Eugene McCabe

Morte e usignoli

COD: a3f390d88e4c Categoria: Tag:

Collana:
Numero collana:
7
Pagine:
240
Codice ISBN:
9788881120468
Prezzo cartaceo:
€ 14,00
Data pubblicazione:
01-06-1997

Traduzione di Chiara Vat­teroni

Beth rincorre un sogno: sfuggire a una cupa esistenza intessuta di ipocrisia e rancore. Ma l’amore che crede di aver trovato in Liam, e per il quale è disposta a sfidare il patrigno e la legge, non è altro che un desiderio di vendetta e lei un semplice strumento, di cui l’uomo è disposto a liberarsi senza troppi scrupoli con l’assassinio. Di fronte a una verità così tremenda, Beth reagisce uccidendo a sua volta, con freddezza e predeterminazione, diventando da vittima carnefice. Non c’è alcuna possibilità di riscatto in questo dramma consumato nelle paludi irlandesi; neanche il bambino, che pure dovrà nascere, riesce a spezzare il circolo di odio e di violenza che racchiude tutti i personaggi in un abbraccio mortale.

MORTE E USIGNOLI – RECENSIONI

Giampaolo Martelli, IL GIORNALE

Violenza, amore e sesso nell’Irlanda insanguinata dalle guerre religiose del secolo scorso

LA VENDETTA DI UNA RAGAZZA DI CAMPAGNA

 

