Massimo Nava

Vittime

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Storie di guerra sul fronte della pace

Collana:
Numero collana:
103
Pagine:
320
Codice ISBN:
9788881126057
Prezzo cartaceo:
€ 18,00
Codice ISBN ePub:
9788876253294
Prezzo eBook:
€ 6.99
Data pubblicazione:
01-10-2006

Fotografie di Livio Senigalliesi
Prefazione di Claudio Magris

Dal noto corrispondente del «Corriere della Sera», il primo libro che racconta dalla parte delle vittime tutti i maggiori conflitti degli ultimi vent’anni. L’autore devolverà interamente i diritti d’autore a Emergency per sostenere il Centro Protesi, Riabilitazione e Reintegrazione sociale di Sulaimaniya – Iraq. Massimo Nava è stato inviato di guerra in molti angoli del mondo, dall’Africa all’Asia, dai Balcani all’Iraq, dove ha raccontato per il «Corriere della Sera» l’ultima guerra. Ha visto cadere regimi e dittatori, finire nel sangue movimenti e rivoluzioni e ha soprattutto narrato le storie degli esseri umani che in queste svolte epocali venivano travolti, costretti a fuggire, uccisi, bombardati, talora secondo una logica che pretende di difendere i loro interessi, migliorare le loro condizioni di vita, liberarli da una dittatura, esportare il bene superiore della democrazia. In questo libro l’autore rievoca i conflitti più importanti prima della caduta del Muro e la lunga serie di guerre e massacri degli anni successivi, raccontando con grande verve narrativa e forza polemica la guerra vista dal basso, da coloro che ne soffrono maggiormente, e denunciando con fermezza e dovizia di esempi l’ipocrisia e le menzogne delle moderne democrazie mediatiche – la «democrisia» – di fronte alle guerre, la cui prima vittima è sempre la correttezza dell’informazione. Il volume è corredato da materiale fotografico originale di Livio Senigalliesi, con cui Nava ha vissuto buona parte delle esperienze sul fronte; inoltre il libro contiene schede informative aggiornate su tutti i conflitti.

VITTIME – RECENSIONI

 

STYLE MAGAZINE – MENSILE DEL CORRIERE DELLA SERA
– 01/03/2008

 

Massimo Nava

 

 

 

LIBERTÀ DI PIACENZA
– 20/05/2006

 

A Parigi uno spettacolo dal libro di Massimo Nava

 

 

 

ANSA
– 19/05/2006

 

TEATRO: MIR MIR, IN SCENA A PARIGI LE VITTIME DI GUERRA

 

(ANSA) – PARIGI, 19 MAG – Cinque personaggi sulla scena,
sempre gli stessi, da un paese all’ altro, da una guerra all’altra, fino al genocidio: tre vittime della guerra, delle guerre, la narratrice inviata di guerra, delle guerre, e un conferenziere, uno storico, della guerra, delle guerre.
‘Mir Mir’ – Pace Pace, in serbo-croato – presentato ieri in prima nello spazio teatrale dell’ Istituto italiano di cultura di Parigi, diretto da Giorgio Ferrara, racconta storie di vittime delle guerre: dal Kosovo, all’ Iraq, al Ruanda.
Lo fa in termini efficaci e con forme teatrali, studiate dalla giovane regista Pamella Edouard – già assistente di Peter Brook – che danno corpo, voce ed emozioni ad una denuncia e ad una finale presa di coscienza: quella che un essere umano non può continuare a vivere così, passando da un orrore all’altro, senza interrogarsi e senza guardare negli occhi i responsabili dei massacri e a metterli di fronte alle loro responsabilità.
Un’ ora e quaranta minuti di spettacolo asciutto in francese, che traduce le pagine del libro del giornalista Massimo Nava, ‘Vittime, Storie di guerra sul fronte della pacè (Fazi Editore, prefazione di Claudio Magris), inviato di guerra, ora corrispondente da Parigi del Corriere della Sera.
Passano sul palcoscenico racconti e testimonianze di brutalità e di deboli speranze – interrotti dai rumori dei raid aerei, dagli scoppi delle bombe – delle vittime del Kosovo, dell’ Iraq fino al genocidio in Ruanda, quasi indicibile. Tant’è che la cronista di guerra, fino ad allora dentro le pieghe degli eventi, getta via il suo taccuino d’ appunti.
Il percorso di sofferenze si chiude con una speranza: un canto collettivo di tutte le vittime, simbolo di una umanità che arriva a capire gli orrori e a rifiutarli e vera ‘arma di distruzione di massà a disposizione dell’ uomo.
Applausi convinti agli attori – le tre vittime, Caterina Barone, Raissa Brighi, Annka Musy, la narratrice Anne Coutureau, il conferenziere Pascal Gouin – e alla regista Pamella Edouard.

 

G. Z. , CORRIERE DELLA SERA
– 18/05/2006

 

Il fronte di guerra diventa una pièce teatrale

 

 

 

AGENZIA AISE
– 16/05/2006

 

All’IIC di Parigi “Mir, mir”: da un libro di Massimo Nava l’adattamento teatrale di Pamella Edouard

 

 

 

R.C., CORRIERE DELLA SERA
– 21/01/2006

 

La realtà deformata vista da Magris e Grass

 

 

 

C.S, YOURSELF
– 01/06/2005

 

Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace

 

Di nome fa Nermin Basic, è biondo con gli occhioni azzurri e non ha più le gambe. Per muoversi questo piccolo croato si trascina sulle braccia. La madre l’ha abbandonato quando aveva 9 mesi, quella adottiva è stata dilaniata dalle bombe nell’inferno dei Balcani. È una delle tante storie che racconta Massimo Nava, inviato del Corriere della Sera, nel suo “viaggio negli orrori”, come lo definisce nella prefazione Claudio Magris. Quelle che racconta il giornalista sono sto-rie di dimenticati e di miserabili in Afghanistan, Georgia, Somalia, Burundi, Kosovo, Serbia, Iraq…
E’una radiografia dei conflitti armati degli ultimi 15 anni, lucida, a volte brutale, ma insieme densa e toccante. Dai bambini jugoslavi a quelli somali. Cambia lo scenario, non la sostanza. E’ solo un’altra guerra civi-le che lascia dietro di sé migliaia di orfani. Per non parlare della strage infinita dei contadini in Algeria, vitti-me del fondamentalismo islamico. O del genocidio in Ruanda, dove il fiume Kagera nel 1994 divenne un cimitero d’acqua per le centinaia di cadaveri trascinati dalla corrente. E di Timor Est, messa a ferro e fuoco nel 99 dalle milizie indonesiane, dove 200mila civili furono costretti a fuggire, molti massacrati a colpi di machete.
Il volume è corredato da quattro dos-sier fotografici di Livio Senigalliesi e da schede aggiornate sulle 20 guerre raccontate da Nava.

 

WWW.MISTERIDITALIA.COM
– 01/11/2005

 

NOVITA’ EDITORIALI

 

Un libro bello, asciutto, scritto con la freddezza del cronista di guerra e con lo stile che da sempre distingue Massimo Nava, giornalista del Corriere della sera, ora corrispondente da Parigi, ma prima ancora inviato, esperto di giudiziaria.
Il filo logico che sostiene questo viaggio nel mondo in fiamme, attanagliato dalle guerre, è semplice, quanto stimolanante: il crollo del muro di Berlino e la sparizione del blocco sovietico aveva alimentato una speranza rivelatasi falsa, la speranza di un mondo migliore. Da allora, invece, il mondo è caduto preda di un delirio bellico che, nel giro di una quindicina d’anni appena, ha provocato quattro guerre su larga scala (Kosovo, Afghanistan, due volte l’Iraq) e una serie infinita di massacri e stermini di popolazioni civili.
Con il suo Vittime, Nava, oltre a raccontarci una lunga serie di orrori di guerra, denuncia l’ipocrisia mediatica delle moderne democrazie, capaci di uccidere sempre la corretta informazione.
Il libro è corredato da quattro straordinai dossier fotografici di Livio Senegalesi.

