Zoë Jenny
La stanza del polline
Traduzione di Bice Rinaldi
Jo, protagonista e voce narrante del romanzo, vive la sua infanzia insieme al padre, poiché la madre, Lucy, se ne è andata. Dopo la maturità decide di partire per l’Italia, dove la madre, che non vede da dodici anni, vive con Alois, il suo nuovo compagno. Quando Alois muore in un incidente, sua madre si rinchiude nella “stanza del polline” e allora sarà proprio Jo a salvarla. Ma neanche questo porterà madre e figlia a un riavvicinamento. Lucy progetta, infatti, di andarsene con un altro uomo. Disillusa, Jo ripercorre all’indietro, in un gioco di corrispondenze e simmetrie, i luoghi in cui ha vissuto per un anno. Torna dal padre e il cerchio si richiude. Anche lui ha una nuova compagna e così il ritorno segna ancora una volta un distacco totale e definitivo. Romanzo di esordio di Zoë Jenny, La stanza del polline, diventato subito un caso letterario che ha fatto accostare il nome dell’autrice a quello di J.D. Salinger, è un romanzo di formazione in chiave contemporanea. Attraverso l’isolamento di Jo, anima sensibile in un mondo squallido fatto di materiali artificiali e tessuti sintetici, attraverso la sua solitudine, in uno scenario umano d’incomunicabilità e alienazione, e la sua ricerca di autenticità, sono raccontati i conflitti di una generazione. È un romanzo visivo, fatto d’immagini che hanno l’evidenza di un film e di una prosa essenziale, poetica.
– 20/08/2002
La stanza del polline
In una trascendentale dimensione da sogno, dove voci e richiami rimbalzano affannosamente in testa, Jo perde definitivamente i rapporti con i genitori. Succede nello stesso momento in cui cerca, dopo tumultuose vicende, di riavvicinarsi a loro. E allora la protagonista e voce narrante si avvia alla ricerca di luoghi dove poter sfuggire dalle emozioni.
“Cavità per scivolarci dentro, diventare una piccola sfera che respira, lì dove non c’è né luce né rumore e non può generarsi angoscia”. Così, verso la fine, vita e morte formeranno una simbiosi che non lascerà altra scelta.
– 04/12/2001
L’Odissea di Jo. In cerca d’amore
Giovane, al primo romanzo, è già un fenomeno. Perché parla dritto al cuore di una generazione.
Alta, bella, magra. Occhi enormi, azzurri. Occhi seri, che tutto catalogano senza pietà. Zoë Jenny, 26 anni, è diventata un fenomeno internazionale col suo primo libro La stanza del polline, storia di una madre, Lucy, che rifiuta la figlia Jo e pensa solo alla sua vita. Un romanzo che va dritto al cuore di una generazione, come un novello Giovane Holden.
“Racconta una storia comune a tanti giovani, figli di genitori separati e affamati di affetto. Jo, vissuta col padre, va a 18 anni alla ricerca della madre. Ma si troverà a rivestire lei il ruolo materno”, dice la giovane scrittrice.
Infatti, quando il nuovo compagno della madre perde la vita in un incidente, Lucy sembra lasciarsi morire….
Jo l’aiuterà e la salverà. Ela madre scomparirà con un nuovo compagno!
Nemmeno l’amicizia o l’amore riescono a sostituire l’affetto dei genitori?
Tutti nel romanzo sono alla ricerca di amore e amicizia e non li trovano. E soprattutto cercano disperatamente l’affetto dei genitori, di una famiglia. Anche l’amicizia con Rea, una punk di buona famiglia, non risolve la solitudine di Jo. Lei tornerà dal padre, ma lui si è rifatto un’altra famiglia…
La vita, più che un sogno, sembra essere un incubo, come quelli che fa la piccola Jo. Ma non ha forse anche delle belle sorprese da offrire?
Non potrei mai scrivere di una vita semplice, lineare: non è realistica. La mia generazione è cresciuta tra la mancanza di amore familiare e la paura dell’Aids. Quello che mi interessa è descrivere i conflitti degli esseri umani, ciò che è difficile e di apparentemente irrisolvibile. Il romanzo non può che avere un’atmosfera amara, triste.
Il padre e la madre di Jo sono i suoi?
In parte nel libro c’è qualcosa di autobiografico. Anch’io sono figlia di genitori divorziati, i miei si separarono quando avevo tre anni. Mio padre possedeva una casa editrice e io sono cresciuta tra Basilea, la Grecia e il Canton Ticino. Non sono stata una bambina facile, ho cambiato suola un’infinità di volte. Il sistema scolastico mi faceva soffrire, non lo sopportavo. Volevo solo scrivere.
– 23/11/2001
Zoë Jenny, i sogni di una ventenne
Occhi verdi e brillanti, capelli neri che le incorniciano il viso, Zoë Jenny ha il sorriso di una ragazza di ventisette anni che ha conosciuto un successo sconfinato inseguendo il suo sogno: scrivere. Il romanzo d’esordio di Zoë, La stanza del polline, edito in Italia da Fazi (150 pagina, 22.000 lire), è stato tradotto già in ventiquattro paesi, raccogliendo vasti consensi, e alcuni critici si sono spinti a paragonarla a J. D. Salinger.
Jo, la protagonista del romanzo, è figlia di genitori separati. Una condizione che accomuna molti ragazzi della sua generazione. Vive con il padre, osservando con cupidigia i suoi gesti e annusando i suoi odori, tremando nel buio della sua stanza quando lui si allontana per andare a lavorare. Decide di passare le vacanze con la madre, che ha da poco perso il compagno, e vive ritirata in una stanza il cui pavimento è cosparso di polline di fiori, rifiutandosi di elaborare il lutto che ha subito in maniera più matura e definitiva. Jo continua la sua scoperta del mondo, e le capita di imbattersi in persone che segnano la sua crescita con la stessa forza e la stessa facilità con cui restano le impronte sulla neve incontaminata. Falliti i tentativi di riportare la madre ad una normalità di sentimenti, Jo, disillusa, la lascia per la seconda volta, tra le braccia di un nuovo compagno, per tornare al nido paterno. Qui sta iniziando un nuovo ciclo, una donna aspetta un figlio dal padre di Jo.
Sulla copertina del libro ci sono un paio di scarpe da ballerina. Quelle che la madre avrebbe voluto regalare alla protagonista e non è mai riuscita a darle; e che lei, in un simbolico passaggio di testimone, dona alla bambina che sta per nascere.
Zoë, leggendo La stanza del polline si ha la sensazione che sia fortemente autobiografico. Cosa c’è della sua vita in questo libro?
Qualsiasi opera d’arte, sia essa musicale, letteraria o visiva, ha un sostrato autobiografico. Io ho semplicemente inventato una storia, nulla di quello che racconto mi è realmente accaduto. Non c’è nessuna identificazione con Jo, la protagonista del romanzo, ma c’è un frammento di me in ognuno dei personaggi di cui parlo. La prima persona che utilizzo nella narrazione è il lettore. È lui che deve identificarsi”.
The pollen room è stato tradotto in ventiquattro paesi. Oltre che in Occidente, anche in Corea, in Cina e in Giappone. Che effetto fa, a ventisette anni, sapere di avere un pubblico di lettori così vasto?
“Mi impressiona molto. Soprattutto perché pensavo di aver scritto un “libro per giovani”. Ho letto tanto da bambina, ma non ho mai trovato niente che parlasse della mia generazione. Invece ogni volta che mi capita di leggere per un pubblico mi trovo davanti persone di ogni fascia d’età. Trovo affascinante che questo romanzo non abbia confini, né geografici né anagrafici. Il paese in cui è ambientato non è specificato proprio perché è simbolico, potrebbe essere ovunque, ma devo ammettere che pensavo a una città italiana quando l’ho descritto”.
Spesso nella vita di Jo il sogno e la realtà si intrecciano, al punto che è difficile capire cosa sia più reale: quello che immagina o quello che vive.