I lamenti di un animale ferito rompono il silenzio della notte. Quei gemiti strazianti svegliano una giovane donna sottraendola a un sogno macabro. Un incubo ricorrente. Frastornata, solleva la testa dal cuscino. Attraverso la finestra, vede la nera scenografia dei rami di un faggio rischiarati tenuemente dalla luna. Si veste, di nuovo quel gemito lacerante nell’immobilità della camera. Ha i capelli castano rossicci e gli occhi cerchiati di scuro, Beth che percorre il corridoio. Bussa alla porta di Byll Winters. L’apre ed entra. Un odore di fumo, di whisky e di sudore. L’uomo è riverso sul letto, il corpo scomposto tra le coperte, dorme con la bocca aperta. Beth, figlia illegittima di Byll Winters mentre lo guarda pensa: “Come sarebbe facile se fosse morto e sepolto”. Subito dopo: “Voglio tutto questo? Questo posto da crepacuore? Amato e odiato come nessun altro posto al mondo”. E’ affezionata alla grande fattoria di Clonoula dove è cresciuta, tra boschi dai colori intensi, acquitrini melmosi, stalle e verdi frutteti di mele, nere torbiere, pietre sgretolate, uccelli canterini e corvi che volano con le ali aperte. Ma Beth disprezza Byll Winters. Lo odia per umiliazioni e le offese subite, per averla trattata come una domestica, per le lascive attenzioni che le ha rivolto. E lo odia per i modi oltraggiosi con cui Byll, possidente terriero protestante, ha trattato la “papista” Cathy, sua madre, a cui non ha mai perdonato di averlo sposato quando aspettava una figlia concepita con un altro uomo. Beth ricorda con sgomento le parole velenose e gli scoppi di violenza verso l’indifesa Cathy. Risente i suoi sarcasmi e le invettive: “Mala razza. La coppa di veleno della Santa Romana Chiesa nel tuo ventre… Quella figlia non mi è parente e non erediterà mai. Mi senti, non erediterà mai…”. La madre qualche anno dopo era stata uccisa dalle cornate di un torello infuriato. Sì, in quell’occasione Byll aveva pianto e si era disperato, qualcuno però aveva insinuato che era stata una finzione per non perdere i favori dei cattolici. Abile nel destreggiarsi tra le opposte fazioni, preoccupato solo di tessere le sue trame affaristiche, Byll Winters infatti ama ripetere: “Io non ho né amici né nemici, ma solo clienti…”. La sua ipocrisia, unita all’avidità e al desiderio di guadagnare – fornendo lastroni di granito per chiese, cattedrali e loculi tombali – , alimenta la disistima di Beth verso Byll Winters. Talvolta il patrigno verso di lei era stato gentile. Ma per poi ritornare a essere prepotente ed egoista come sempre. Comunque Beth ha deciso. Domani, il giorno del suo venticinquesimo compleanno, se ne sarebbe andata da quella casa: avrebbe preso un treno per Belfast, poi si sarebbe imbarcata per Glasgow, e in treno avrebbe raggiunto Londra. Dopo di che sarebbe arrivato anche Liam Ward, l’uomo che ama e insieme avrebbe cominciato una nuova vita. Beth è tutt’altro che una ragazza di campagna grezza e incolta. Legge le poesie di John Keats che parlano di “morte e usignoli”, e in una valigia che sta preparando, tra scarpe, spazzole e pettini, ha infilato libri di Jane Austen, Emily Brönte, William Carleton e Charles Dickens. Eppure appena incontrato quel giovanotto dagli occhi verdi e un volto scavato che parlava con voce cupa, ne era rimasta attratta. Quando l’aveva rincontrato in un cimitero, ne aveva subito il fascino misterioso: in un cappotto lungo e largo nero e una sciarpa attorno al collo, Liam Ward era davvero un insolito personaggio tra vagheggiamenti romantici e ripensamenti, desideri di intimità e dubbi, Beth si innamora di Liam e ne diventa l’amante. “Ad attrarla tanto era l’insensatezza il rischio, il desiderio di essere sconsiderati per un giorno o due, un periodo fuori dalla monotonia, una festa del peccato e dei sensi”. Il trentenne Ward dal passato oscuro – ha vissuto a Dublino, a Londra e a Boston -, si è rifugiato nel cottage dello zio perché sia la polizia che i repubblicani stanno dandogli la caccia. Affiliato all’Irish Repubblican Brotherhood, Liam è accusato dai suoi compagni di aver sottratto la cassa del movimento dopo aver cooperato all’assassinio di Lord Frederich Cavedisch. Ma Beth pensa solo a fuggire con lui inseguendo un sogno di felicità e con Liam escogita un piano per derubare il patrigno Byll Winters portandogli via le monete d’oro che custodisce in una cassaforte. Ambientata nel 1883 nella contea di Fermanagh, l’aspra vicenda di “Morte e usignoli” (Fazi Editore) si svolge nell’arco di trentasei ore. Salutato unanimemente dalla critica irlandese e inglese come un capolavoro, il romanzo di Eugene McCabe, noto soprattutto come drammaturgo, è un’opera tipicamente ottocentesca. Le descrizioni accurate dell’ambiente ricordano i dipinti di pittori come John Everett Millais o William Holman Hunt i cui personaggi avevano riflessi malinconici e sinistri ed avocavano il senso della morte. Come in quei quadri la natura era raffigurata senza nessun pathos sentimentale, così le visioni di McCabe rimandano una sensazione di misteri e di orrendi segreti. Ha notato giustamente lo scrittore Dermot Bolger che Eugene McCabe ha recuperato narrativamente il mondo del XIX secolo “creando qualcosa che nessun autore dell’epoca avrebbe mai potuto scrivere”. Il complesso racconto, scritto in uno stile conciso e nello stesso tempo denso, è dominato da un destino implacabile che accende passioni che si trasformano in odii, rancori e violenze. Sugli attori di questo dramma incombe un atavico malefizio da cui non riescono a sottrarsi. E’ come se un demone ispirasse le turpi e sanguinarie azioni dei protagonisti divisi da rivalità e da risentimenti che non hanno mai fine e si rinnovano come una condanna. Attorno alla saga familiare dei Winters, ruotano i conflitti religiosi e politici dell’Irlanda del Nord: appaiono Charles Stewart Parnell, il leader indipendentista che fu eletto alla Camera dei Comuni di Londra e si battè per l’autonomia dell’Irlanda, gli Unionisti e i ribelli, gli Invincibili e gli informatori governativi. Vi è la prefigurazione delle stragi e del terrorismo che avrebbero sconvolto l’Ulster un secolo dopo. Per descrivere questa cieca follia, Eugene McCabe ha usato un linguaggio teso e tagliente ma soprattutto estremamente intenso. Ad aleggiare è un’atmosfera di diffidenza reciproca, di continui sospetti e di atroci vendette. Il rischio per McCabe era quello di scrivere un feuilleton di maniera e invece ha saputo creare un’opera di eccellente qualità che si legge con trepidazione e che non lascia indifferenti. Quando Beth si è impossessata delle monete d’oro del patrigno e sta per salire su un calesse, s’imbatte nel muto McGonnell. Prima esprimendosi a gesti e poi tracciando disegni su un foglio di carta, il Muto le fa capire che due uomini vicino a un frassino hanno scavato una fossa. Quella tomba è per lei. Capendo che sono stati Liam Ward e un suo complice, Beth si sente perduta. Il volto pallido come porcellana, a fatica riporta l’oro nella casa di Byll Winters. Pochi istanti e lui le è addosso colpendola con calci e pugni. Intanto urla: “Cagna, ladra, mentitrice”. Zoppicando su un terreno sconnesso, Beth riesce a fuggire. Non sa cosa fare. Non sa come comportarsi. Non sa dove rifugiarsi. Va alla ricerca di Liam, finalmente lo trova. Lui è corrucciato, con le sopracciglia aggrottate: “Ti ha beccata?”. Risponde lei: “Sì, mi ha beccato”. Poi ride istericamente: “Anche se non abbiamo l’oro, abbiamo noi stessi. Siamo giovani, possiamo salpare verso una nuova vita. Forse è la nostra fortuna…”. Beth parla a Liam in tono dolce e intanto si vede morta, gli abiti macchiati di sangue, dentro la fossa. Adesso per Liam prova un senso di ripugnanza ma continua a comportarsi verso di lui con amorevole attenzione. Sussurra: “Questa è la nostra luna di miele…”. Salgono su una barca dirigendosi verso un’isoletta ma la donna fa affondare l’imbarcazione e Liam è inghiottito dall’acqua. Si dimena e urla. Poi il suo corpo scompare. A se stessa dice: “L’amore mio che era sincero, l’amore mio che era infido. Morto. Addio per sempre, per sempre, per sempre, addio”. Il senso della vendetta, della devastazione interiore, della colpa incancellabile per il delitto commesso, scandiscono le ultime pagine di “Morte e usignoli”. La vendicatrice Beth è una figura che ha dimenticato la pietà e il perdono ribellandosi a ipocrisie, soprusi e ingiustizie. La sua è una rivolta destinata a infrangersi contro un cupo e immodificabile destino. Un distico di Shakespeare, in apertura di questo romanzo che possiede una rara forza espressiva, è illuminante: “Tutto è obliquo. Non c’è niente di piano nelle nostre anime maledette. Se non l’infamia dichiarata”.