 

Alessia Rosa, IL TIRRENO
– 27/07/2005

 

La paura è nel giardino di casa

 

 

 

Mara Pace, CORRIERE DELL’ALTO ADIGE
– 18/08/2005

 

“La mia rabbia contro i media. No alle notizie prefabbricate”

 

 

 

P. C., ALTO ADIGE
– 19/08/2005

 

La nuova “democrisia”

 

 

 

Giuseppe Zaccaria, LA STAMPA
– 10/06/2005

 

La storia è finita ammazzatevi in pace

 

POCHE previsioni si sono rivelate più errate di quella di Francio Fukuyama, lo storico americano che con la caduta del Muro di Berlino profetizzò la “fine della Storia”. A 15 anni da quella storica stupidaggine non v’è traccia del mondo pacificato che si vagheggiava allora e anzi mai come adesso il mondo ha avvertito più intensamente il rischio di un collasso globale. Un proverbio ebraico citato da Claudio Magris nella prefazione ricorda che il mondo può essere distrutto dalla sera a l mattino, per molti di noi il proverbio di è trasformato in incubo e questa ossessione ha provocato un’immensa opera di rimozione, un’attività continua di disinformazione e occultamento. La nostra è anche l’epoca che ha visto nascere e ingrassare organizzazioni nel cui oggetto sociale si dichiara l’intenzione di manipolare la realtà su scala planetaria, e diventano tanto più potenti quanto meglio riescono a diffondere grandi menzogne.
Massimo Nava si cimenta con successo nell’operazione opposta, quella di smontare la verità preconfezionata, e lo fa ripercorrendo luoghi e storie della sua attività giornalistica. Per lunghi anni inviato del Corriere della Sera in aree di crisi e su fronti di guerra, Nava ritorna sui sentieri già battuti illuminando racconti e ritratti di una luce diversa, più fredda a sobria di quella dei reportage e soprattutto cambiando l’angolazione delle sue storie, soffermandosi sulle persone che più direttamente hanno subito gli effetti delle 683 guerre che hanno funestato il mondo dal 1945 ad oggi.
Purtroppo, se è vero che molti conflitti sono serviti a trasformare regimi dittatoriali in più accettabili “demokrature” dove il potere di pochi è mitigato da poche garanzie formali, si sono verificate mutazioni anche nei paesi più sviluppati dove hanno avuto origine quelle che Nava definisce “democrisie”, sistemi sempre più fondati sull’ipocrisia. Eppure le stesse cifre del mondo in cui viviamo dovrebbero imporre un ritorno ai contenuti etici della politica internazionale. Oggi la parte più ricca del pianeta (sono cifre fornite dal presidente della Banca mondiale, James Wolfenson) spende 900 miliardi di dollari l’anno per la Difesa, 160 miliardi per combattere il terrorismo e appena 60 miliardi di dollari per lo sviluppo. La cultura castrense sembra celebrare un ritorno trionfale nelle nostre società mentre soltanto nell’ultimo decennio guerre e guerricciole hanno causato 3 milioni e 600 mila morti, e 20 milioni di bambini sono diventati profughi. E’ stato affermato che se nel 1800 il divario fra le economie più avanzate e quelle povere era di 5 a 1, nel 1900 questo rapporto era diventato di 13 a 1 e nel 1950 di 33 a 1. Oggi il divario è praticamente incalcolabile.

 

David Fiesoli, IL TIRRENO
– 23/04/2005

 

La guerra infinita

 

Questa è una storia di guerra fatta di guerre e di storie che si infiammano, dalla caduta del muro di Berlino al crollo delle torri di New York. Una speranza bruciata sulla pelle delle vittime ai quattro angoli del mondo: speranza che pareva aprire a un rafforzamento del diritto internazionale e invece ha lasciato posto all’odio, a una finta pace, a una scia di sangue che arrossa Balcani, Caucaso, Ruanda, Somalia, Iraq, Afghanistan, e altri mille posti maledetti. Le vittime non sono danni collaterali quando capita loro la fortuna di essere vive, hanno voci da ascoltare e volti da leggere. E le racconta, piagate dalla guerra infinita che non abbiamo letto sui giornali né visto in tv, il giornalista Massimo Nava, a lungo corrispondente di guerra del “Corriere della Sera”, in un libro bello da commuovere, impreziosito dalle magnifiche foto di Livio Senigallesi.
Paese per paese, Nava raccoglie voci e le adagia sul corso degli eventi, fiume di storie che scorre nel fiume della Storia. Come ami, dopo la fine della guerra fredda a u n flash di speranza, i popoli hanno preso a decimarsi e i potenti del mondo non sanno che fare di meglio che inventarsi la guerra per la democrazia? Paradigmatico è il conflitto che ha smembrato la Jugoslavia. Incontriamo in Croazia Narmin Basic, bambino abbandonato, biondo, senza gambe. Ci aggiriamo tra i corpi sfracellati della strage al mercato di Sarajevo, o nell’ospedale per malati mentali nel sud della Serbia. Ascoltiamo i giovani di Mostar, la dottoressa serba, le quattro sorelle kosovare. Luoghi dove convivevano etnie e religioni sono oggi regni dell’assurdo, patrie dei senza più patria, cacciati da ogni dove, profughi per sempre. Uguale, il dramma si replica in Asia e Africa: la possibilità di una sintesi costruttiva, basata su rapporto tra Stati, organizzazioni internazionali e società civili è sepolta da terrorismo. Aggressioni unilaterali, impotenza dell’Onu, velleitarismo europeo, imperialismo americano. La frase “mai più Auschwitz”, pronunciata dopo Norimberga, è diventata bugia.

 

Vittorio Dell’Uva, IL MATTINO
– 27/05/2005

 

L’Occidente tra democrazia e ipocrisia

 

L’ AUTOINGANNO evita gli approfondimenti, salva le coscienze, favorisce l’assorbimento di “precotti” di natura ideologica. Ma, a lungo protratto, si trasforma anche in una delle strutture portanti di un impianto politico sbilenco favorendo quella che Massimo Nava, giornalista del “Corriere della Sera” definisce la “democrisia” nel suo Vittime, storie di guerra sul fronte di pace (Fazi, pagg. 326, euro 18). Il neologismo sta a indicare una democrazia che si fonda sempre di più sulla ipocrisia se non – come osserva Claudio Magris nella prefazione – “sull’occultamento della verità non solo nascosta, ma spesso svisata in modo tale da non essere più distinguente”. Dell’ultimo, generalizzato, deviazionismo planetario Nava fornisce molte prove, attraverso una radiografia dei conflitti che generano olocausti spesso nemmeno classificati come tali e che si sono sviluppati paradossalmente in un’era che doveva essere di pace. La caduta del Muro, ricorda l’autore, fu salutata come la “fine della guerra fredda e della storia”, se non come l’alba di un mondo pacificato in cui i governi si sarebbero adoperati per il bene dell’umanità. Da allora sono state insanguinate l’Africa, l’Asia e la stessa Europa attraverso la disgregazione della ex Jugoslavia. E teorie come quelle dell’”asse del male” che possono essere all’origine di altre guerre sono state “diluite nella informazione quotidiana con la stessa disinvoltura” con cui si prova ad affermare “una marca di profumi”.
Vittime, i cui diritti di autore sono destinati a Emergency per l centro di riabilitazione di Sulaimaniya in Iraq, non è una mappa “generica” dei conflitti endemici studiati a tavolino come accaduto nel caso della invasione dell’Iraq che “ha comportato menzogne in fase di pianificazione”. Anni di lavoro da inviato speciale hanno consentito a Nava l’osservazione diretta di molti scacchieri, ma soprattutto l’approfondimento delle concause di tante tragedie. Il giornalista va alle radici di una nuova cultura della guerra per denunciare che le ramificazioni si sino fatte invasive anche grazie ad intossicazioni informative che provano a smantellare il baluardo di un pacifismo che diventa “scomodo”. Il caso iracheno è da questo punto di vista emblematico. Le posizioni di quanti si opponevano alla guerra sono state considerate un’offerta di alleanza a Saddam. Il libro, arricchito dei reportage in bianco e nero, le splendide fotografie di Livio Senigallesi, reporter da prima linea, non trascura conflitti generati da diversi interessi. Nava li ha ricostruiti e raccontati attraverso la tragica ricaduta sui singoli. Sono poveri e disperati, come i loro aguzzini quanti hanno visto bruciare la loro esistenza nei campi profughi in Ruanda. Condizioni umane sono state oscurate nel Kosovo, come in Cecenia. Forse ha ragione l’arcivescovo di Parigi quando osserva che “il nichilismo di Auschwitz è riconoscibile in Cambogia, come in Bosnia o in Algeria”.