“Non c’è contrasto tra sogno e realtà. Certo lo sfondo della storia è realistico, ma la vita sarebbe veramente insopportabile senza la possibilità di sognare. Il sogno ti permette di vedere cose che ad occhi aperti non riesci a distinguere”.
Qual è, se esiste, la “stanza del polline” di Zoë Jenny?
“Non ho un luogo fisico, anche perché sono sempre in giro. Il mio rifugio è la scrittura. In lingua originale il titolo del libro è Das Blütenstaubzimmer. In tedesco “polline” è una parola composta da bluten, che significa “fiore”, e quindi vita in divenire, e staub, cioè “polvere”, che da sempre indica la morte. È vero che la stanza è il luogo metaforico in cui Lucy cerca la morte, ma è nella stessa stanza che nasce la vita”.
“Ho sentito molto nella prosa – dice la traduttrice del romanzo in italiano Bice Rinaldi – il contrasto vita/morte. E ho cercato sempre di mantenere la poesia “congelata”, come la sentivo”.
Una poesia che aspetta di essere toccata per sciogliersi.
– 01/01/2002
La stanza del polline
Si potrebbe cominciare, parlando di quest’ultimo caso letterario, dalla copertina, dove compaiono un paio di scarpe, quelle che la madre avrebbe voluto regalare alla protagonista e non è mai riuscita a darle e che le, in un simbolico passaggio di testimone, dona alla bambina che il padre aspetta dalla sua nuova compagna. Le scarpe dorate, che in italiano hanno conservato proprio il nome derivante dall’uso, “le ballerine” appunto, evocano sequenze di movimenti felici, scatenati, gioia di vivere, e si legano almeno nel nostro paese, ai più volte ribattezzati “mitici anni ’60”. L’immagine è quanto mai stridente con il contenuto e la prosa del romanzo, dove regna l’assoluta infelicità, e che molto spesso, per i critici che l’hanno recensito, è stata tradotta con alienazione.
Zoë Jenny, l’autrice, è nata nel 1974 e vive a Basilea. La stanza del polline, suo romanzo d’esordio, solo in Germania, ha venduto oltre 200.000 copie e ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti; è stato tradotto in ventitré paesi, compresi Giappone e Cina. In quest’ultimo paese il libro è stato sottoposto “ad un regime di sorveglianza”, poiché la nota saliente del romanzo è la critica aperta alla mancanza di responsabilità dei genitori verso i figli e mentre in Germania e Svizzera si discute molto di questo, in Cina è un argomento tabù. Viene considerato infatti un problema dell’Occidente, quindi il libro è diventato in Cina un caso politico. Il prossimo anno uscirà in Italia, sempre per Fazi, il suo secondo libro, Il richiamo della conchiglia dedicato ancora ai rapporti familiari, mentre in Germania sta per uscire il suo terzo libro, che racconta una storia d’amore tra un ragazzo tedesco di estrema destra e una ragazza turca. È autrice anche di una storia per bambini.
Le sue note biografiche, su cui pende comunque il dubbio di essere state cucite addosso ad un personaggio che tale doveva essere, ci dicono che l’autrice, cresciuta con il padre, se ne è andata presto da casa e dopo il diploma ha fatto diversi lavori per mantenersi. Attualmente si dedica solo alla scrittura.
I riferimenti biografici in questo caso non rappresentano una parte cospicua dell’impianto narrativo perché lei stessa ha negato l’identificazione con Jo, la protagonista del romanzo, sostenendo invece che c’è un frammento di se stessa in ognuno dei personaggi. In Italia per presentare il libro, Zoë Jenny aveva affermato: “Non sono i figli che se ne vanno dalla casa dei genitori, ma padri e madri che lasciano i bambini prima che diventino grandi. In questa storia non si capisce chi è adulto e chi è bambino e alla fine la parte dei genitori la fanno i figli. La famiglia non è qualcosa di negativo in sé, ma è difficile tenerla insieme e farne il posto della serenità. È qualcosa di essenziale e fragile. Negli anni ’60 c’era la rivolta dei figli contro i genitori, ora non potrebbe più essere così perché sono gli adulti ad andarsene”. Riassumiamo brevemente la storia, che non ha in sé nulla di particolarmente sofisticato. Jo, la protagonista, vive la sua infanzia con il padre. Sua madre Lucy se ne è andata in Italia con il nuovo compagno Alois e quando lui morirà Jo, ormai diciottenne, cercherà di aiutarla a superare il dolore. Ma Lucy, una volta ristabilita, è pronta a partire con un altro uomo. Disillusa, Jo torna dal padre e trova anche lui con una nuova compagna, che tra breve gli darà una figlia: a lei, come abbiamo detto all’inizio, Jo passa le sue scarpine. In lingua originale il titolo del libro è Das Blütenstaubzimmer. In tedesco “polline” è una parola composta da Bluten, che significa “fiore”, e quindi vita in divenire, e staub, cioè “polvere”, che da sempre indica la morte. Complessivamente quindi titolo e trama fanno pienamente capire che il romanzo mette sul piatto della vita i distacchi, le delusioni, i lutti, le separazioni, e in ultimo, le incapacità di affrontare tutto questo ma, mentre i giudizi prevalenti sul libro e le parole dell’autrice stessa indicano una sola direzione di lettura, cioè l’incapacità dei genitori a trasmettere, a comunicare, a responsabilizzare, c’è in realtà anche un’altra parallela lettura: la totale incapacità dei figli/e a cavarsela da soli, con esiti più o meno claudicanti e imperfetti, ma autonomi. Più di una volta, il libro dà l’impressione di volersi fermare sugli effetti accattivanti legati al mito della “letteratura maledetta”. Intento perfettamente raggiunto, perché la scrittura è secca, angosciata, va dritta verso l’emotività. Ma è parimenti vero che corre più spesso sul filo dell’autocommiserazione, che su quello della ribellione. Non è del resto psicologicamente vero che i figli non si possono ribellare perché “sono i genitori ad andarsene”, come afferma l’autrice, perché per elaborare lutti e crescere attraverso il rifiuto non è indispensabile la presenza fisica. Altrimenti, chi tenta di farlo dopo i lutti reali sarebbe sconfitto in partenza. Insomma, il libro indugia sulla tristezza, sull’infelicità, sugli incubi di una bambina cresciuta da sola, in fretta, la cui descrizione è talmente catastrofica da farci chiedere come ha potuto arrivare a diciotto anni in grado di lavorare in un ufficio postale per mantenersi all’università dopo il diploma. Rimane eccessivamente in ombra che il padre la lascia sola non per rapinare banche e negozi, ma per andare a lavorare dopo il fallimento della tipografia che rappresentava per lui la gratificazione esistenziale. Jo vive sì un’infanzia in cui ci si domanda spesso perché non intervenga l’assistenza ai minori, ma vive tra la carta stampata, che nessuno legge, ma che non può essere paragonata ad una vita passata fra prostitute e criminali. Anche l’amica occasionale che Jo incontra in Italia quando va a “ritrovare” la madre dopo la morte di Alois, è un personaggio totalmente sospeso nella vacuità delle sue ribellioni. Decisamente ricca, destinata allo studio della musica in conservatorio, punisce i genitori assenti e incapaci ad amare suonando come un ambulante per la strada, ma è anche perfettamente consapevole, nel dialogo con Jo, che diventerà ricca una volta ereditato il patrimonio familiare. La metafora più riuscita è senz’altro, per chi scrive, quella della “stanza del polline”, massimo luogo d’incontro di eros e thanatos, morte e rinascita, che però in questo caso sembra più una rivitalizzazione della madre che non l’inizio della vita per la figlia. “Sono passate solo poche settimane da quando l’ho tirata fuori della stanza del polline. Di tanto in tanto mi svegliavo per dei rumori che venivano dall’esterno e vedevo luci in giardino, all’alba, quando tutto tace, prendere dei fiori tra le dita e odorarli. Staccava con le unghie i lunghissimi stami e li metteva tutti insieme. Poi andava nella stanza del polline e faceva cadere la polvere. C’era polline dappertutto, sul pavimento e sui davanzali delle alte finestre dello scantinato. Per terra, fra i pilastri un materasso con un lenzuolo, l’unico oggetto della stanza. Dopo la morte di Alois si è messa su quel materasso e non si è più mossa…Quando il pavimento dello studio di Alois ormai vuoto, fu completamente coperto di polline, ci si chiuse dentro. Alois aveva ricavato un oblò nella pesante porta di ferro che immette nello studio in modo che Lucy potesse vedere se in quel momento stava dipingendo o era disteso su un’amaca. È da quell’oblò in plexiglas che mi sono messa a chiamare Lucy senza mai stancarmi… alla fine le mostrai il piano di un viaggio intorno al mondo. Avevo tracciato l’itinerario su un foglio e lo avevo attaccato all’oblò, in modo che lo vedesse e ci riflettesse (…). Fuori di me per la rabbia corsi in giardino presi la pala dal muro e cominciai a sbatterla contro le finestre dello scantinato (…) nel frattempo Lucy si era messa a sedere sul materasso, ma io non la guardai neppure, andai direttamente alla porta per aprirla dal di dentro. Così pian piano mi seguì in cucina. E lì cominciò a piangere”.
