condizione (che lei, di buona famiglia borghese, avrebbe volentieri avvertito: “no, no, non entrate!”) sono il necessario passaggio per la loro maturata sopravvivenza. Queste recensioni sono legittime consanguinee di queste fantasie narrative.
– 02/02/1997
Angela Carter. “La donna pomodoro. Eros, cibo e letteratura”, a cura di Valeria Viganò, Fazi, Roma, 1997. pp. 173, L. 22.000.
“Forse scrivere è questione di vita e di morte”: così Angela Carter finisce la sua Introduzione al volume augurando buona fortuna a Salman Rushdie, condannato a morte dagli integralisti islamici per la sua scrittura e le sue idee, esempio della posizione di molti scrittori la cui libertà intellettuale e personale viene limitata dal carcere, dalla condanna a morte, dalla persecuzione. In questo testo, che è una raccolta di saggi e recensioni scritte e selezionate dall’autrice, è possibile rintracciare mano a mano che si procede nella lettura delle diverse sezioni, la sua poetica. Tra le righe di questa breve introduzione l’autrice traccia non solo il filo conduttore che unisce recensioni di opere di diverso genere, ma sembra riassumere in questa scelta dei propri scritti critici le tematiche della sua produzione narrativa. La raccolta di recensioni e articoli non è posta, come dice lei stessa, in ordine cronologico, ma è divisa in diverse sezioni che sembrano seguire le tappe della sua vita come donna e come autrice. La prima, e la più lunga, sezione della raccolta si intitolata “Raccontami storie” e raccoglie recensioni di libri di fiabe e leggende, romanzi di fantascienza, e un articolo sul surrealismo. A ben guardare queste sono tutte tematiche che la Carter riprende nella sua opera narrativa, la revisione delle fiabe, la presentazione di paesaggi spaziali e temporali da fantascienza, quel gusto surrealista così presente nei suoi romanzi carichi di parole ed immagini forti, quell’alchimia della parola che provoca lo stupore e la sovversione del modo usuale di vedere le cose. D’altronde sembra proprio essere questa “capacità di vedere il mondo come se fosse la prima volta” che la Carter ammirava nei surrealisti, quei surrealisti che avevano la capacità di creare una poesia che era “ferita” ed “arma”, e di mostrare una bellezza caotica al servizio della libertà. I surrealisti: “Erano, a parte qualche amichevole eccezione, tutti uomini: e poi mi vengono a raccontare che io sono la fonte di ogni mistero, bellezza e alterità, perché sono una donna. Io sapevo che non era vero. Sapevo anche che pretendevo per me stessa la parte che mi spetta di immaginazione. Non una quantità eccessiva, badate bene: non c’era avidità in me. Ma la voglia di essere equamente partecipe della visione e della fantaasia”. Ecco quindi che anche nella saggistica della Carter emerge una critica alle relazioni di potere basate sulla differenza di genere, altra tematica centrale dei suoi romanzi. La Carter si dichiarava una scrittrice femminista, perché il movimento femminista era parte della sua vita, e sottolineava l’importanza della scrittura femminile come processo di una decolonizzazione del linguaggio e dell’immaginario patriarcale, unita alla necessità di una riscrittura dei miti e delle leggende, quello che lei definiva “un business della demitologizzazione”. Nella raccolta troviamo anche una sezione intitolata “La petite différence”, che è insieme una replica della Carter come donna ad una società che le suggeriva come comportarsi, come pensare, come scrivere, e un elogio ad una scrittura femminile sovversiva di un altro tempo, quella di Charlotte Brontë. Questa raccolta di scritti critici della Carter ha un tono penetrante, ironico, immediato, dato da un linguaggio colto e raffinato mescolato alla lingua parlata e ad immagini volutamente forti scelte al fine di scuotere il lettore. Letti uno dopo l’altro, questi saggi ci appaiono come una ricerca degli spazi narrativi, degli autori e delle autrici amate e lette con passione in un percorso in cui l’autrice