 

IL GIORNALE.IT
– 26/06/2005

 

Nava, un inviato di pace sui fronti di guerra

 

Come é il mondo visto dall’altra parte? Come é la politica osservata con gli occhi di chi non ha niente? Come é soprattutto l’avvenire dal punto di vista delle vittime dei drammi a cui l’opinione pubblica sembra abituarsi, come é l’attuale assuefazione alla tragedia sudanese? La risposta che dà a queste domande Massimo Nava, inviato speciale del Corriere della Sera in alcuni dei luoghi più martoriati del pianeta, é al tempo stesso semplice e drammatica: le vittime reagiscono col silenzio alle tragedie che le colpiscono, ma quello stesso silenzio é la conseguenza della nostra incapacità di ascoltarle, di capirle e di consacrare loro l’attenzione che meritano. Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace é il titolo del libro-testimonianza di Massimo Nava (Fazi, pagg. 330, euro 18; fotografie di Livio Senigalliesi, prefazione di Claudio Magris) che ha vissuto dall’interno alcuni dei più drammatici conflitti del mondo contemporaneo. Sembrava che la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, fosse destinata ad aprire un nuovo capitolo nelle relazioni internazionali. In parte é stato davvero così, nel senso che il vecchio bipolarismo ha lasciato il posto a relazioni diplomatiche basate sul ruolo di una sola superpotenza – gli Stati Uniti – che però non sono riusciti a risolvere da soli i problemi del pianeta. Troppo forti per essere “bilanciati” dal ruolo di un’altra superpotenza, gli Stati Uniti si sono rivelati – malgrado tutto – troppo deboli per stabilire da soli le regole della nuova convivenza tra le nazioni. Così il vecchio bipolarismo ha lasciato il posto a un multipolarismo zoppo, in cui l’Unione Europea brilla per mancanza di coordinamento in politica estera. Il passo tra il linguaggio geopolitico e quello delle tragedie quotidiane é allo stesso tempo breve e gigantesco. Nava lo compie nel più logico dei modi: raccontandoci ciò che ha visto girando da una crisi all’altra, tra l’ex Jugoslavia e il Caucaso, tra le convulsioni di una Somalia abbandonata a se stessa e la “strage infinita” in Algeria, tra il genocidio in Ruanda e il “massacro come abitudine” in Burundi, e infine tra le crisi ininterrotte di due aree che da troppo tempo non conoscono pace, come l‘Afghanistan e il Medio Oriente, terre delle guerre e del petrolio. Il libro di Nava ha due volti: quello della riflessione e quello della testimonianza. L’autore le tiene saggiamente divise tra loro, consentendo di apprezzare tutta la forza della seconda anche a chi non concorda con l’insieme delle analisi contenute nella prima. Certo le riflessioni del libro fanno una vittima illustre: l’americano Francis Fukuyama, le cui riflessioni sulla “fine della storia” vengono considerate da Nava come una dimostrazione di ottimistica ingenuità, come se il mondo stesse diventando “un paradiso, persino un poí noioso”.

 

 

CORRIERE MERCANTILE
– 22/04/2005

 

La guerra vista dagli ultimi

 


Dal noto corrispondente da Parigi del “Corriere della Sera”, ecco il primo libro che racconta dalle parte delle vittime tutti i maggiori conflitti degli ultimi vent’anni. Massimo Nava è stato inviato di guerra in molti angoli del mondo, dall’Africa all’Asia, dai Balcani all’Iraq, da dove ha raccontato per il suo giornale l’ultimo sanguinoso conflitto. Ha visto cadere regimi e dittatori, finire nel sangue movimenti e rivoluzioni e ha soprattutto narrato le storie degli esseri umani che in queste svolte epocali venivano travolti, costretti a fuggire, uccisi, bombardati, talora secondo una logica che pretende di difendere i loro interessi, migliorare le loro condizioni di vita, liberarli da una dittatura, esportare il bene superiore della democrazia.
in questo libro l’autore rievoca i conflitti più importanti prima della caduta del Muro e la lunga serie di guerre e massacri degli anni successivi, raccontando con grande verve narrativa e forza polemica la guerra vista dal basso, da coloro che ne soffrono maggiormente, e denunciando con fermezza e devozia di esempi l’ipocrisia e le menzogne delle moderne democrazie medianiche – la “democrisia” – di fronte alle guerre, la cui prima vittima è sempre la correttezza dell’informazione. Il volume è corredato da materiale fotografico originale di Livio Senigalliesi, con cui Nava ha vissuto buone parte delle esperienze sul fronte; inoltre il libro contiene schede informative aggiornate su tutti i conflitti. L’autore devolverà interamente i diritti a Emergency, per sostenere il Centro Protesi, Riabilitazione e Reintegrazione di Sulimaniya in Iraq.

 

 

Alessandro Marzo Magno, DIARIO
– 27/05/2005

 

Tempi di guerra

 

Quando c’era la Guerra fredda e l’Europa era in pace (meglio, in “non guerra”), c’era sempre chi ricordava le decine di conflitti che costellavano un mondo comunemente definito “in pace”. Ora non c’è più neanche quella finzione. La fine dell’equilibrio del terrore basato sulla dissuasione nucleare e certezza della reciproca distruzione ha reso la guerra uno scenario di nuovo possibile, in qualche modo accettabile. Mentre solo dieci anni fa nessun politico avrebbe potuto dichiararsi favorevole alla guerra (ricordiamoci il rifiuto di intervenire in Bosnia fino alla strage di Srebrenica, 7.000 morti nel luglio 1995), ora la guerra può diventare parte del proprio programma elettorale.
Questi due libri ci ricordano cosa sia la guerra e la vedono con gli occhi di chi la patisce di più: le vittime di ogni genere. Vittimeuniscono i reportage di Massimo Nava alle foto di Livio Senigalliesi. Quest’ultimo, le cui immagini sono apparse e appaiono anche su Diario, è uno dei più importanti fotoreporter di guerra italiani, è stato dappertutto, ha seguito tutto. Talvolta è stato l’unico fotografo a immortalare un evento destinato a entrare nella storia, come la strage di Raçak, in Kosovo. Si è ritrovato solo in mezzo a un campo con un po’ di fucili puntati addosso e quello che stava per ordinare: “Fuoco” che all’ultimo momento ha cambiato idea. Da una vita professionale così non possono che uscire immagini di enorme impatto emotivo e visivo, come quelle di questo libro.
Massimo Nava non ha bisogno di presentazioni, inviato del Corriere della Sera, oggi è il corrispondente da Parigi del maggior quotidiano italiano. Era a Berlino quando crollò il muro, poi ha seguito tutti i conflitti dell’ex Jugoslavia e un sacco di guerre ai quattro angoli del mondo (Iraq compreso). Ma sarebbe sbagliato pensare che sia una raccolta di reportage per testimoniare i nastrini dell’inviato di guerra, ci sono brani significativi, articoli scritti sul campo, ma anche una puntigliosa opera di aggiornamento che spiega come sono andate le cose dopo che i fatti sono stati narrati. Una prefazione di Claudio Magris e un intervento di Gino Strada completano il libro i cui diritti d’autore saranno devoluti ad Emergency. […]