– 27/11/2001
Il silenzio degli innocenti
La stanza del polline (ora pubblicato in Italia da Fazi), romanzo d’esordio di Zoe Jenny, per il quale l’autrice ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, ha venduto oltre 200.000 copie in Germania ed è stato tradotto in ventitre paesi. Un tipico caso letterario!
Ho incontrato Zoë Jenny in una “primaverile” serata di ottobre nelle stanze della casa editrice Fazi. Che dire? Zoë è una ragazza semplice, timida, sensibile, entusiasta della vita. È una di quelle scrittrici che vorrebbero essere invisibili per dar modo alla propria creatività di toccare i cuori, di aprire le menti, di vedere ciò che fuggiamo…Per quanto mi riguarda ci è riuscita e mi piacerebbe che anche voi poteste provare queste emozioni di fronte a La stanza del polline, e quindi poi sentirne tutta l’intelligenza. Diamo valore a questa giovane voce contemporanea, lo merita.
La stanza del polline rispecchia fedelmente ciò che penso del mondo adulto odierno: un completo fallimento, uno sfuggire le responsabilità e un egoismo che rasenta la follia…che ne pensi?
Quando ho scritto questo libro non ho pensato minimamente all’interpretazione che avrebbero potuto dare a questa storia…però effettivamente mi ritrovo in quello che dici, anche se io non avrei mai pensato di scrivere una cosa del genere. La storia mi è venuta dal cuore ed è su persone che sono tutte un po’ perse.
Jo è una ragazzina vulnerabile, desiderosa di essere amata e di amare, e ciò la porterà a vivere continue delusioni, ad inseguire sogni impossibili; eppure è lì, caparbia, a lottare con i propri, limitati, mezzi…anche questa è vita, no?
Per me questo è un libro sulla sopravvivenza. È la storia di una persona sensibile, disperatamente piena di speranza.
Pensi che Jo riuscirà a non ricreare i meccanismi di fuga che i genitori le hanno trasmesso? Insomma, si può rinascere dalle macerie di un fallimento?
Jo è una persona sensibile e probabilmente riuscirà a prendersi le responsabilità che non si sono prese i suoi genitori.
La lettura nel libro è vista come un’oasi di pace, di felice rilassatezza e solo in momenti di estrema difficoltà viene lasciata da parte: possiamo definirla una terapia, una via di fuga, positiva però?
Non mi piace l’espressione terapia: la lettura è la più importante forma di evasione che c’è nella società ed è positiva. È importantissima, ma non è una cura…
Quali son state le letture che ti hanno reso la vita più facile, che ti hanno fatto sentire meno sola?
Sono tante: La campana di vetro di Sylvia Plath, Salinger, Kafka. Tutti i libri mi rendono felice: amo leggere…
Rea, l’amica di Jo, solo con la morte della madre decide di rimanere a casa, di non fuggire…Secondo te è l’unico modo di far pace con i propri fantasmi, con le proprie angosce?
È un modo per svegliarsi: non è l’unico, ma quando capita ti rende più vivo…
Sinceramente io l’ho avvertito come un senso di liberazione per non affrontare il problema.
Sì, sicuramente per Rea, alla fine, è un sollievo. La morte della madre la rende libera. Anche se poi non sarà mai libera da niente non avendo affrontato la questione alla radice.
Come mai il libro non ha nessuna dedica?
Ho fatto tantissime interviste e nessuno mi ha mai fatto questa domanda (ride NdI). Non ci ho pensato, non mi è venuto in mente…Anche nel mio nuovo libro, in uscita sempre per la Fazi nel 2002, Il richiamo della conchiglia, manca la dedica ma il terzo che sto ancora scrivendo è dedicato a mio padre.
Che tipo di musica ascolti?
Soul music: Aretha Franklin, Otis Redding…Poi mi piacciono i dj, adoro Moby: riesce a creare delle atmosfere perfette. Provo un grande amore per Jeff Buckley, mi rattrista molto che sia morto.
Devo dire che gli adulti mi fanno paura. Eppure credo che se ognuno di noi riuscisse a far pace con se stesso le cose potrebbero andar meglio…Nel tuo libro non c’è questo ottimismo, pensi che non ci sia niente da fare?
Non è vero che non c’è ottimismo. Il romanzo è pieno di malinconia, ma non privo di speranza.
Parlavo dei genitori…Il rapporto di Jo con loro alla fine è senza via d’uscita.
In effetti tra loro c’è una completa incomunicabilità…Con la madre non c’è possibilità, con il padre sì…anche se alla fine pure lui l’abbandona…
L’analisi terapeutica nel libro viene sfiorata: pensi che in qualche modo possa giovare a questi eterni Peter Pan che giocano a fare gli adulti?
Non so, sicuramente può aiutare la gente. Nel romanzo no, in quanto la madre di Jo dice bugie, e quindi a lei non serve.
Mi piacerebbe immaginare, da grande, Jo felice: è un’utopia o nel tuo immaginario c’è questa possibilità?
Sarà triste e felice, ma la cosa più importante è che sarà diversa dai suoi genitori e quindi in un certo senso starà sicuramente meglio.
Lucy in un momento tragico si chiude nella “stanza del polline”: per lei e per tutte le persone che non hanno il coraggio di prendersi le proprie responsabilità quella stanza è il grembo materno dove rifugiarsi, dove scappare. Che ne dici?
Non avevo pensato a tutto ciò, ma in effetti “la stanza del polline” può essere vista come un grembo materno o come un posto dove scappi dalla realtà. È incredibile, mi trovi assolutamente d’accordo. Mi fa piacere, al di là di tutto, che abbia funzionato la comunicazione fra autore e lettore e che ci siano persone che leggano i libri come fai tu.
– 06/09/2001
Quando da casa se ne vanno non più i figli ma i genitori
Non sono i figli che se ne vanno dalla casa dei genitori, ma padre e madre che lasciano i bambini prima che diventino grandi. La scrittrice svizzera Zoë Jenny, 28 anni, parla della famiglia, capovolgendo la situazione tradizionale, con un linguaggio essenziale, poetico, nel suo primo romanzo, “La stanza del polline”.
Caso editoriale in lingua tedesca, tradotto in 24 paesi tra cui la Cina, dov’è stato tenuto sotto sorveglianza, è un libro di formazione in chiave contemporanea che ha fatto accostare il nome dell’autrice a quello di Salinger.
“In questa storia – dice la Jenny – non si capisce chi è adulto e chi è bambino e alla fine la parte dei genitori la fanno i figli. La famiglia non è qualcosa di negativo in sé, ma è difficile tenerla insieme e farne il posto della serenità. È qualcosa di essenziale e fragile. Negli anni ’60 c’era la rivolta dei figli contro i genitori, ora non potrebbe più essere così perché sono gli adulti ad andarsene”.