GAZZETTA DI REGGIO
– 08/01/1997

Morte e usignoli

Storia violenta

 

Un paesaggio paradisiaco fa da sfondo a vicende truci e torbide, all’insegna dell’odio e della violenza: nell’Irlanda rurale del tardo ‘800 è ambientata la storia di Beth che, per amore, abbandona la fattoria del suo patrigno, non prima di averlo derubato del suo oro. Ne nasce un racconto forte e violento, ma coinvolgente e denso che tratteggia i luoghi più oscuri dell’animo umano.

Cristina De Stefano, ELLE
– 10/01/1997

l’isola dell’odio

Morte e usignoli di Eugene McCabe

 

Eugene McCabe è conosciuto soprattutto come autore di teatro, ma questo libro lo conferma anche come uno dei grandi romanzieri irlandesi della nostra epoca. Alla fine dell’800, nella campagna paludosa del Fermanagh. I toni sono pagati eppure carichi di violenza da ballata popolare i protagonisti sono un ricco proprietario terriero protestante, la sua figlia illegittima, un fattore cattolico e ribelle che sembra amarla ma in realtà la usa per le sue vendette politiche. Tutto si svolge nell’arco di trentasei ore, e quasi sempre nella tenuta della protagonista, come in una classica opera teatrale. Schietto, qualche volta brutale, perfetto nell’ambientazione e nello scavo psicologico, l’autore costruisce una storia solida e avvincente che parla dei temi – tutti e due in apparenza eterni – della violenza dell’animo umano e della ferocia della guerra civile irlandese.

Angela Massenzio, L’INDICE DEI LIBRI DEL MESE
– 12/01/1997

 

Tra Eire e Ulster

 