 

 

Alberto Bruzzone, CULTURA/LIBRI
– 29/04/2005

 

La guerra secondo gli ultimi

 


Gli orrori della guerra raccontati dagli ultimi. Spettatori impotenti di quanto accade intorno a loro, cieche pedine di uno scacchiere mosso dai grandi del pianeta. Anni e anni di conflitti, dalla caduta del Muro di Berlino fino agli scontri in Iraq fanno da sfondo a Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace, il libro di Massimo Nava, giornalista del “Corriere della Sera”, che verrà presentato lunedì alle 17 presso la sala della provincia di Genova (Palazzo Doria Spinola), alla presenza dello stesso autore.
Edito per i tipi di Fazi. Vittime è un documento importante, ma anche un progetto sociale: l’autore, infatti, devolverà interamente i suoi diritti ad Emergency, per sostenere il Centro Protesi, Riabilitazione e Reintegrazione sociale di Sulaimaniya un Iraq. “Ho scelto di raccontare la storia dalla parte delle vittime – afferma Nava, che è stato inviato speciale e di guerra e attualmente lavora come corrispondente da Parigi per il “Corriere” – perché questo è un modo per ricordare con volti e nomi, gli enormi costi umani dei conflitti, quelli che in un gergo asettico vengono definiti “danni collaterali””. Ma non esistono affatto bombe “intelligenti” “Troppo spesso si sbaglia bersaglio – prosegue l’autore – Viviamo nella presunzione che si possa condurre una guerra come un operazione chirurgica dove i bombardieri sono bisturi altamente tecnologici”.
Il libro di Nava tratta per gran parte il conflitto in Iraq, ma grande spazio è riservato anche alla guerra dei Balcani. “non sono un pacifista a oltranza – sostiene il giornalista – Ma la guerra non può essere decisa calpestando il diritto internazionale”. All’inizio del conflitto, l’Onu ha mostrato tutta la sua debolezza. “In questi anni abbiamo assistito a una progressiva esautorazione e delegittimazione dell’Onu. Questo organo funzionerebbe bene solo se le nazioni fossero veramente unite”.
Ma non è così, e un altro problema è quello della giustizia internazionale. “Un’idea nobile, per la quale è giusto darsi da fare. Invece assistiamo a episodi di “autoassoluzione”, come quelli fatti dagli Stati Uniti per Abu Ghraib e per il caso Calipari. Bisogna fermarsi a riflettere: esportare i diritti civili e gli strumenti per attuarli, come la Corte penale internazionale”.

 

 

Alessandra Bevilacqua, L’ECO DI BERGAMO
– 29/04/2005

 

“Raccontare la guerra, un mestiere a rischio di manipolazione”

 

Raccontare una guerra non sempre è facile e non sempre è un’azione scevra di manipolazioni. Ma ci ha provato Massimo Nava, inviato speciale del Corriere della Sera, nel suo ultimo libro, “vittime. Storie di Guerra sul fronte della pace” , edito da Fazi, presentato ieri pomeriggio al Quadriportico, proprio dall’autore.
“La guerra, nella storia, è stata di conflitto o di liberazione – ha spiegato Nava – mentre oggi è sempre più banalizzata, affiancandole degli aggettivi positivi come “giusta” o “umanitaria”. Ma la guerra è un concetto negativo in se, che non necessita di alcun aggettivo. Col mio libro cerco di smontare questa mistificazione”. Una svalutazione che, secondo l’inviato del Corriere (nel primo pomeriggio all’Università in Città Alta aveva tenuto una lezione agli studenti del corso di Storia del giornalismo), tocca anche le vittime, perché “l’opinione pubblica esprime una partecipazione al dolore delle vittime, inversamente proporzionale alla loro distanza”. Secondo Andrea Valesini, giornalista de L’Eco di Bergamo, che ieri ha moderato l’incontro, “questo è un libro necessario, scritto con rigore e con pietas verso le vittime. E che introduce anche la dimensione della complessità, contro un manicheismo dilagante, che divide tutto tra bene e male”. Il testo, inoltre, è stato scelto da Emergency per caratterizzare la presenza dell’associazione all’interno della fiera del libro 2005, in corso sul Sentierone: “Abbiamo apprezzato il coraggio nello scrivere e il punto di vista dell’autore, che parte dalle vittime per raccontare i conflitti, così come la vediamo anche noi da i pronto soccorso sparsi sui diversi fronti – ha aggiunto Piercarlo Politi, referente delle relazioni sul territorio di Emergency -. Il criterio valutativo dell’autore è vicino al nostro, quando afferma che non è difficile stare dalla parte della pace, basta stare dalla parte della vittime”. E proprio “le vittime sono il nome e l’essenza stessa di una guerra – secondo Carlo Garbagnati, vicepresidente nazionale di Emergency -. Da cui non si può prescindere, perché la guerra è distruzione di umanità, di corpi, di un ambiente favorevole alla vita”. Ma lo sguardo non è pessimistico: “Non è un caso che i ricavi vadano al nostro centro di riabilitazione a Sulaimaniya, nel Nord dell’Iraq, dove la vittime hanno la possibilità di ricevere una riabilitazione e di guardare oltre – ha proseguito Garbagnati .- così come il libro trasmette speranza e poesia, in consonanza agli obiettivi di Emergency, che portano a dire che il no alla guerra e il dopo sono possibili”. L’incontro è stato anche l’occasione per affrontare temi internazionali, come le conseguenze del crollo del Muro di Berlino, definito da Nava “un’occasione mancata dall’umanità intera per costruire un sistema di relazioni internazionali più condivise”, del ruolo degli Stati Uniti, “che sono parte del problema ma anche parte della soluzione – per l’inviato del Corriere -. Poiché è in gioco la nostra sopravvivenza, la sola via percorribile è il rilancio di un sistema di regole di relazioni internazionali, che riducano i conflitti”.