Voce narrante della storia, in parte autobiografica, è Jo che vive la sua infanzia con il padre. Sua madre Lucy se ne è andata in Italia con il nuovo compagno Alois e quando lui morirà Jo, ormai diciottenne, cercherà di aiutarla a superare il dolore. Ma neppure questo servirà a riavvicinare madre e figlia. Lucy, una volta ristabilita, è pronta a partire con un altro uomo. Così ormai disillusa, Jo torna dal padre e trova anche lui con una nuova compagna. È un viaggio costellato di distacchi, riavvicinamenti, calore e freddezza, in cui non c’è mai nulla di definitivo e resta sempre una speranza, fino alla fine.
“In tutto il libro – afferma la Jenny – c’è sempre una possibilità che rimane aperta, anche il finale. Il titolo fa coesistere due estremi: la vita e la morte. È un’immagine poetica in cui si concentra il carattere e lo stile del libro”.
Crescere, spiega l’autrice, “vuol dire avere delle delusioni e Joe fa questo percorso. La costante del suo legame con la madre è l’assenza che rende più forte la nostalgia. Il rapporto con il padre è molto forte, caldo. All’inizio protegge la sua bambina, ma poi scompare anche lui. C’è una critica aperta alla mancanza di responsabilità dei genitori verso i figli”.
Originaria di Basilea dove vive, Zoë Jenny, che è cresciuta con il padre, ma se ne è andata presto da casa, dopo il diploma ha fatto diversi lavori per mantenersi. Ora si dedica solo alla scrittura. Il prossimo anno uscirà in Italia, sempre per Fazi, il suo secondo libro “Il richiamo della conchiglia” dedicato di nuovo ai rapporti familiari, mentre in Germania sta per uscire il suo terzo libro che racconta una storia d’amore tra un ragazzo tedesco di estrema destra e una ragazza turca.
– 01/01/2002
Un’infanzia tormentata
La trama. “Vorrei che un po’ dell’energia di Rea passasse dalla sua mano alla mia…” dice l’io narrante, Jo, parlando della sua amica, giovane come lei, come lei sensibile e disperatamente sola, in giro per discoteche, in un mondo che sembra poggiare su un vuoto totale di valori. E cos’è infatti questa energia, di cui Jo si sente priva, se non una forza in grado di sottrarla al senso di isolamento contro il quale lotta da sempre? I suoi genitori si separano quando lei è piccola e Jo rimane con il padre. All’uomo, uno scrittore fallito, sembra normale lasciare la piccola sola la notte per andare a lavorare come autista. Nella casa squallida e inospitale anche una mosca, vista con gli occhi di una bimba impaurita, può diventare un mostro. Ma Jo capisce che per vincere la paura deve imparare a tenere gli occhi spalancati. Se i suoi genitori, gli esseri che un bambino più ama al mondo, sono indifferenti, Jo cercherà di rubar loro scampoli d’affetto, a qualunque costo.
Jo vede sua madre Lucy la domenica. Vanno in città a far compere, a bere cioccolata, a mangiare patatine. Lucy ha una frenesia, una voglia di vivere che Jo non può capire, ma che l’affascina. Un giorno Lucy le dice che ha trovato un altro uomo e che se ne andrà con lui, Alois, per sempre. Jo resta a rubare briciole di attenzione al padre, ad accettare in casa la sua nuova sguaiata compagna. Aspetta di conseguire la maturità, Jo, poi va in Italia , dove Lucy si è trasferita con Alois. Non vede sua madre da dodici anni; non sa che Alois è morto in un incidente e Lucy per cancellare il mondo si è chiusa nella stanza del polline…
– 19/09/2002
La fragile piccola Jo e la bella mamma Lucy
È una storia povera di avvenimenti, ma ricca di inquietanti risvolti psicologici, quella raccontata dalla giovanissima scrittrice svizzera Zoë Jenny in questo suo breve romanzo di esordio diventato subito dopo la pubblicazione in Germania un caso letterario su scala internazionale. È facile paragonare la parabola della piccola Jo che vive con il padre e che a diciotto anni decide di raggiungere la madre, Lucy, che non vede da dodici anni, ad un best seller di altri tempi, al Bonjour tristesse di Françoise Sagan: anche qui ci sono figli maturati in fretta, dolorosamente, e genitori immaturi, smaniosi di felicità; anche qui mancano riflessioni e giudizi morali.
Ma la constatazione sofferta, espressa poeticamente in uno stile asciutto ed essenziale, del ribaltamento del rapporto genitori-figli contenuta nella Stanza del polline, ripropone con nuova intensità un dramma della nostra epoca: quello della nuova generazione i cui genitori sono in grandissima parte separati. Un dramma che si svolge sommesso in un mondo desolato in cui Jo, cresciuta fra domande senza risposta e barriere invalicabili, si trova a dover provvedere alla madre disperata per la tragica morte del suo compagno. Ma nulla riesce ad abbattere il muro che la bella Lucy ha messo fra lei e la figlia – di fronte ad un nuovo pretendente la fa addirittura passare per sorella minore; nulla strappa Jo dal suo isolamento, nemmeno il ritorno dal padre con cui si chiude questa triste parabola dei nostri giorni.
– 01/01/2002
Jenny
Piccola diva, Zoë Jenny. Figlia di un editore indipendente di Basilea, ex (ma non troppo) adolescente inquieta in viaggio tra Europa e istituti scolastici, talento istintuale e caparbio (più avanti ci racconta i lunghi anni di riscrittura), ha conosciuto col suo primo romanzo, La stanza del polline (Fazi), la ribalta delle cronache letterarie e l’onore di traduzioni in tutto il continente e oltre: “Questo libro” dice, “mi ha catapultato fuori dalla mia cameretta, direttamente sugli aerei, negli studi televisivi e nelle stanze d’albergo. Sempre a rincorrerlo, in paesi sempre più distanti. Ovunque sbarchi, è già lì”.
Il suo alter ego (un pizzico di autobiografismo è quasi d’obbligo in un’opera prima, anche se l’autrice lascia ai lettori il sottile piacere della supposizione) si chiama Jo. Figlia di genitori separati, guardinga e solitaria (e che occhio inquietante è il suo! Che solitudine urlata!). Jo si divide tra un padre amorevole ma fagocitato dagli affari e una madre assente, perduta nei gorghi di un’inquietudine flaubertiana che la getta tra le braccia di uomini sempre più lontani. Jo percorre l’esistenza rimanendo estranea a tutto, soprattutto alle famiglie che i genitori finiranno col ricrearsi. Usa se stessa come denuncia vivente, passiva eppure inesorabile nel suo sguardo sul mondo. Anche la scrittura di Zoë Jenny è così: breve, essenziale, intensa e durissima. Un racconto privo di attenuanti, il suo. Senza sollievo, senza riscatto. Nudo. Crudo.
Qualcuno ha parlato di un romanzo “esangue”. Un effetto voluto o un’attitudine naturale?
Entrambe le cose, direi. Più che descrivere mi interessa rappresentare, sfrondare il discorso dalle distrazioni collaterali, andare dritta all’essenza delle cose. Costruire una parola che sia precisa ed evocativa allo stesso tempo. È così da sempre. È così per istinto. Ma questo non prescinde un lungo lavoro di limatura e riscrittura. La stanza del polline è nato di getto, in pochi mesi. Avevo appena preso il diploma dopo una carriera scolastica a dir poco tormentata e avevo voglia di liberarmi di questa storia che abitava la mia testa da tanto, tantissimo tempo. Poi mi ci sono voluti tre anni per darle una forma che mi soddisfacesse: tagliandola, accorciandola, riducendola sempre più. Come si fa con la poesia…è curioso, molti, soprattutto in patria, sono rimasti quasi scandalizzati da uno stile tanto…severo: era troppo maschile, strano per una ragazza, per giunta così giovane. Eppure non c’è stato calcolo: questo è davvero l’unico modo che conosco di scrivere. È il mio essere letterario.
Un’altra adepta di Carver?
Uhm…Carver…certo, perché no? Anche se poi la mia estrazione è molto più classica ed europea. Kafka è il mio vero modello. Il definitivo, l’assoluto. Lui esprime la vera laconicità. È denso e veloce. Nella sua scrittura c’è il senso impalpabile e sfuggente dell’angoscia, un senso che conosco molto bene: qualcosa che ha a che vedere con l’intuizione di morte che ci portiamo dentro e che non riusciamo ad afferrare, a chiamare col suo nome…
A proposito di classici, per il tuo romanzo sono stati scomodati Rilke, Salinger, Sylvia Plath…Pesa la grandezza del paragone?
