Marcel Schwob
La Lampada di Psiche
A cura di Arnaldo Colasanti
Traduzione di Catherine McGilvray
Il grande scrittore francese di fine Ottocento scrive il libro finale della sua vita. La Lampada di Psiche raccoglie i migliori testi di Marcel Schwob: Il libro di Monelle, Mimi, La crociata dei bambini. Tema centrale è l’infanzia: la bellezza amara e lancinante dell’esistenza vista con gli occhi dei bambini. Schwob ne subisce il nudo richiamo.
“Partì una sera di dicembre, quando il bambino non c’era, con la sua piccola lampada ansimante entrò, senza voltarsi, nelle tenebre. Quando il bambino giunse, riuscì appena a scorgere in fondo alla strada stretta e buia una fiammella che sospirava: fu tutto”.
I crociatini di Schwob
Bambini guerrieri senza sapere il perché
Marcel Schwob scriveva di cose lievi, impalpabili, struggenti: sogni dispersi dal primo apparire dell’alba,vite immaginarie che la suggestione poetica rende terribilmente credibili, realtà incantate e sospese a mezz’aria, fragili come il vetro. Difende la disperata serietà dei “bambini vagabondi che rifiutavano di crescere”, guarda con tenerezza alle “ragazzine di sette anni che pregarono in ginocchio perché la loro età si fermasse”, segue commosso l’avventura dei tanti “pueri sine rectore, sine duce” che andarono oltremare a combattere nel nome di Cristo, meglio, di una vocazione all’Ignoto.Proprio cent’anni fa Schwob scrisse “la Croisade des enfants” che si può leggere nel volume “La Lampé de Psiché” (La Lampada di Psiche, Fazi) in cui lo scrittore, nel 1903, a due anni dalla morte, raccolse altri testi significativi: “Le livre de Monelle”, “Mimes”, “L’Eloite de bois”. Sanno quello che fanno i bambini che partono “versus Jherusalem”? No, ma in fondo non è molto importante. Rispondono a un oscuro appello, che viene dalle viscere della terra e dalle altezze celesti, che chiede loro il paradosso di un’infanzia pellegrina e guerriera pronta ad obbedire a un’eco e a tuffarsi in un labirinto.Perché voler investigare sul sacrificio? E se il Mediterraneo, “falsamente limpido e chiaro”, “perfido miraggio del cielo”, lui che pare così “innocente e azzurro” e “orlato di bianco come una veste divina”, ma che in realtà è cupamente divoratore: se il mare Mediterraneo ha da rendere conto “ al trono dell’Altissimo” per aver allungato sui bambini crociati “le sue braccia glauche” ed averli tenuti con sé, inghiottendoli durante la traversata, in fondo la Natura resta innocente come quei bambini, lei come loro percorsa da fremiti che sono segni e disegni. di tutti, comunque, resterà memoria nei racconti di chi vide e non tutto capì ma qualcosa (nell’aria?) prodigiosamente colse. Come il goliardo: “tutti quei bimbi, mi pareva che non avessero un nome. ed è certo che nostro Signore Gesù li preferisce. Riempivano la strada come uno sciame di api bianchi. non so da dove venissero. erano pellegrini piccoli piccoli. Portavano bastoni di nocciolo e betulla. Sulle spalle avevano la croci erano di tanti colori. Ne ho viste di verdi, fatti con le foglie cucite. sono bambini selvaggi e ignoranti. errano verso non so cosa. Credono in Gerusalemme. Per me, Gerusalemme è lontana e Nostro signore dev’essere più vicino a noi. non arriveranno a Gerusalemme. Ma Gerusalemme arriverà a loro”.Bambini candidi, bambini avvolti nel bianco delle vesti (per Schwob il bianco, puro e funereo, è il colore, ossessivo, che svela e torna a velare), bambini innocenti destinati a portare la croce. proprio perché innocenti. come le piccole prostitute che vendono amore e saggezza tessuti in abissali aforismi, come le venditrici di lampade, come la piccola Monelle che intreccia parole/parabole.“O monelle, non avevi paura delle tenebre?”, “Non le temo più” disse lei. “O Monelle, ma non a vive paura del freddo come della mano di un morto?”, “Non ho paura del freddo”, disse lei. “e te ne stai tutta sola qui, tutta sola e sei una bambina e piangevi quand’eri sola”, “Non sono più sola”, disse lei, “ma aspetto. e sto con la mia attesa”. Così come toccò in sorte – ma poi fu atto di elezione – a Schwob, erudito, medievalista, studioso di lingue antiche, perso nei dedali delle biblioteche, come Borges che amò le sue “Vite immaginarie”. Lunghe attese e poi viaggi; Solitari. Scrisse su Villon, tradusse Catullo e Luciano, Defoe e Shakespeare; morì quando doveva morire, nel 1905, a Parigi, bambino di neppure quarant’anni.