 

 

Andrea Valesini, L’ECO DI BERGAMO
– 01/05/2005

 

“Sotto le macerie del Muro migliaia di morti”

 

Dal ’90 a oggi 3 milioni e 600 mila persone sono morte in guerra. La metà erano minori. Quattro conflitti su larga scala (Kosovo, Afghanistan e due volte l’Iraq), massacri impuniti di civili (Bosnia, Ruanda, Burundi, Congo, Sudan, Cecenia, Sierra Leone e Timor Est) più un numero indefinito di guerriglie. Liberato dalla cortina di ferro e dal giogo dei due blocchi contrapposti, il mondo non ha trovato pace e naviga incerto alla ricerca di un nuovo ordine internazionale. Massimo Nava, corrispondente da Parigi del “Corriere della Sera”, già inviato dello stesso quotidiano nelle aree calde del pianeta, ha condensato in un libro (Vittime, Fazi Editore) i suoi incontri con la guerra, corredati dalle fotografie di Livio Senigalliesi. E’ un viaggio carico di pietas fra i drammi dei Balcani, dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente, preceduto da un rigoroso saggio sull’attualità (dalla guerra preventiva all’informazione manipolata). Nava ha presentato il volume alla fiera del libro di Bergamo insieme ad Emergency (i diritti d’autore sono devoluti all’associazione che si prende cura delle dei conflitti). Ha concesso questa intervista in Città Alta, prima di incontrare all’Università gli studenti del corso di storia del giornalismo.
Dopo la caduta del Muro di Berlino lo storico Francis Fuku yama aveva vaticinato la “fine della storia”, un mondo pacificato i cui governi si sarebbero adoperati per il bene dell’umanità. Il bilancio di questi 15 anni è ben diverso. Resta senza risposta la domanda: come garantire stabilità al mondo?
“Partendo proprio dalla frase semplificata di Fukuyama sulla fine della storia, in realtà siamo andati incontro ad un mondo molto più pericoloso e complicato e soprattutto si è perduta di vista quella che era la grande speranza dopo la caduta del Muro di Berlino, cioè che la fine della guerra fredda avrebbe portato un sistema di relazioni internazionali più coeso e più facile, essendo finito il blocco sovietico e il periodo comunista. In realtà da quell’epoca abbiamo avuto non solo molti conflitti, come ricordo nel libro, ma soprattutto una rottura nel sistema delle relazioni internazionali. Anziché migliorarle le abbiamo peggiorate. Si è via via affermata la forza e lo strapotere di un solo impero, quello americano, accompagnato dalla sostanziale debolezza dell’Europa e progressivamente da un aggiramento o da una delegittimazione o addirittura di un vuoto di presenza delle Nazioni Unite. Quindi il processo di intermondializzazione delle regole anziché crescere è rimasto lettera morta. Come sono rimasti senza seguito altri “megasistemi” di regole: i protocolli di Kyoto sullo sviluppo sostenibile e la Corte Internazionale di giustizia. Quindi in realtà viviamo in un momento di incertezza. Una soluzione ovviamente sulla carta non c’è. Il mondo ha sempre più bisogno di regole condivise e possono realizzarsi solo su valori il più possibile accettati”.
Quali sono questi valori?
“il rispetto dei diritti umani, dei popoli, delle identità e delle culture diverse. E quindi anche dei modelli di società diverse anche, se alcuni possono piacerci di meno”.
In tempi recenti sono nate nuove categorie di conflitto: la guerra umanitaria (Kosovo) e la guerra preventiva (Iraq). La politica è la grande sconfitta di questa epoca?
“Queste definizioni, che sono largamente medianiche, sono state contate proprio per legittimare decisioni politiche. Quindi più che morte della politica direi soprattutto morte del diritto internazionale. Perché quando decine di migliaia di vittime civili vengono definite “danni collaterali” o quando si pretende di considerare un bombardamento umanitario come qualcosa che porta benessere, democrazia e libertà, allora siamo al trionfo di una determinata politica. Ma è soprattutto un fatto mediatico, una colossale opera di convincimento dell’opinione pubblica”.
La prospettata riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu potrebbe cambiare qualcosa nell’attuale “disordine mondiale”?
“Si, potrebbe, se ci fosse una volontà politica condivisa il più largamente possibile affinché il nuovo Consiglio di Sicurezza, allargato ad altri membri e a continenti che ne sono esclusi e comunque con una rappresentatività più completa – pensiamo all’india, al Brasile, al Sud America, all’Africa – possa avere più legittimità anche di fronte a conflitti e ad emergenze”.
Nel libro sostiene che nessun problema è risolvibile senza gli usa. L’America è troppo forte perché l’Europa è troppo debole?
“Si. Io dico che gli stati Uniti sono parte del problema e contemporaneamente parte della soluzione. Se vogliamo ragionare sui problemi e non fare delle ideologie, gli Usa e la loro politica possono essere criticati, possono piacerci o meno. Ma gli Stati Uniti restano comunque la superpotenza mondiale dalla quale è impossibile prescindere, altrimenti qualunque politica diventa illusoria e velleitaria. Certo che un’Europa più forte, un mondo che poggiasse su altri pilastri, quindi più multipolare, potrebbe sicuramente convincere gli Usa a ragionare con gli altri, a costruire insieme qualcosa e a rivedere gli errori della politica, come qualche volta sta già avvenendo. Non c’è dubbio per esempio che il Bush uno è un po’ diverso dal Bush due, in questa fase almeno”.
La prima vittima della guerra è la verità. Lei ha coniato il termine “democrisia”, un gioco di parole per denunciare la manipolazione dell’informazione. I giornalisti occidentali chiusi negli alberghi di Bagdad rappresentano la metafora del declino di una professione gloriosa e necessaria?
“Seconde me non sono tanto loro la metafora. Poi non è detto che siano chiusi negli alberghi o che lo siano sempre, dipende dai momenti. Il problema è la frattura che si è creata tra un modello di informazione il più possibile libero, documentato e approfondito in tutti gli scenari possibili del pianeta, e un’informazione globalizzata, prefabbricata, spesso televisiva, ideologica e gestita da altri agenti dell’informazione che sono gli opinion leader, i commentatori, comunque persone che la guerra non l’hanno mai vista come non hanno mai visto le vittime. La massa di opinioni che generano, spesso è prevalente su quello che i giornalisti sul terreno raccontano. Quindi il paradosso è che chi è testimone di ciò che avviene diventa un capitolo forse anche secondario in certe circostanze rispetto a ciò che viene portato all’opinione pubblica in altra maniera, a volte con delle verità prefabbricate. L’esempio tipico è proprio la gestione della guerra irachena. L’idea che Saddam Hussein avesse le armi di distruzione di massa o che fosse addirittura dietro gli attentati di New York, come ancora oggi pensano milioni di americani, è la dimostrazione di una grande manipolazione”.

 

Carlo Bocchialini, GAZZETTA DI PARMA
– 06/05/2005

 

La verità è Caduta in guerra

 


Ci accompagna in guerra Massimo Nava. Nel suo ultimo libro (“Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace“, Fazi Editore, euro 18, diritti d’autore a favore del centro di riabilitazione di Emergency a Sulaimaniya in Iraq) ci porta a conoscere i protagonisti, quelle vittime-persone, silenziose e sconosciute, che trasformano un conflitto lontano in una tragedia umana. Dopo una lunga e lucidissima analisi delle principali contraddizioni di un pianeta in cui “cinque milioni di bambini muoiono di fame in un anno, centoquaranta (milioni) non vanno a scuola, mentre le 358 persone più ricche possiedono insieme la metà di quanto possiede la popolazione mondiale”, Nava si sofferma sullo stato di salute dell’informazione. Ricordando una targa in memoria dei giornalisti caduti durante il conflitto dei Balcani (” in guerra la prima vittima è la verità”), esamina da dentro il complesso sistema di costruzione delle notizie che vengono date alla pubblica opinione (la “fabbrica della menzogna”). Una raffinata propaganda che ha supportato il delirante procedimento mentale per cui una guerra (Iraq) è stata prima decisa e poi si è dimostrato che era necessaria. Le immagini diffuse dai grandi network fanno il giro del mondo e le notizie date dalle agenzie di stampa provengono spesso da quelle “fonti qualificate” che sono quasi sempre centri di potere interessati a diffonderle, un appiattimento generale che rende sempre più difficile la comprensione delle vicende. Una verità molte volte pilotata: Nava ricorda la statua di Saddam Hussein abbattuta nella piazza antistante l’Hotel Palesatine, quartier generale della stampa internazionale. Episodio storico innegabile, ma costruito ad arte e servito su un piatto d’argento a stampa e televisioni. Corrispondente da Parigi per il Corriere della Sera, Nava è stato per anni inviato speciale e corrispondente di guerra del quotidiano milanese. Consapevole dei limiti in cui incorre qualunque giornalista (ricorda la famosa “non menzogna”, una sorta di verità possibile e onesta, secondo la definizione di Alberto Cavallari, ex direttore del Corriere) racconta le “sue” storie da testimone oculare. L’opinione dell’autore emerge in tutta evidenza, senza timore di prendere posizione su questo o quel tema, ma sempre suffragata e motivata con dati e fatti precisi, giungendo all’amara conclusione che oggi anche il più nobile dei reportage finirà nelle pieghe di un “contesto informativo che ha già condizionato il lettore o l’ascoltatore nell’interpretazione e nel giudizio sui fatti in questione”. Con una prosa asciutta e incisiva, il libro spazia tra Bosnia, Somalia, Algeria, Ruanda (solo per citare alcuni capitoli) e si conclude in Iraq. Tutte le tragedie degli ultimi anni, ricordando le cifre (un milione di morti in Ruanda tra l’Aprile e il Giugno del ’94) ma parlandoci di persone, si chiamino Sanja Risvanovic, tredicenne arruolata nell’armata bosniaca o Inbonagata, sedicenne hutu che ha massacrato col machete i genitori dei ragazzi con i quali giocava nel suo villaggio. Allo stesso tempo carnefici e vittime. La giustizia internazionale, nonostante le grandi dichiarazioni di intenti, resta “selettiva a priori, a seconda dei crimini che si vogliono perseguire e (…) dei leader politici ai quali, per varie ragioni, l’incriminazione viene risparmiata”. Un libro utile, che andrebbe adottato tra i manuali di storia dei nostri licei. “La verità sulle guerre e sulle stragi che infiammano il mondo – dice Claudio Magris nella prefazione – arriva troppo tardi” e spesso, aggiungiamo, si scontra con una coscienza collettiva frustrata dal senso di impotenza e talmente ubriaca di tragedie e brutte notizie che preferisce abbassare lo sguardo.