Oh no, tutto questo non ha la minima importanza è puro chiacchiericcio mediatico. Ognuno è libero di paragonarmi a chi vuole, la cosa non mi interessa. Non mi interessa fare sofisticati giochi di citazione, né cercare crediti altolocati. Le storie si scrivono per i lettori, per offrire loro qualcosa di nuovo: una sorpresa, possibilmente…un piccolo sogno su cui accomodarsi…
Però quando dici che “sono le esperienze interiori a formare la scrittura” fai un chiaro omaggio a Rilke…
Sono profondamente convinta che la scrittura nasca dall’emozione e non dal pensiero. Il pensiero è l’effetto, mai la causa. La maggior parte degli autori tedeschi invece tende a concettualizzare, scrive in maniera troppo riflessiva, forse anche troppo colta. Io preferisco una lingua più emozionale, più intima. Una lingua che sappia conoscere e percorrere i mondi che sono dentro di noi – e che sono più importanti delle cose che ci accadono intorno. Una lingua che sappia parlare al vissuto interiore dei lettori…Ritengo ci sia un profondo intento antiaccademico, in questo.
Alle spalle di ogni scrittor giovane si addensa l’ombra incombente del bildungsroman. È stato così anche per te?
Jo, la mi protagonista, compie un percorso, non acquisisce verità universali ma certo termina un periodo della sua vita. Perciò credo si possa dire che anche il mio è un romanzo di formazione. O almeno lo è in parte, come conseguenza accessoria, perché io non l’ho scritto con questa intenzione anzi, a dirla tutta non l’ho scritto con nessuna intenzione: l’ho fatto e basta, senza pormi minimamente il problema di ricadere o meno in un cliché. Tutto il resto è una razionalizzazione a posteriori.
In effetti, Jo affronta in maniera molto caustica e demitizzante i riti di iniziazione dell’adolescenza: va ai rave e si annoia mortalmente, il sesso è un’esperienza fugace e disastrosa – e infatti si conclude con un aborto…Perché tanta durezza?
La mia voleva essere una critica alla realtà e ai suoi aspetti più banali. E cosa c’è di più banale di un giovane che trova la libertà e il senso dell’esistenza nella techno e nell’ecstasy? Qui si che si trattava di scardinare dei cliché!
Ma così non rischi di fare di Jo un’alienata sociale, una…cattiva?
Jo considera la solitudine un fatto naturale, come la sua creatrice – sospetto – si sente più a suo agio guardando le cose da lontano. Il suo sguardo è rigoroso, critico, implacabile. Cattivo sì, ma anche amorevole. O meglio morale – di una moralità tutta personale che non riguarda certo la mistica o i massimi sistemi, quanto piuttosto un proprio ordine interiore, un’idea emozionale del mondo…
Non ci sono risposte, però. Persino il finale è aperto…
Alla larga dai romanzi che forniscono soluzioni, non mi fido di loro! Non ci sono risposte possibili alle domande fondamentali della vita, ma solo altre domande e altre domande ancora, altrimenti a che servirebbe la filosofia? Se avessi formule da dare, non avrebbe più senso per me scrivere. Scrivere è ricerca. E verità. Ecco perché io ho scelto un finale aperto: una soluzione che avrebbe riportato la protagonista dalla madre o dal padre non sarebbe stata vera, o per lo meno io non l’avrei sentita come tale. Meglio allora lasciare Jo in bilico tra più strade, tra il positivo e il negativo: tra la tristezza di non appartenere a nessuno e l’apertura liberatoria verso altre possibilità, altri sviluppi…
Alcuni hanno interpretato questo romanzo come una critica alla generazione precedente, quella del Sessantotto, capace di grandi slanci rivoluzionari, di passioni artistiche (il padre di Jo è un piccolo editore, la madre diventa compagna di un pittore), ma assolutamente fallimentare nel costruire relazioni interpersonali…
Non c’è nulla di così specifico in verità. La mia è una storia sui giovani di oggi, sulla generazione a cui io stessa appartengo, dove – come in tutte le generazioni – un certo grado di ribellione ai padri è inevitabile, anzi direi che è sano e naturale. Non volevo esprimere giudizi di valore, quanto piuttosto raccontare quella dinamica del distacco che è connaturata al diventare grandi. La difficoltà di relazione di cui parli esiste, ma non è un male imputabile unicamente a chi ci ha preceduti, è un male trasversale che affligge tutta la società contemporanea. La mia critica dunque ha una portata generale, è rivolta al momento storico, al mondo per com’è adesso.
Hai conosciuto un rapido successo internazionale. Com’è la vita di una giovane star della narrativa?
La mia vita è la mia vita e non la favola che molti pensano che sia. Il successo è bello, non lo nego, non foss’altro perché mi permette di fare quello che ho sempre voluto: vivere della mia scrittura, però è anche stancante. Non mi sono ancora abituata all’idea di dover lottare per la mia privacy, né di vedermi rappresentata negli articoli e nelle recensioni. Il clamore non mi piace, ecco. La letteratura secondo me ha bisogno di pacatezza, silenzio e isolamento.
Hai vissuto in varie parti d’Europa: Germania, Svizzera, Grecia… Di quale paese ti senti più cittadina?
Davvero non so. Finora la scrittura è stata un buon rifugio, ma in realtà sto ancora cercando un luogo al quale appartenere…
Un po’ come la tua protagonista, no?
Eh già! Sono in viaggio come lei e come lei non sono ancora arrivata…
– 03/02/2002
I miei primi diciott’anni
La stanza del polline è il romanzo d’esordio di Zoë Jenny, che quando lo scrisse aveva 23 anni. In poco più di cento pagine il libro racconta, sempre in bilico tra mondo reale e sogni della protagonista, i primi diciott’anni della vita di Jo, l’io narrante. L’infanzia trascorsa con il padre, che per mantenersi faceva l’autista e di notte scriveva e stampava in proprio libri che nessuno leggeva. A Jo l’uomo trasmette l’amore per la lettura, un passatempo che colma il vuoto lasciato da Lucy, donna bellissima e inquieta che abbandona marito e figlia quando la bambina ha otto anni, per seguire Alois, un pittore con cui si trasferisce in Italia. Superato l’esame di maturità, Jo decide di andare a trovare la madre; poco dopo il suo arrivo Alois muore in un incidente d’auto e Lucy cade in uno stato di depressione da cui Jo la fa uscire con grande ostinazione. Tornata a vivere, la donna si allontana di nuovo dalla famiglia: parte per un lungo viaggio con il suo nuovo compagno (un costruttore del luogo che si sta arricchendo con i lavori per il Giubileo). La ragazza torna allora dal padre, con un senso di solitudine ma anche di sollievo per aver tentato un ultimo, disperato, avvicinamento alla madre. Jo è cresciuta, è pronta ad affrontare l’università e il resto della sua vita.