ritrova quelle storie inventate, riprese dal proprio bagaglio culturale e ripetute, rinarrate sempre in modo diverso. Per la Carter le storie sono “come le scatole cinesi o le siepi inglesi, le storie contengono racconti che ne contengono altri ancora, tanto che mentre entri nella prima storia, ti ritrovi nelle altre, passando da una trama all’altra ogni volta che ci si imbatte in una svolta, finché alla fine si raggiunge il cuore dello spazio narrativo”. Le recensioni della carter sono una narrazione delle strategie che gli autori da lei amati e presi in esame hanno escogitato per “sottrarsi all’inevitabile conclusione”, al punto in cui il tempo della narrazione si interrompe, al fatidico momento che Sheherazade sfuggiva. Per la Carter tutti i libri sono una forma di narrazione, dai romanzi ai saggi, dai manuali ai libri di cucina che lei legge attraverso “una semiotica del cibo”. Il piacere delle lettura appare per la Carter come il piacere del cibo, come se un libro potesse essere divorato con gli occhi in un solo boccone, o lasciare un sapore amaro in bocca tale da provocare poi sulla pagina un forte sarcasmo. Infatti nella sezione intitolata “La donna pomodoro” la Carter ripropone una recensione di un libro di cucina che aveva suscitato risposte indignate in alcuni lettori per le forti critiche da lei espresse nei confronti di una voracità da élite per il cibo da parte di una classe di nuovi ricchi e snob. La pungente e dissacratoria analisi dei nuovi stili e degli “status symbol” di una classe di ricchi emergenti che cerca di circondarsi di un’aura di raffinatezza e di stile aristocratico si affianca ad una chiara e polemica posizione politica dell’autrice, il cui rigore può essere ritrovato anche nei suoi romanzi. La Carter appare come una lettrice attenta e critica, che prova piacere nel leggere e nello scrivere di autori che le suscitano interesse ed emozioni perché provocatori, sovversivi, capaci di “illuminare i tempi”. La lettura sembra essere per l’autrice un momento di godimento e di messa in discussione di se stessi e degli altri, perché, ci ricorda la Carter: “Un giorno senza discussione è come un uovo senza sale”.
– 03/10/1997
Il fascino della sensualità e la felice perversione di rileggere fiabe e gustare pietanze
Contrariamente a quanto promette il sottotitolo, c’é poco eros e poco cibo “carteriano” in questa raccolta di scritti di Angela Carter. Letteratura sì, nel senso che indica la curatrice Valeria Viganò quando giustamente ne segnala il raggio ampio che va oltre la scrittura narrativa, tratto ormai proprio dello scrittore contemporaneo che non viva nella rarefazione di una autoesclusione comunicativa imposta o ricercata. Recensioni, soprattutto. Scritti sugli scritti altrui, che la Carter legge e commenta con quello stile immediato che le é proprio, più attento al contenuto della narrazione che alla forma, al linguaggio. Dalle leggende popolari irlandesi, arabe, dei fratelli Grimm a George Bataille, William Burroughs e J.G.Ballard; dai patinati libri di cucina dei gastronomi a la page alla storia sociale della patata; dall’immaginario hollywoodiano ai racconti di Grace Paley fino ad una maliziosa cronaca del Bloomsday dublinese. Ritroviamo la Carter nella sua cifra magiore in due scritti che invece entrano nel merito del discorso critico propriamente detto, due prefazioni: una all’edizione della Oxford University Press di “Memorie di una donna in miniatura” di Walter de la Mare (1982); l’altra ormai anch’essa un classico, dell’edizione Virago di “Jane Eyre” di Charlotte Bronte (1990), uno degli ultimi scritti dell’autrice morta a soli 51 anni. Fuori dall’attualità editoriale, l’autrice de “La camera di sangue” può affrontare due testi “classici” con la libertà di entrare nelle pieghe della narrazione per svelarne il sottotesto, illuminandone la trama sottesa con le domande proprie di una lettura dell’oggi. Una lettura che provvidenzialmente sottrae “Jane Eyre” a quella cifra melodrammatica che pure le é propria, indicando l’uso che l’autrice fa dell’eccesso “per dire ciò che altrimenti non potrebbe essere detto”. (…)