– 07/03/1995
I bambini immaginari di Marcel Schwob
L’editore Fazi pubblicizza La lampada di Psiche (pagg. 202, prima uscita nel 1903) affermando che è il capolavoro di Marcel Schwob (1867-1905). Non so se abbia proprio ragione in una affermazione tanto azzardata quanto incontestabile. Sia o no il capolavoro, resta, come sempre quelli di Schwob, un libro pieno di misteriosi richiami e a volersi convincere della sua importanza questo da solo potrebbe bastare.La lampada di Psiche è sostanzialmente un polittico nel senso che si compone di quattro titoli: Il libro di monelle e Mimì del 1894; La crociata dei bambini, 1896; La stella di legno dell’anno successivo. Ho riportato le date perché sia chiaro in quali anni Schwob scriveva i suoi racconti visionari e ossessivi. In quegli anni di fine secolo trionfava il naturalismo, una visione del mondo che intendeva fotografare la fatica e le ingiustizie della vita pratica, i casi di uomini e donne schiacciati dalla struttura sociale oltre che dal “meccanismo dei fatti”. Nel ‘93 Zola aveva terminato il ciclo dei Rougon- Macquart meritandosi l’enfatico titolo di “apostolo della verità”.Anche Schwob fu a suo modo un apostolo, ma la verità che racconta nei suoi libri era difficile che i suoi contemporanei potessero vederla guardandosi semplicemente intorno. Del resto noi stessi, un secolo dopo, possiamo scorgerla solo se ci chiniamo senza paura sulle conturbanti ossessioni di questo uomo-fanciullo.Morto a 38 anni, figlio di una colta famiglia di rabbini e letterati, Marcel aveva sofferto durante l’infanzia di febbri celebrali. A letto in una stanza buia, sognava di poter attraversare a nuoto la Manica. Immaginava di dialogare con i grandi artisti, aborriva i bambini della sua età.Eppure, per una contraddizione facilmente spiegabile, è proprio di fanciulli che questo libro in prevalenza racconta. nell’altra sua e più nota opera Le vie immaginarie (che si a quello il suo vero capolavoro?) Schwob immaginò di raccontare le vite dei personaggi più disparati (dai grandi filosofi ai briganti) sciogliendo in una lieve ironia le sue fantasie erudite. Nella Lampada di Psiche invece, si narra soprattutto di bambini e di adolescenti la cui vita sconfina nel sogno, anzi indugia in quello spazio senza memoria nel quale vita e sogno coincidono e non c’è differenza tra la crudeltà di una fiaba e quella di un gioco di fanciulli.Nel dire delle sue creature immaginate, Schwob sceglie l’ottica di un’età in cui è fin troppo facile confondere le dimensioni delle cose e il giardinetto dietro casa può diventare spaventoso come una foresta incantata: “Delle bambinette di sette anni imploravano in ginocchio che la loro età si fermasse e la pubertà sembrava già mortale”, scrive.Da dove nasce questo terrore? Secondo Arnoldo Colasanti che ha curato il libro (e il cui scritto per densità di riferimenti mi sarebbe sembrato meglio collocato in postfazione), potrebbe nascere “semplicemente dal suo rapporto puerile con la letteratura”. Chissà se Colasanti ha ragione. In una fredda notte di pioggia, Schwob incontra una piccola operaia, Louise, e se ne innamora. E’ magrissima, mangiata dalla tisi, morirà da lì a poco. Più che un amore tra due giovani adulti il loro fu un tragico gioco. Chi può dire che fu la vita a permeare la sua letteratura o non il contrario?Nel Libro di Monelle, parlando di un piccolo gruppo di prostitute scrive: “Non bisogna pensare a quello che hanno potuto fare nelle tenebre. Nelly, in quell’orrida casa; Sonia ubriaca, sulla panca lungo il viale; Anne, mentre riportava il bicchiere vuoto al vinaio di un vicolo oscuro, erano forse crudeli e oscene. sono creature di carne, uscite da una buia strada cieca per dare un bacio di pietà sotto la lampada accesa dell’ampia via. In quell’istante, erano divine. Bisogna dimenticare tutto il resto”.Quanto c’è Louise nell’immagine di queste creature di fantasia? Oppure, al contrario, quanto di ognuna di loro si proiettò in Louise? La piccola operaia tubercolotica fumava una sigaretta dopo l’altra in una stanzuccia di pochi metri sempre ermeticamente chiusa. Qualche anno più tardi (non molti, perché il male non glielo consentì) Schowb, finito di ricevere gli amici, sprangava porte e finestre e si abbandonava alla morfina.“prima di morire vive i suoi racconti”, disse di lui Jules Renald. Giudizio duro, cinico addirittura. Che coglie tuttavia nel segno. Era stato Schwob a cancellare in ogni sua riga il confine tra ciò che si vive e ciò che può solo essere immaginato. sempre lui aveva scritto: “Gli istanti sono come bastoni a metà bianchi e metà neri… Non dire: adesso vivo, domani morirò. Non dividere la realtà tra la vita e la morte. Dì: adesso vivo e muoio”. L’estetica del simbolismo era impegnativa, bisognava essere disposti a sperimentarla su se stessi, come fece Marcel.