– 09/01/2002
Alienazione di una generazione ultima
“Presentato all’Istituto Svizzero di Roma il romanzo d’esordio di Zoë Jenny. Alienazione di una generazione ultima”
Jo vive l’infanzia in compagnia del padre. Dopo la maturità decide di partire per l’Italia dove vive la madre Lucy che non vede da dodici anni. Quando Alois, il compagno di Lucy muore, Jo tenta di salvare la madre dalla solitudine della stanza del polline nella quale si è rinchiusa. Jo ripercorre all’indietro il suo vissuto finché, disillusa, decide di tornare dal padre ed il cerchio si chiude di nuovo. Jo è la protagonista, anima sensibile in un mondo squallido, del romanzo di esordio di Zoë Jenny, La stanza del polline (Fazi Editore, 107 pagine, 22 mila lire) presentato in Italia dall’Istituto Svizzero di Roma alla presenza dell’autrice, della traduttrice Bice Rinaldi e di Paola Sorge. “Una storia solo apparentemente semplice quella raccontata dalla giovanissima autrice” – ha dichiarato la Sorge – “un evento, in realtà un caso letterario dalla risonanza mondiale, una storia che pone tante domande per altrettanti problemi che toccano da vicino ognuno di noi. Il conflitto generazionale, il rapporto coi genitori, l’inquietante racconto di una realtà, il nostro mondo, fatto di famiglie distrutte, rapporti freddi, distanze, assenze, occhi spenti e lunghi tristi silenzi. La trama non è complessa, ma avvince dal principio alla fine; è un libro breve ma di grande, intensa tensione, sia poetica quanto morale. Zoë riesce a darci la dimensione del suo mondo di bambina in un susseguirsi di sensazioni: calore, paure, richieste taciturne, desideri, sogni traditi. Zoë ci fa entrare subito in un mondo simile, prima di bambina poi di adolescente, lo fa senza porre mai giudizi morali su questa famiglia attuale. Entriamo nella sua dimensione, e come lei ci troviamo innanzi ad una vera e propria barriera di silenzio, tipica della generazione ultima. La sua apparente indifferenza innanzi alle vicende della vita fanno assumere carattere universale a questa storia molto semplice. Siamo davanti ad una famiglia aperta, alternativa, moderna, con tratti di grande dolcezza, che nascondono superficialità e banalità. Un padre con una nuova famiglia, una madre che cerca di evadere dalle responsabilità, un’adolescente che inutilmente cerca risposte. Jo tenta di costruire un legame, ma ogni volta che cerca di afferrare una realtà, una certezza, un nuovo muro si erge tra lei e ciò che la circonda, un muro di gente, di ruoli, di mancanze. Jo è la parte più sana di una generazione che ben conosciamo, attraverso fatti di cronaca, composta di indicibile solitudine che colpisce, straziante, indifferente. L’autrice dimostra una grande sensibilità resa attraverso una forma di prosa lirica ed uno stile apparentemente scarno. Una serie infinita di piccoli particolari, indizi, tratteggiano un mondo squallido composto di materiali artificiali e tessuti sintetici, di solitudine, uno scenario umano d’incomunicabilità, alienazione e la ricerca di autenticità da parte della protagonista. La stanza del polline è un romanzo visivo, forte, crudo, spaventoso”. Bice Rinaldi, la traduttrice, si è dichiarata orgogliosa dell’opera e del suo ruolo: “Sono felice di presentare un romanzo di lingua tedesca. In Italia la pubblicazione di letteratura dal tedesco, è un evento piuttosto raro. Tradurlo è stata una esperienza emozionante. Sono attratta dalla scrittura di Zoë, dalla maniera di vedere la realtà, il suo sguardo di artista: si è verificata una sorta di identificazione che poi ha reso naturale una serie di scelte e di strategie di traduzione. Il racconto è una successione di quadri più che uno svolgimento, una scrittura sempre piena di tensione poetica, estremamente laconica, si ha la sensazione di muoversi lungo un territorio a metà tra prosa e poesia, non riconducibile, non riducibile ad una storia di separazione tra genitori e di abbandono di una bambina”. Per La stanza del polline Zoë Jenny ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti; ha venduto oltre 200 mila copie in Germania; il testo è stato tradotto in ventitré paesi.
– 12/10/2001
Quando il dolore si ricopre di polline
Questa volta il caso letterario nasce sulle rive del Reno, a Basilea, nella Svizzera tedesca. Zoë Jenny, per trovare un editore al suo manoscritto (realmente scritto a mano) ha faticato. Dieci rifiuti, prima del sì della Frankfurter Verlaganstait, che le offre un anticipo di un milione e poco più. Cifra equa per un’esordiente appena ventenne. Il romanzo schizza subito in vetta alle classifiche, sostenuto dalla critica (solo in Svizzera e Germania ha avuto più di 300 recensioni). Tradotto in 24 paesi, arriva ora in Italia già carico di premi. È la storia di un rifiuto, anzi di un’assenza, anche se quella parola nel libro non la troverete. Jo ha sei anni quando i genitori si separano. Dopo aver vissuto quasi tutta l’infanzia con il padre, un uomo freddo e impenetrabile, preso il diploma, Jo decide di raggiungere in Italia la madre che non vede da dodici anni. Lucy è una madre non madre, si comporta da figlia, da sorella, mai da madre. Il racconto è distaccato, come farebbe un estraneo. Ma Jo estranea non è. Non si ribella. Non perché è rassegnata, ma piuttosto perché ha imparato a resistere. Non getta la spugna, né un anatema neanche quando ancora una volta vede la madre andare via dietro un uomo. La stanza del polline è un libro impietoso e generoso. Triste. Ma guai a chiedere all’autrice se è anche un po’ autobiografico.
– 01/09/2001
Testimone d’accusa
Più che un atto d’accusa è un’esecuzione. Per decapitazione. I condannati sono moltissimi: tutta un’intera generazione di genitori troppo impegnati a vivere per riuscire a crescere i propri figli. Troppo assorti nei propri problemi per accorgersi della disperazione che regna nella cameretta accanto. Accusatore, giudice e carnefice è una ragazza svizzera di ventisette anni, Zoë Jenny, angelo dagli occhi ingannevolmente chiari, autrice di La stanza del polline, libro rivelazione che ha sconvolto Svizzera e Germania e si avvia a essere tradotto in 20 Paesi, Italia compresa (Fazi lo manda in libreria in questi giorni).
Se l’argomento vi interessa (o vi riguarda), seguiteci a Basilea a incontrarla. Sotto una pioggia battente, sfilano facciate cupe. Questa è una città che sembra essere stata creata apposta per gli scrittori depressi. In un albergo, Zoë Jenny spia l’arrivo del giornalista con ara un po’ annoiata: non è forse già apparsa su decine di giornali, da Der Spiegel al Times? Dovrà parlare ancora una volta di Jo, la sua eroina: una ragazzina perduta, che racconta una vita perduta. Abbandonata dalla madre, cresciuta dal padre, da adulta va in Italia a cercare questa donna instabile, che – scoprirà – in realtà non ha nessun desiderio di rivederla e, per non sembrare vecchia, agli amici la presenta come la sua sorella minore.
Romanzo della sofferenza e del disgusto, La stanza del polline è un’impietosa requisitoria contro l’ossessione sessantottina di invertire i ruoli. I genitori sono infantili, i figli per forza di cose precocemente maturi, e Jo, ridotta ad “aggeggio inutile”, salta tutte le tappe senza punti di riferimento. “In realtà lei chiede soltanto delle risposte dai suoi genitori. Ma loro hanno paura di doversi giustificare”, mormora Zoë Jenny. La sua storia non è molto diversa: genitori divorziati, una madre scappata quando era piccola. Zoë fa di tutto per non parlare di sé. Eppure dietro la superficie dei suoi grandi occhi chiari l’anima sembra ribollire: “Più gli adulti invecchiano e più diventano stupidi”, sussurra. Questa ragazza, cresciuta con Sylvia Plath e Carson McCullers, vede le strade come “le antenne di un insetto” e la città “simile ad un animale moribondo”. Ha iniziato a scrivere a quindici anni, e sta già lavorando a un nuovo libro. Ci ha messo tre anni per scrivere il primo. Non ha fretta. L’argomento sarà sempre il rapporto tra una madre e una figlia: “Uno scrittore ha un unico, grande tema”, spiega.
– 01/10/2001
La stanza del polline
Arriva sempre il giorno in cui una figlia guarda sua madre. E per la prima volta capisce che è una donna: mortale, fragile, con paure e sogni. Ma quella che appare alla protagonista del romanzo è una donna disperata, chiusa in una stanza da cui non vuole uscire. E Joe, la figlia, farà di tutto per ritrovare il cordone ombelicale che le univa.
Appunti di stile. Amarissimo, pieno di inquietudine. Una cupa educazione sentimentale che ha fatto scoprire alla Germania una nuova voce: la ventiseienne Zoë Jenny. Bella la scena in cui la madre, sdraiata sul prato, confessa di essersi innamorata.