 

 

Vittorio dell’Uva, L’INDICE
– 01/05/2005

 

L’assorbimento di precotti nella nuova cultura del conf

 


Il mondo che ama le formule facili trova piuttosto comodo mettersi in fila dietro le bugie. L’autoinganno evita gli approfondimenti, salva le coscienze, favorisce l’assorbimento di “precotti” di natura ideologica. Aiuta, soprattutto, a non porsi interrogativi. Ma, a lungo protratto, come di questi tempi avviene, si trasforma anche in una delle strutture portanti di un impianto politico sbilenco, favorendo quella che Massimo Nava, giornalista del “Corriere della Sera”, nel suo Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace, definisce la “democrisia”. Il neologismo sta ad indicare una democrazia che si fonda sempre di più sulla ipocrisia se non – come osserva Claudio Magris nella prefazione – “sull’occultamento e inquinamento della verità non solo nascosta, ma spesso svisata in modo tale da non essere più distinguente”.
Dell’ultimo, generalizzato, sviamento planetario Massimo Nava, fornisce, come compete a un giornalista che va alla ricerca delle fonti, molte prove, attraverso una radiografia dei tanti conflitti che generano olocausti spesso nemmeno classificati come tali e che si sono sviluppati paradossalmente in un era che per “definizione” doveva essere di pace. La caduta del Muro, ricorda l’autore, fu salutata come la “fine della guerra fredda e della storia”, se non come l’alba di un mondo pacificato in cui i governi si sarebbero adoperati per il bene dell’umanità. Da allora sono state insanguinate l’Africa, l’Asia e la stessa Europa attraverso la disgregazione della ex Jugoslavia. E teorie come quelle dell’ “asse del male”, che possono essere all’origine di altre guerre, sono state “diluite nella informazione quotidiana “con la stessa disinvoltura” con cui si prova ad affermare una marca di profumi”.
Vittime, i cui diritti dell’autore sono destinati a Emergency per il centro di riabilitazione di Sulaimaniya in Iraq, non è una mappa “generica” e nemmeno un “Bignami” dei conflitti endemici o studiati a tavolino, come accaduto nel caso della invasione dell’Iraq che “ha comportato molte menzogne in fase di pianificazione e anche la delegittimazione delle Nazioni Unite”. Anni di lavoro da inviato speciale hanno consentito a Massimo Nava l’osservazione diretta di molti scacchieri, ma soprattutto l’approfondimento delle concause di tante tragedie. Oggi il giornalista scrittore va alle radici di una nuova cultura della guerra per denunciare che le ramificazioni si sono fatte invasive anche grazie a intossicazioni informative che, travolte molte verità, provano a smantellare il baluardo di un pacifismo che diventa “scomodo”. Il caso iracheno che ancora “brucia” è da questo punto di vista emblematico. Le posizioni di quanti si opponevano alla guerra sono state considerate un offerta di alleanza a Saddam. Al pacifista definito “idiota” – ricorda Nava – è stata chiusa la bocca con antinomie del tipo: “bene contro male”. Delle molte vittime civili si è cercato di parlare quanto meno possibile per non disturbare troppo l’azione degli esportatori di democrazia.
Il libro, arricchito da reportage in bianco e nero, le splendide fotografie di Livio Senigalliesi, reporter da prima linea non trascura naturalmente altri conflitti generati da diversi interessi. Massimo Nava li ha ricostruiti e raccontati attraverso la tragica ricaduta sui singoli. Sono poveri e disperati, come i loro aguzzini, quanti hanno visto bruciare la loro esistenza nei campi profughi in Ruanda. Condizioni umane sono state oscurate nel kosovo, come in Cecenia. “Il nichilismo di Auschwitz è riconoscibile in Cambogia, come in Bosnia o in Algeria” ha detto di recente l’arcivescovo di Parigi, Jean Marie Lustinger, chiedendosi: “Che cosa è diventato l’uomo di cui proclamiamo i diritti?”. Le molte pulizie etniche cui il mondo ha assistito e assiste gli danno ragione. Fatti i conti, all’esercizio della potenza si debbono più vittime che ricchezze.

 

 

Ugo Tramballi, IL SOLE 24 ORE
– 01/05/2005

 

Siamo tutti vittime della “democrisia”?

 