Scrittore versatile, autore di racconti e opere teatrali, alcune destinate perfino alla televisione, come la trilogia intitolata ‘Cancer, McCabe’ fa la sua prima comparsa con ‘Morte e usignoli’ nel territorio del romanzo. Zona di confine, la sua, in cui vive e ambienta le sue storie, sospesa nel mezzo tra due stati, Eire e Ulster, che da tempo non riescono a comporre l’unità perduta, né a vivere in equilibrio la scissione. L’elemento iniziale da cui tutto ha origine risiede nella terra, nelle viscere della campagna nordirlandese fatta di suoni, odori e squarci panoramici destinati a visitare il lettore lungo il corso della narrazione, con apparizioni di malinconia, verde, ossessionante bellezza. Proprio il legame della nascita sembra muovere l’intera vicenda, in cui si intersecano destini paralleli, esistenze di personaggi, alcuni frutto della fantasia, altri nati dalle pagine dolorose della storia dell’Ulster, come Charles Stewart Parnell. Durante l’arco di una sola giornata l’azione inizia e si conclude, inframmezzata da improvvisi flashback, ricordi ingombranti del passato che si fa sempre più pressante con l’avanzare del tempo. I personaggi, infatti, spesso sembrano appartarsi, cercare propri spazi di racconto in cui s’interrogano e si sganciano dalla voce impersonale del creatore, impadronendosi della narrazione per liberare pensieri e impressioni in disordinata circolazione nei corridoi silenziosi della mente. Attorno alla terra tutto ruota: i possedimenti dei Winters, l’eredità di Beth, l’azione politica di Parnell che proprio sulla difesa dei contadini aveva fondato la sua lotta, la guerra degli Invincibili keniani, le opposizioni religiose. Ma si tratta di un vortice, di un’andatura incontrollabile, per cui accanto all’impulso creativo che tende all’ideale (l’unione, il benessere, la libertà) si fa inevitabilmente strada un movimento opposto e contrario di distruzione. Il ritorno alle origini attraverso le mosse iniziali di una faida politico-religiosa, insieme con la rappresentazione di una vita rurale, primitiva, proietta un faro di luce opaca sul presente dell’isola, configurandolo man mano come un eterno ritorno. Di madre in figlia, a cominciare da una genitrice più antica, la biblica Eva, le donne del romanzo si rendono colpevoli di tradimento nei confronti dello stesso uomo, introducendo nel giardino verde dell’Eden l’ombra dell’esilio. Anche se il cattolico, demoniaco Liam, spesso velatamente traslato nelle sembianze del serpente tentatore, fallisce travolto dalla mano vendicativa della sua amante, Beth ha ormai morso il suo frutto avvelenato. Più che dalla trama, o dalla costruzione dei personaggi, si avanza fino alla conclusione del romanzo mossi dal desiderio di capire, se è possibile, come si snoda la linea di confine, individuare il filo nero che intreccia la Storia, l’elemento guasto che corrompe il cammino dell’uomo, lo arresta e lo fa tornare indietro. Quel punto silenzioso della strada in cui, come scriveva Keats, cominciando la morte, termina l’usignolo.

Maurizio Bartocci, IL MANIFESTO
– 11/06/1997

 

Dall’antica Irlanda all’Ulster di oggi, la civiltà negata dei figli di San Patrizio

Storie e civiltà d’Irlanda. Il romanzo di Eugene McCabe tratteggia una cupa saga familiare ambientata nell’800. Il best-seller di Tomas Cahill smonta lo stereotipo di un popolo che si vorrebbe rozzo e violento