– 02/02/1997
La Donna Pomodoro
il padre, giornalista scozzese incline al turpiloquio, teneva accanto al letto una bibliotechina di classici latini e greci. La mdre amava invece i pettegolezzi d’epoca e i libri di cucina, da leggere fra un pasto e l’altro quando il cibo era razionato. Angela Carter ha preso da tutti e due: a lei si devono i romanzi più colti e visionari, ma anche più carnali e scurrili che abbiamo letto in questi anni. L’ultimo, uscito nel 1991 (una anno prima della morte della scritttrice, uccisa dal cancro a 52 anni) si intitola “Figlie sagge” (Rizzoli). Raccontato da due arzille settantacinquenni con un glorioso passato ale spalle, Nora e Dora Chance, figlie illegittime di un grande attore shakespeariano, é una carrellata dietro le quinte dello show business, attraverso gli intrighi boccacceschi di una famiglia che produce gemelli a ripetizione: i legittimi recitano a teatro, i bastardi al cinema e al music hall. “La donna pomodoro” é invece una raccolta di saggi, fin dall’introduzione la Carter rivela le sue difficoltà nell’attenersi al linguaggio della critica, eliminando tutte le imprecazioni che sono a suo dire la prima e più frequente reazione quando legge un libro. E infatti il titolo originale é “Expletives Deleted”. Il che significa, più o meno: cancelliamo gli insulti (e proviamo ad adottare uno stile più misurato). Anche se qui sceglie di parlare solo delle cose che le piacciono, il tono rimane sempre piacevolmente sopra le righe, personalissimo e combattivo. Per i libri che ama, si capisce, é disposta a fare a pugni. Rispetto all’edizione inglese spariscono senza lasciare traccia diversi testi, tra cui quelli dedicati a Milorad Pavic e Danilo Kis. Ne rimangono però abbastanza per passare qualche ora di grande divertimento, che parte dalle fiabe per chiudersi su James Joyce: tappe obbligate per chi ha due amori, la scrittura e le storie, e non intende rinunciare né all’una né alle altre. In mezzo, spunta anche la passione per i mostri, coltivata nel romanzo del 1984 intitolato “notti al circo”. O meglio, per le donne-mostro, tra cui c’é la nanerottola protagonista delle “Memorie di una donna in miniatura” pubblicato da Walter de la Mare nel 1921, quando era ancora vivo il ricordo della regina Vittoria, anche lei non altissima e parecchio sgraziata. La Carter lettrice é molto attenta ai particolari, e con l’entomologo Vladimir Nabokov, che rimproverava a Franz Kafka di non aver ben descritto l’orribile scarafaggio, fa notare che la nana risulta di altezza variabile (lo stesso accadeva a King Kong nel film: le proporzioni erano diverse in ogni scena, per drammatizzare al massimo gli effetti). Come tutti i bravi saggsti, l’autrice é insuperabile nel ripescaggio di testi eccentrici e dimenticati. Alle prese con James G. Ballard, va a scovare un racconto del ‘66, dove lo scrittore aveva immaginato Ronald Reagan in corsa verso la Casa Bianca. Poche pagine più avanti, parla di un libro uscito anche in italiano: “La storia dela patata” di Redcliffe Salaman, gentiluomo inglese che traccia la storia della “disperata simbiosi” del popolo irlandese con il tubero. La patata li salvò prima dalla morte per fame, perché era nutriente e facile da coltivare, ma poi, con l’arrivo della grande carestia, li fece ripiombare in una situazione peggiore di prima. L’estabilishment letterario inglese non la amava, ed era cordialmente ripagato della stessa moneta. Nei libri della Carter c’é troppa carne e troppo sangue, e anche parecchia irriverenza per i grandi dela letteratura. A Charles Baudelaire ed a Edgar Allan Poe, per esempio, preferisce le loro donne, una enorme e nera, l’altra pallidissima e fragile. Le fiabe, le rivisita a modo suo. Generosa e barocca, lontana mille miglia dal minimalismo, era convinta che la letteratura fosse l’unico modo per trarre in inganno la morte.