– 30/10/2001
Zoë contro tutti
Chi ama i romanzi di Jane Austen per quella precisione algebrica che, nel finale, regala immancabilmente ai lettori la quadratura del cerchio delle emozioni, stia lontano da La stanza del polline (Fazi. 22 mila). Nello sconvolgente primo romanzo della ventisettenne di Basilea, Zoë Jenny, niente è più al posto giusto. Padri e madri, presi da sé, rincorrono i propri sogni a brandelli. E i figli si perdono. Jo cerca invano e disperatamente la sua collocazione almeno in famiglia. Ma i genitori, subito separati, la lasciano col cuore ibernato e diviso. La cresce il padre, ma, finita la scuola, il richiamo della madre Lucy, eclissatasi da 12 anni è troppo forte: Jo parte per l’Italia, dove lei si è rifatta una vita con Alois. La scova mentre è decisa a lasciarsi morire perché il suo uomo si è schiantato in un incidente d’auto. A quel punto, Jo spera finalmente di riaverla, ma Lucy riparte con un nuovo flirt. Per quelli della sua età, persi nel delirio dell’extasy, nello sballo da zombi dei rave, nella catatonia da spaesamento, perfino amore e sessualità sono invece grovigli emotivi impraticabili. In uno stile severamente poetico che ha scatenato paragoni con Silvia Plath e Salinger, Zoë Jenny, tradotta in 24 paesi, punta il dito contro il vuoto pneumatico e paralizzante della società contemporanea.
– 17/01/2002
“Cara mamma, sono più matura di te”
I genitori si separano, e Jo va a vivere con il padre. La sua infanzia è appesa a brevi attimi, particolari, oggetti, stati d’animo, sogni. Vede la madre di domenica, ma la donna è troppo presa da se stessa e finisce per andarsene lontano con un altro uomo. Madre e figlia non si rincontrano che a parecchi anni di distanza, quando Jo la raggiunge in una città italiana dove lei ora abita con Alois, il suo nuovo compagno. L’incontro avviene poco prima della morte di lui in un incidente automobilistico. Jo si prende cura della madre, Lucy, che è in preda a una crisi depressiva dentro la sua “stanza del polline”, simbolo di morte e di vita. La guarigione della donna non porterà alcuna gioia nella vita di Jo, di nuovo abbandonata per l’ennesimo nuovo amore.
Storia di abbandoni e di nostalgie, il bel romanzo della giovane scrittrice svizzera Zoë Jenny, è diventato in Italia un piccolo caso editoriale; recensito con favore da diverse riviste femminili, ha esaurito immediatamente la prima edizione. Pubblicato all’età di ventitré anni, “La stanza del polline” possiede infatti una grazia particolare, lieve e pensierosa, leggera e profonda. È un racconto in prima persona, quasi un diario, il tentativo di ritrovare un senso e un ordine nelle proprie sensazioni e angosce. È un libro che tocca temi di attualità: separazioni tra coniugi, rapporti tra genitori divisi e figli. Il suo successo sta ovviamente nell’identificazione delle lettrici donne con Jo, ma anche nella sua misura e sensibilità: i sentimenti non sono mai esibiti in forma diretta, bensì presentati attraverso lo sguardo mobile della narratrice. Jo è preoccupata di cogliere ogni istante con intensità. Bella la parte dell’incontro con Rea, sua coetanea italiana, impulsiva e inconsapevole di sé, in conflitto con la madre.
La protagonista del romanzo impersona la forte esitazione della giovinezza, la sua infinita cocciutaggine, la durezza nei giudizi, e insieme l’inesauribile domanda di tenerezza. Jo è stata paragonata al giovane Holden, ma è un personaggio ben più maturo e cosciente. Alla fine, il ritorno dal padre, l’incontro con la nuova compagna incinta e la figlia della donna, non sono una sconfitta, ma la conquista di una diversa consapevolezza. Prima di uscire dalla nuova casa e sedersi nel parco, a vedere cadere la neve, Jo regala alla nascitura le scarpe blu da bambina che la madre ha comprato per lei dieci anni addietro senza però spedirle. Un passaggio di testimone, un dono di pena e dolcezza.
– 17/11/2001
All’inseguimento della madre assente
Il settimanale Stern ha scritto che il suo romanzo d’esordio, La stanza del polline, colpisce al cuore un’epoca e una generazione come fece, a suo tempo, Il giovane Holden. The Times ha accostato la ventisettenne autrice di Basilea, Zoë Jenny, a Sylvia Plath e a Ernest Hemingway. Ed è vero che questo romanzo, tradotto in Italia da Fazi, è stato il caso letterario di lingua tedesca più eclatante degli ultimi tempi, e a 4 anni dall’uscita è stato pubblicato in ventiquattro Paesi. Zoë Jenny ha ritratto una generazione di distratti genitori sessantottardi con impietoso candore e ha fotografato i suoi figli, a lei coetanei, con sconcertante verità. Le polaroid che scorrono sotto gli occhi di chi legge il libro sono un paesaggio di emozione familiare a migliaia di ragazzi, qualunque sia la loro nazionalità. Si racconta la storia di Jo, figlia di separati, cresciuta dal padre, scrittore-stampatore di giorno e autista di notte. Genitore affettuoso ma assente, troppo preso dal lavoro. Scrive Zoë Jenny: “La notte dormivo un sonno agitato. Frammenti di sogni mi passavano davanti come pezzetti di carta in un fiume in piena. Poi quel rumore metallico mi svegliava del tutto. Guardavo le ragnatele sul soffitto e sapevo che in quel momento mio padre era in cucina e aveva messo il bollitore sul fornello. […] Seguiva una rapida successione di rumori attutiti, poi un breve attimo di silenzio. Cominciava a respirare più veloce e mi si formava un nodo alla gola, sempre più soffocante, finché dal letto vedevo mio padre, avvolto nella sua giacca di pelle, chiudere piano la porta di casa dietro sé”. La madre è una donna che rincorre i propri sogni d’amore, e si aggrappa alla vita come può. “Le domeniche le passavo con mia madre. La sera si metteva davanti al grosso specchio coi capelli sollevati e trafficava sul suo viso con matite e spugnette. Le passavo le scatolette e bottigline sul davanzale della finestra e avvitavo i tappi dei profumi, a forma di fiori e di gocce, infinitamente preziosi. Appena arrivava la babysitter si scioglieva i capelli scuri e profumati, che le si allargavano sulla schiena come un ventaglio, e scompariva nella notte. Più tardi mi svegliavano i suoi singhiozzi […] scostava la coperta e io scivolavo nel letto caldo, bagnato di lacrime salate”.
Alla fine la madre Lucy segue il suo uomo, Alois, in Italia. Jo non la vede per dodici anni, finché, finita la scuola, quel vuoto incurabile la spinge a cercarla. La trova in una casa di campagna, in Italia, nella stanza del polline, dove ha deciso di lasciarsi morire perché Alois si è ucciso in un incidente d’auto. A quel punto, i ruoli si invertono: è Jo ad accudire sua madre, a riportarla in vita. Non serve a nulla, perché, una volta ristabilitasi, Lucy la abbandona ancora una volta e riparte, inseguendo un nuovo amante. “Jo è una ragazza molto adulta” spiega Zoë Jenny. “La sua frustrante, continua ricerca dei genitori assenti e infantili l’ha costretta a cambiare il suo sistema psicologico. Alla fine del romanzo credo, però, che Jo abbia conquistato la libertà. I suoi genitori non ci sono e l’unico modo per sopravvivere è essere forte, raggiungere uno stato di indipendenza emotiva. Non avevo idea, scrivendo il romanzo, che fosse un fatto generazionale. L’ho scoperto quando ho cominciato a viaggiare per promuovere il libro. In Cina la famiglia è un’istituzione, ma gli studenti sono venuti a dirmi che anche là è esattamente così, mentre un rappresentante del partito continuava a ripetere in pubblico che la mia era una storia occidentale, niente che potesse succedere lì”.