Aapparentemente lapalissiana, in realtà impegnativa e controversa, la sua scelta di campo Massimo Nava la annuncia nella pagina prima della premessa: “… non è difficile continuare a stare dalla parte della pace: basta stare dalla parte delle vittime”. Chi sono esattamente le vittime? Come definirle, a parte le donne e i bambini? Nelle guerre di oggi è raro che le vittime non siano state almeno una volta i carnefici e viceversa.
Non è un tema facile quello che Nava, per anni inviato speciale e ora corrispondente a Parigi del “Corriere della Sera”, ha deciso di affrontare in Vittime: un atlante delle guerre e delle ingiustizie nel nuovo disordine mondiale di questo ultimo quindicennio. Conflitti e mostruosità che l’autore ha visto quasi tutti con i suoi occhi, incontrando i protagonisti e le comparse. Balcani, Caucaso, Africa, Medio ed Estremo Oriente.
“Ero a Berlino la notte del Muro”, scrive Nava come per iniziare un racconto di speranze e ricostruzione che invece è diventato di tragedie. Come tutti, in quel novembre 1989, anche lui credeva che in qualche modo la storia fosse finita: nel senso che ne stesse per incominciare una positiva nella quale il dialogo avrebbe preso il posto della guerra. Più di quindici anni più tardi Nava è invece costretto a constatare che “la cultura della guerra ha celebrato il suo ritorno trionfale nelle nostre società apparentemente sedute sul proprio benessere… il mondo politico, la televisione, la vita civile, il salotto di casa: tutto sembra ricondotto alla guerra come paradigma della vita, quindi a “valore””.
Di che è la colpa? E’ difficile stabilire chi fra israeliani e palestinesi sia il maggior responsabile del loro conflitto; chi fra serbi, croati, bosniaci e kossovari porti le colpe maggiori dell’esplosione balcanica (un conflitto che Nava ha seguito dal primo sparo); quanto gli americani e quanto Saddam Hussein abbiamo infuocato il Golfo; se nello Sri Lanka sia più esecrabile il terrorismo Tamil o il razzismo del Governo di Colombo; se i laici o i religiosi, il denaro, il petrolio, la politica o la volontà dei popoli portino il peso principale della colpa. Posto che le dittature, i satrapi e il tribalismo etnico hanno una responsabilità esplicita nel grande disordine venuto dopo l’ordine del bipolarismo, Nava si sofferma soprattutto su quella che definisce “democrisia”, qualcosa a metà fra democrazia e ipocrisia.
Americani ed europei, l’Occidente, sono posti sul banco degli accusati. Insieme alla stampa scritta e televisiva che spesso, anziché essere pungolo, è cassa di risonanza delle nuove politiche belliciste. Ma non per il solito terzomondismo ormai stantio e inutile: piuttosto, per delusione. Era la democrazia compiuta dei Paesi più ricchi e stabili che avrebbe dovuto impedire il caos e trovare contromisure civili. Invece chi doveva essere mediatore onesto dei conflitti ne è diventato parte in causa, riproponendo i vecchi modelli della Guerra Fredda: quasi come se l’America in particolare e l’Occidente in generale, ne fossero orfani. “Oggi, in un mondo profondamente cambiato dalla caduta del Muro di Berlino – si chiede Nava – la minaccia terroristica e il fondamentalismo islamico sono motivi sufficienti a perpetuare una logica di scontro militare?… Ha un senso logico combattere il fondamentalismo oggi come si combatteva il comunismo ieri?”.
Attraverso una vivisezione della “democrisia”, Vittime, i cui diritti Nava devolverà al centro di riabilitazione di Emergency a Sulaimaniya, in Iraq, ci svela una verità alla quale con eccessivo ottimismo non avevamo pensato: se le dittature controllano l’informazione, le democrazie la manipolano.

 

La Gazzetta del Mezzogiorno,
– 03/04/2005

 

Vittime: storie sul fronte della pace

 


La guerra non ha fine. Possiamo solo dimenticarla, facendo finta che non ci sia. Eppure, dopo la caduta del Muro di Berlino, la storia ha conteggiato quattro guerre su ampia scala (Kosovo, Afghanistan, due volte l’Iraq), il massacro di intere popolazioni (Bosnia, Ruanda, Burundi, Congo, Sudan, Cecenia), un numero imprecisato di guerriglie lontane e dimenticate, di esodi biblici, di crimini impuniti. Massimo Nava, inviato di guerra in molti di questi scenari, ha voluto raccontare in un libro la lunga serie di conflitti dell’ultimo quindicennio nel volume“Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace” (Fazi ed., pp. 329, euro 18), con foto di Livio Senigalliesi, e prefazione di Claudio Magris. Un viaggio nell’orrore. I diritti d’autore del volume saranno devoluti ad Emergency per il centro di riabilitazione di Sulaimaniya (Iraq).

 

Gilberto Bazou, .COM
– 02/04/2005

 

l’informazione vittima di guerra. Lezioni di giornalismo nel libro

 

Chi cerca una strumento per approfondire la storia recente, qui lo troverà; chi da tempo non è pienamente contento dei libri che legge, qui non avrà più giustificazioni. E’ di una bellezza abbagliante “Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace”, (Fazi editore, pp. 326, euro 18), di Massimo Nava,milanese, corrispondente da Parigi del Corriere della Sera, per molti anni inviato speciale. Riordinando gli appunti presi ai crocevia dell’orrore, Nava racconta, nel suo stile asciutto e incisivo, come è morta la speranza di un mondo migliore nata con la caduta del Muro di Berlino. L’elenco lascia ammutoliti: da allora quattro guerre su larga scala (Kosovo, Afghanistan, due volte l’Iraq), il massacro di intere popolazioni (Bosnia, Ruanda, Burundi, Congo, Sudan, Cecenia, Sierra Leone, Timor Est), un numero impreciso di conflitti dimenticati e crimini impuniti. Sulla prima pagina del diario quella “fabbrica dell’odio” che sono stati i Balcani. Poi il Caucaso in fiamme dove, in una delle infinite esplosioni di ferocia etniche, si è assistito alla riedizione della pratica della “cravatta spagnola”, consistente nel praticare alle vittime un taglio nella trachea e da questo far penzolare la lingua. Altra fermata in Palestina e, naturalmente, in Iraq, che “oggi è terra occupata, deserto di odio, palestra e rifugio del terrorismo, misura di un’altra scissione e ricatto morale per noi occidentali: andarsene o assumersi la responsabilità di medicare il disastro”. Nel libro (fotografie di Livio Senigallesi, prefazione di Claudio Magris, diritti d’autore devoluti ad Emergency), impreziosito da utili schede sui conflitti, l’autore parla dei colleghi morti al suo fianco e di come la prima vittima della guerra sia proprio l’informazione “ridotta alla diffusione delle immagini in una sorta di globale circuito chiuso e alla trasmissione di notizie erogate da “fonti qualificate” quasi sempre dai centri di potere interessati a diffonderle. Sarebbe allora già molto -dice Nava riprendendo Alberto Cavallari– raggiungere la “non menzogna”, una specie di verità possibile e onesta, costruita attraverso l’osservazione diretta e il confronto fra molte verità e diverse fonti”. Merce rara, non in queste pagine.

 

 

Vittorio Bonanni, LIBERAZIONE
– 31/03/2005

 

Democrazia ipocrita del nuovo millennio

 