In una lecture tenuta nel ’77 all’Ulster Museum, Seamus Heaney, il più importante e raffinato poeta irlandese dopo Yeats, parlò di come esistano due modalità di conoscenza del senso per il luogo. Due modalità tra loro complementari e opposte. La prima ha a che fare con la caducità, l’ignoranza, l’inconsapevolezza; l’altra, con la cultura, l’erudizione e la consapevolezza più totale. Nella sensibilità letteraria si ritrovano a coesistere congiunte in una tensione di forze che, secondo Heaney, è irrefrenabile generatrice di poesia. E sembra che sia proprio questo senso per il luogo, e nello specifico per l’Irlanda e per l’Irlanda del Nord, ad aver ispirato e contraddistinto poeti e narratori inglesi dell’ultimo secolo. Tra questi merita sicuramente un posto Eugene McCabe, nato a Glasgow nel ’30, ma irlandese a tutti gli effetti, che con Morte e Usignoli (trad. di Chiara Vatteroni), ci racconta di quel luogo che è l’Irlanda del Nord del 1883, un paesaggio rurale travolto da una storia familiare dominata da un cupo senso di odio e sfiorato dagli eventi storici e politici di un paese in cui regna la violenza e domina il sospetto. La parola morte, che ci investe prepotentemente dalle primissime righe e che incombe su ogni pagina del libro, stabilisce e imposta immediatamente il tono e il ritmo tragico della narrazione. Di tragedia, infatti si tratta. Billy Winters è un facoltoso possidente terriero, protestante, e vive con Beth, figlia illegittima che sua moglie, cattolica, portava già in grembo il giorno delle nozze. Billy è un uomo violento, dispotico e con un forte senso della proprietà. Ama Beth, ma non di solo amore paterno. Atteggiamenti e pensieri pronunciano immediatamente, seppure sottovoce, la parola incesto. Beth si innamora di Liam Ward, cattolico e rivoltoso affiliato all’Irish Republican Brotherhood. Lui è “il male personificato”, il villain shakespeariano, l’elemento destabilizzante che spezza il cerchio apparentemente armonico dei rapporti familiari tra Beth e Billy e spalanca una voragine nella quale precipiteranno tutti. La lettura è avvincente, il ritmo serrato, le parole cariche di energia. L’intera azione, fluida e ininterrotta si svolge nell’arco di trentasei ore il giorno del venticinquesimo compleanno di Beth. Il relief arriva una sola volta; una sola cesura spezza e smorza per un breve momento l’andamento luttuoso della narrazione con la scena del concerto di Percy Frence alla Town Hall di Enniskillen. Il solo momento in cui cattolici e protestanti si ritrovano uniti nella celebrazione dell’effimera essenza dell’epoca vittoriana. Ma immediatamente McCabe ingrana nuovamente la marcia della tragedia. Il mondo entra in collisione con se stesso e la vita quotidiana si frantuma; ogni parola è rimando all’ordine innaturale delle cose, è il caos che prende il sopravvento sul cosmo. Con forte intensità drammatica Beth e Liam progetteranno la morte di Billy, ma le cose in modo repentino prenderanno una piega diversa e il canto degli uccelli sarà la colonna sonora di una scena delittuosa fuori programma. Questo è un libro che non lascia spazio a virtuosismi della lingua e a strutture narrative complesse ma vacue. E’ una lingua asciutta, a volte angosciante quella che sostiene magistralmente il racconto delle passioni e delle debolezze degli uomini con richiami costanti ai momenti storici e politici dell’Irlanda di fine secolo e degli effetti che decisioni ed errori di allora hanno prodotto sull’Ulster di oggi. In tutto il libro, però, i riferimenti alla storia e alla civiltà irlandese affiorano timidamente, a volte sotto forma di battute (“una volta gli aveva detto che era stato un irlandese a mostrare agli ingegneri romani come fare le grandi strade dell’impero”), forse perché, come dice Tomas Cahill in Come gli irlandesi salvarono la civiltà (trad. di Catherine Mc Gilvray), che per circa 80 settimane è rimasto nella classifica Usa dei libri più venduti, “l’aggettivo irlandese si accompagna di rado alla parola civiltà. Quando si pensi a popoli civilizzati o portatori di civiltà, verranno in mente gli Egiziani, i Greci, i Francesi e gli Italiani, o ancora i Cinesi e gli Ebrei. Gli Irlandesi sono selvaggi, irresponsabili e affascinanti, oppure cupi, repressi e corrotti; ma non particolarmente civilizzati”. Con questo saggio Cahill vuole smentire il mito degli irlandesi come popolo rozzo e incivile e dimostrare invece la tesi che l’Irlanda è un paese indissolubilmente legato al termine civiltà e che ha giocato un ruolo fondamentale nella salvezza della tradizione classica dopo il crollo dell’impero romano. Prima della fine del V secolo, infatti, le grandi biblioteche del continente erano praticamente scomparse, così come la professione di copista. Ma i monaci irlandesi, per niente interessati alla costruzione di opere maestose, preferirono dedicarsi alla preghiera, alla coltivazione della terra e alla copiatura di libri. L’Irlanda, “pacificata e intenta a copiare furiosamente, si trovò quindi in condizioni di diventare l’editore dell’Europa”. Ma Cahill non racconta solo di monaci copisti. Lui si rivolge al passato con uno sguardo che arriva al pensiero dei personaggi dell’epoca, penetra le loro menti e ne anticipa le azioni. Narra della regina Medb e del guerriero Cuchulainn e dell’Irlanda barbarica e precristiana che loro rappresentano; del poeta Ausonio e di Agostino; di San Patrizio e di San Colombano al quale, secondo Cahill, spetta il merito di aver reso possibile l’esistenza dei libri in Europa grazie all’istituzione di conventi italo-irlandesi. “A questo punto”, dice Cahill, “la trasmissione della civiltà europea era garantita. Ovunque andassero, gli irlandesi portavano con sé i loro libri, molti dei quali non erano più stati visti in Europa da secoli”; “ovunque andassero, portavano con sé l’amore del sapere e la loro abilità nel fare i libri. Nelle baie e nelle valli del loro esilio ristabilirono la capacità di leggere e scrivere, e infusero nuova vita nell’esanime cultura letteraria dell’Europa. E fu così che gli Irlandesi salvarono la civiltà”. Cahill riflette sui fattori del divenire in storia con una spiccata abilità di sintesi che respinge ogni conformismo scientifico e crea uno spazio narrativo appassionante e avvincente che apre le porte anche a chi non è uno specialista della materia. La mancanza di disquisizioni erudite, rimpiazzate abilmente da precise informazioni su fatti e personaggi protagonisti dell’Europa alle soglie del Medioevo, rivelano una concezione storica potente, nuova, ricca di ironia e senso dell’umorismo.

Morte e usignoli - RASSEGNA STAMPA

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