Zoë Jenny è una ragazza minuta, timidissima, capelli neri, occhi color zaffiro. I giornali scrivono che la storia raccontata nel romanzo è molto autobiografica, ma lei non ama parlarne. “La famiglia” dice “è sempre stata una questione complicata. Forse si dovrebbero inventare nuove forme per stare insieme: noi giovani stiamo cercando di creare aggregazioni di amici che, col passare del tempo, si trasformano in autentiche famiglie d’elezione. Io sono andata via di casa a 16 anni, e ho condiviso un minuscolo appartamento con quattro amiche; Poi, tre anni dopo, sono andata a vivere con un fidanzato. A 20 anni ho cominciato a scrivere La stanza del polline: per mantenermi facevo la babysitter e posavo come modella in una scuola d’arte. Un lavoro che mi dava la posibilità di pensare a lungo: nelle pause correvo a prendere appunti sul mio taccuino. Oggi mi muovo molto. Il viaggio è una dimensione fondamentale per chi ha la mia età: spostarsi, curiosare in giro per il mondo, non restare attaccati al proprio paese d’origine. Al momento vivo a Berlino, dove ho scritto il mio secondo romanzo, una storia d’amore tra un neonazista e una ragazza turca. Sono rimasta in totale solitudine per un anno, senza vedere nessuno, senza neanche chiamare gli amici. Giravo sola per Mitte e Kreuzberg osservando la vita da una certa distanza, come se fossi in un acquario, in una bolla di sapone”.
Queto desiderio di solitudine si ritrova nel romanzo, è un’armatura contro le insidie del mondo esterno, contro le ferite che la relazione con l’altro può infliggere. I rapporti diventano minuetti di diffidenza, attrazioni di superficie. Anche il sesso è un impulso flebile, sfocato. Quando Jo conosce un ragazzo a una festa a casa della fidanzata del padre, lo segue subito a casa sua, dove s’immagina faranno l’amore senza tabù. “Camminavamo per strada l’uno accanto all’altra. A camminargli vicino, come due che stanno insieme, avvertivo un piacevoile malessere. […] Mi posò sul materasso, nell’altra stanza, e mi spogliò. Mi spaventai perché non riconoscevo più il suo viso. Adesso era sul mio, vicinissimo. Si frammentava. Il naso e il mento mi si erano piazzati davanti, estranei. Era come se li vedessi attraverso una lente d’ingrandimento. Avrei voluto respingerli. […] Avevo il braccio piegato. Mi faceva male. Lui era disteso sul materasso, un completo estraneo. Appena si allungò al mio fianco, si addormentò immediatamente”.
“La paura dell’Aids” dice Zoë Jenny “gioca un ruolo cruciale nel nostro modo di vivere la sessualità. È finita l’epoca della libertà, del gioco, del sesso concepito come puro divertimento. Non sarà mai più come prima”.
– 08/12/2001
La stanza del polline
Sprofondo in un sogno ad occhi aperti. Sono molto più giovane, mia madre è in cucina, e prepara la cena per noi mentre io faccio i compiti. Si muove per casa. I rumori che fa sono lo sfondo sul quale anch’io mi muovo, sono un nastro che mi penetra dentro attraverso le orecchie. Da qualche parte in me è custodito ciascuno di quei suoni, così un giorno potrò rievocarli quando sarò sola, e ricordarmi il suo viso e mettermi a parlare con lei anche se lei non c’è.
La stanza del polline, il breve romanzo di esordio della ventisettenne svizzera Zoë Jenny che è diventato un piccolo caso letterario in tutto il mondo, è la storia di un’assenza, quella della madre della giovane protagonista, che abbandona il marito e la figlia ancora bambina e che viene ritrovata dalla figlia, ormai adolescente, quando per la disperazione dopo la morte del secondo marito (forse un suicidio, forse un incidente) si è rinchiusa in una stanza coperta da un tappeto di polline di fiori.
Del resto Lucy, la donna che anche sua figlia chiama solo per nome, non c’è neppure quando è fisicamente presente. E’ l’incarnazione di un vuoto esistenziale totale e di un egocentrismo assoluto che tiene la figlia a perenne distanza, forse per puro egoismo, forse per perverso istinto materno, l’unico che possiede, quello teso ad allontanare la figlia dal pericolo.
La figlia la guarda, sempre da lontano, anche quando la vicinanza fisica è obbiettiva – ma continua a mancare il contatto – con apprensione, con diffidenza, con amore, l’amore incondizionato e acritico di un figlio non amato nei confronti di un genitore incapace di amare.
Mi viene un oscuro presentimento e un’urgenza improvvisa di chiederle se è sicura di essere lei quella che allora lasciò mio padre e salì sull’aereo e non piuttosto un’altra, e se è veramente sicura che io sia uscita da dentro di lei, perché mai come adesso mi sembra impossibile che sia così.
Il rapporto madre-figlia, ma anche quello fra la figlia e un padre contemporaneamente amato e compatito, è reso in uno stile immediato che coinvolge tutti e cinque i sensi, come si conviene a una protagonista che “sente i rumori con gli occhi”. Bellissima la parte iniziale, che descrive la paura del buio di una bambina lasciata sola, e lo fa nel modo fattuale e diretto dei più piccoli, soprattutto quelli che hanno imparato presto a non aspettarsi protezione dagli adulti.
– 08/05/2002
Zoë, giovane sorpresa.
A colloquio con la basilese Zoë Jenny, autrice del best seller “La stanza del polline” (ed. Fazi)
Cooperazione: Il suo romanzo d’esordio, “La stanza del polline” (ed. Fazi), è arrivato in Italia alla terza edizione. Si aspettava questo successo?
Zoë Jenny: Il successo non è qualcosa che si può prevedere e men che meno per un romanzo tradotto. Perciò mi rende doppiamente felice il fatto che il mio libro trovi tanti lettori in Italia. La stanza del polline in verità ha avuto successo in molti paesi, soprattutto tra i giovani. In Cina è diventato un best seller e letto nelle università
Frisch, Dürrenmait, Bichsel…All’estero e soprattutto in Italia, la letteratura svizzera è dominata da questi numi tutelari. Colpa dei giovani scrittori o della mancanza di coraggio degli editori stranieri?
Il mercato letterario in realtà è dominato soprattutto dalla letteratura americana e anglosassone. Da tempo, negli Stati Uniti l’interesse per la letteratura di lingua tedesca non è così rilevante come invece al contrario lo è da noi. Però nel frattempo si è mosso qualcosa, che forse dipende anche dal fatto che una nuova generazione di scrittori ha di nuovo il coraggio di raccontare storie più dirette e meno contorte.
La Fiera del Libro di Torino: quali sono le sue aspettativi e quelle per la letteratura elvetica?
La letteratura svizzera è molteplice e io sono sicura che se alla fiera si presterà attenzione, ci saranno delle belle sorprese!
Quali sono gli scrittori di lingua italiana, anche svizzeri, che lei ha letto e apprezza?
L’Italia ha prodotto molti scrittori che amo molto. Penso a Italo Calvino, Oriana Fallaci e naturalmente Pier Paolo Pasolini, che ritengo uno degli scrittori e delle personalità italiane più importanti, che ha scritto uno dei miei libri preferiti, il romanzo Una vita violenta. Infine, devo menzionare Die schwarzen Brüder di Lisa Tetzner, una storia ambientata in Ticino. Uno dei libri per bambini più belli e toccanti.
Il ritratto. Zoë Jenny è nata nel 1974 a Basilea ed è vissuta anche a Carona. Nel 1997 pubblica il suo primo romanzo, Das Blütenstaubzimmer, insignito di molti premi (Ingebord Bachmann, Jürgen-Ponto-Stiftung, , “aspekte”-Literaturpreis) e tradotto in 21 lingue. In Italia è uscito nell’autunno scorso da Fazi Editore con il titolo La stanza del polline ed è alla terza edizione. Nel 2000, Jenny ha pubblicato il secondo romanzo, Der Ruf des Muschelhorns, che ha riscosso meno consensi di pubblico e critica. La scrittrice basilese sarà presente alla Fiera del Libro di Torino venerdì 17 maggio, ore 14, presso lo Stand CH.