– 02/02/1997
L’impasto creativo dal pane di Virginia al sesso surrealista
Una scelta di scritti “occasionali”: molte recensioni, in gran parte per la London Review of Books; un paio di prefazioni per le riedizioni di Jane Eyre e di un romanzo di Walter de la Mare; un omaggio ai surrealisti, che però “non si comportavano bene con le donne”; e uno a Joyce, “perché per qualsiasi scrittore di lingua inglese il XX secolo inizia il 16 giugno 1904, Bloomsday, e non sembra smettere di farlo”. Malgrado quel tanto di disomogeneo, inevitabile in raccolte di questo tipo, La donna pomodoro. Eros, cibo e letteratura di Angela Carter (a cura di Valeria Viganò), restituisce di lei – in modo diverso, ma con la stessa vitalità delle sue opere di finzione – la leggerezza e la polemica serietà, lo scherzo e l’invettiva, la vena a volte volutamente plebea e la raffinatezza di cultura e scrittura. Preparata a suo tempo dalla stessa Carter, che significativamente la intitolò Expletives Deletes (ripulita dalle imprecazioni), a sottolineare e insieme ironicamente sdrammatizzare l’energia rabbiosa e contenuta di molte sue affermazioni, la scelta copre 15 anni, dal ’70 fin quasi alla morte nel ’92. Divisa in sezioni, tocca argomenti diversissimi – dai libri di ricette alla storia del corsetto, fatale e intrigante gioco di mondanità e potere; dalla sacrilega trasgressione di Bataille (che “mette a pieno titolo la pornografia al servizio della blasfemia”) alle leggende popolari, amore costante di Carter e nutrimento di tanta sua immaginazione. Tra le sezioni la più ampia è quella dedicata alla passione del “narrare storie, certo”; come è ovvio per una che è stata lei stessa narratrice straordinaria. E poi: “Il cibo e la semiotica del cibo. Il mio paese, questa caotica Inghilterra post-imperialista, che non è il paese della mia infanzia negli austeri, dignitosi, egualitari anni Quaranta di Atlec, e nemmemo del mio essere una giovane donna negli euforici anni Sessanta, ma qualcosa di molto più stridente o sinistro”. Infine, non c’è scampo, l’America, cioè gli Usa; giacché, “come molti europei della mia generazione, nel mio sangue ho il Nord America”. E degli Usa soprattutto Hollywood, “il luogo dove gli Stati Uniti presentavano se stessi come un sogno universale e trasformavano il sogno in una produzione di massa”. Hollywood macchina dell’illusione, spesso presente nei romanzi, da La passione della nuova Eva a Figlie sagge; macchina magnifica, folle, eroicamente volgare – e così efficace che “una critica al cinema hollywoodiano è una critica all’immaginazione del mondo occidentale nel XX secolo”. La sezione sull’Inghilterra (“Casa”) si limita alla recensione de Il Budda delle periferie di Kureishi; ma di britannicità si parla spesso parlando d’altro – per contrasto, con un sarcasmo infastidito eppure affettuoso; ad esempio a proposito dei surrealisti, di cui “il popolo inglese non avrebbe mai potuto prendere sul serio le pretese filosofiche; nessuno dei surrealisti conosceva la matematica, e inoltre continuavano a infilare sesso e politica dappertutto, incluso il rapporto tra uomo e donna e tra individuo e stato, proprio dove ogni bravo britannico sa bene che il sesso e la politica non hanno diritto di stare”. O quando attacca lo snobismo del cibo, crudamente (demagogicamente?) giustapposto alla Carestia in Etiopia, tanto da provocare, non senza ragione, reazioni indignate; attaccandolo nella ricerca esasperata del genuino, di quella falsa ruralità di cui è esempio la passione per il pane fatto in casa – mania tipicamente britannica, come Carter ben riconosce. Capace di piccole cattiverie, stilettate rapide e senza spiegazioni – “Mi piace pensare a quanto Joan Didion possa odiare Grace Paley” – Carter si svela senza remore nelle antipatie e nelle rispondenze emotive. Tra le prime è evidente quella per Virginia Woolf, ricordata proprio a proposito dell’inutile abilità a fare il pane: “Anche se per altre cose era una cuoca mediocre, Virginia era certamente in grado di mettervi fuori combattimento con una meravigliosa pagnotta di campagna. Potete scommetterci. Questo mi colpisce perché è proprio quel tipo di attività dilettantesca e pretenziosamente frivola per la quale un appartenente a Bloomsbury sarebbe stato adatto”. Tra gli amori, quello – contrastato – per i surrealisti, perché essendo donna non può accettare di essere per loro “fonte di ogni mistero, bellezza e alterità”, non soggetto a pieno titolo capace di passioni, libertà, fantasia; e quello ammirato per Charlotte Brontë. “La scrittura di Charlotte Brontë occupa lo spazio che esiste tra passione e repressione”: il saggio su “Jane Eyre” è ricco di notazioni come questa, su cui altri saggi si potrebbero costruire – una ricchezza di suggestioni che d’altronde attraversa tutta la raccolta.