“La civiltà ha reso l’uomo più bassamente e schifosamente sanguinario. Prima vedeva nello spargimento di sangue un atto di giustizia e massacrava con la coscienza tranquilla. Adesso, pur considerando lo spargimento di sangue un abominio, a questo abominio ci abbandoniamo ugualmente e più di prima…”. Massimo Nava, corrispondente del Corriere della Serada Parigi, ma soprattutto storico inviato di guerra nei luoghi più drammatici del pianeta, non poteva cominciare con una citazione migliore il suo libro Vittime(Fazi editore, pp.326, euro 18.00). Quel monito di Fiodor Dostoevskij riguarda gli uomini del suo tempo, ma senza volerlo, ha descritto anche il mondo di un secolo e mezzo dopo,senza dubbio peggiore di quello contemporaneo al grande scrittore russo perché quella consapevolezza della quale parla l’autore di Delitto e castigoè certamente aumentata senza per questo la barbarie conoscesse un limite.
Sono tre, sostanzialmente, le aree geografiche che Nava prende in considerazione, con testimonianze dirette, analisi e l’ausilio delle belle foto di Livio Senigalliesi: quello europeo, dai Balcani fino al Caucaso; quello Africano, dalla Somalia alla Costa d’Avorio passando per Algeria, Ruanda e Burundi e Congo, per finire al “ricco”, purtroppo, scenario asiatico, dal Vietnam fino alla Palestina e all’Iraq, senza dimenticare Indonesia, Filippine, Afghanistan e Sri Lanka. Ma il punto di partenza del libro denuncia del giornalista-scrittore è quel 9 novembre 1989, giorno della caduta del Muro di Berlino che avrebbe dovuto cambiare il mondo, aprendo un’era di pace e di dialogo. Ma, dice Claudio Magris nell’introduzione “è tragico che dopo quella liberatoria caduta il mondo sia divenuto ancor più irrazionale e incontrollabile. Se in molti ex paesi dell’Est la democrazia è spesso “demokratura”, come ha scritto Predrag Matvejevic, potere della nomenclatura combinato con garanzie formali, in Occidente sembra imperare la “democrisia”, come scrive Nava, una democrazia che si fonda sempre più sull’ipocrisia, sull’occultamento e l’inquinamento della verità.” Lo svilimento della democrazia è dunque uno dei drammi della nostra epoca che emerge con forza dalle righe di Nava. Solo venti o trenta anni fa la conquista della libertà di stampa e di espressione si coniugava automaticamente con un’avanzamento generale della società. Ora invece tutto questo è, paradossalmente, legato a “guerre di civiltà”, dove il prezzo da pagare per ottenere appunto “libertà di stampa e di organizzazione” è l’accettazione di una dinamica neocolonialista fatta di morte e terrore verso tutti e tutte, come dimostra la morte di Nicola Calipari. Appunto, come dice lo scrittore, una vera e propria ipocrisia, una democrisia, “un gioco di parole per denunciare la manipolazione dell’informazione, prima “vittima” della guerra, essendo fondamentale strumento di consenso per coloro che la guerra la decidono e ne traggono i vantaggi.”
Nava non è convinto del pacifismo “senza se e senza ma”. Ne intravede i limiti: “Proprio i precedenti storici, come l’ascesa di Hitler in Europa e i massacri di massa più recenti impongono da un lato una riflessione sui limiti del pacifismo fine a se stesso (…) e, dall’altro lato, la possibilità di un intervento anche militare a determinate condizioni”. Ma lo scenario che lui paventa, pur auspicabile per certi versi, non esiste, e le analisi che fa seguire a queste considerazioni lo portano inevitabilmente a fianco dei pacifisti ad oltranza. E dunque il sostegno che l’Occidente ha dato a Saddam negli anni ’80, la lunga catena di sangue che ha caratterizzato la “nostra storia”, dal nazismo fino alle bombe atomiche sul Giappone, che ci impedisce di impartire lezioni a chicchessia, fino al terribile riarmo planetario -solo un esempio, gli Usa hanno speso dieci miliardi di dollari per progetti riguardanti dieci nuovi missili intercettori- pur nella consapevolezza che il “nuovo” nemico, il terrorismo, si annida, come scrive Nava, tra i sessanta milioni di persone che ogni anno entrano negli Stati Uniti o nelle novantamila navi mercantili che, sempre ogni anno, attraccano nel grande paese nordamericano. Insomma è una vera e propria isteria politica quella che pervade l’establishment americano ma non solo, contro il quale nulla può ciò che resta delle Nazioni Unite, e nulla sembra poter fare una grande opinione pubblica contraria alla guerra, vera e propria superpotenza senza armi..
Non possiamo certamente dimenticare, alla fine di questo articolo, la scelta dell’autore di destinare i proventi delle vendite del volume ad Emergency e in particolare al Centro di riabilitazione di Sulaimaniya, in Iraq. Lo ricorda alla fine del libro proprio un pacifista “ senza se e senza ma”: “Anche così, sottraendo vittime a un destino che sembrava segnato – dice Gino Strada- le tue parole sulle guerre si trasformano in atti contro la guerra. Ci troviamo dallo stesso lato del tempo che viviamo. Grazie”.

 

 

Paolo Giaccone, IL NOSTRO TEMPO
– 22/05/2005

 

Nava: dalla parte delle vittime

 

La guerra sembra essere per l’uomo il metronomo della storia: sporca o necessaria, fredda o civile, scandisce e definisce ogni epoca. Ma lo sguardo che si posa su essa può essere diverso: senza indulgenze è quello del giornalista Massimo Nava nel suo libro “Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace” (ed. Fazi, euro 18), i cui proventi delle vendite saranno devoluti ad Emergency per il centro di riabilitazione di Sulaimaniya in Iraq.

Il libro di Massimo Nava racconta la guerra dalla parte delle vittime, descrive ciò che ha visto come inviato di guerra del “Corriere della sera” nei diversi conflitti, dalla Jugoslavia all’Algeria, dal Ruanda all’odierno Iraq. Può sembrare assurdo, oggi nell’epoca delle televisioni, dire che Massimo Nava ci fa vedere attraverso le parole, e per la prima volta, la guerra. Ma questo accade anche se a ogni ora del giorno tutti i mezzi di comunicazione ci mostrano immagini di guerra, perché quelle sono immagini che passano e si confondono, e noi in esse ci perdiamo, fino a non cogliere il vero senso di ciò che appare sugli schermi, forse perché non possediamo più “l’arte di leggere le immagini”, e le migliaia di fotografie e di video si sono trasformati, come diceva Ruth Berlau, “in vere e proprie iscrizioni geroglifiche, indecifrabili”.
Nelle migliaia di esplosioni e nei carri armati che avanzano, nelle centinaia di autobomba e di raid, troppo spesso le vittime finiscono per apparire tutte uguali: cifre senza volto dell’orrore quotidiano. La guerra diventa la sola protagonista: la guerra è l’avvenimento, le persone sono lo sfondo che passa dietro, quasi insignificante. Sono gli accordi politici, i proclami, “i nuovi scenari” o i “bracci di ferro” diplomatici, e alla fine, al massimo, le parate e le grandi celebrazioni di vittorie passate ad affollare le pagine delle cronache. Ma sul terreno rimangono i pezzi dei corpi dei feriti e i cadaveri dei morti. Nava restituisce a quelle vittime, che sono anche i sopravvissuti, la dignità di persone, perché mostra il tempo accaduto, le vicende occorse e non i semplici bagliori delle esplosioni o dei traccianti che solcano il cielo nelle notti di guerra.

A contrappuntare le sue storie sono le splendide foto di Livio Senigalliesi. Foto di guerra che mostrano ben pochi cadaveri; in quelle immagini ci sono bambini, uomini e donne: i loro paesaggi raccontano la distruzione e la povertà, i loro sguardi mostrano la disillusione e la perplessità di fronte all’orrore, mentre i loro corpi rivelano della guerra i segni, gli scempi e gli strazi. Non si trova dunque nulla di spettacolare perché sono, come tutto il libro, puro racconto di vite travolte da una Storia fatta di guerre.
Nel suo osservare, l’autore muove il suo sguardo nel mondo dopo il crollo del Muro di Berlino, in un’epoca alla ricerca di equilibrio e squassata dall’esplosione di violenti conflitti in diverse regioni. Ovunque, ma soprattutto in Iraq, prima ancora che si spari un colpo, la prima vittima della guerra è sempre l’informazione: tecniche nuove di combattimento prevedono l’immediato schieramento di tutti gli armamenti di propaganda. Preventivamente.
Ritrovare la verità è allora la prima condizione della pace, se non si vuole considerare un mondo senza guerre solo un’utopia: qualcosa di bello, ma irrealizzabile. E alla pace bisogna sempre tendere, anche se il tempo presente sembra volerla espellere dal nostro orizzonte: anzi, come scrive Massimo Nava, bisogna continuare a “pensare che non sia difficile stare dalla parte della pace. Basta stare dalla parte delle vittime”.

 

 

Margherita D’Arco, AVANTI DELLA DOMENICA
– 22/05/2005

 

La guerra vista dal basso

 

Tre milioni e seicentomila morti, dei quali quasi la metà bambini, senza contare le vittime di carestie, malnutrizione e Aids. Le sole mine antiuomo disseminate sui campi di battaglia hanno causato 400 mila morti negli ultimi trent’anni. Nel decennio 1990-2000 venti milioni di bambini sono diventati profughi. Dopo la caduta del Muro di Berlino, quando, per dirla con Fukuyama, la storia sembrava finita e c’erano tutte le premesse “per un sistema allargato di relazioni internazionali che avrebbe potuto arginare o prevenire i conflitti e garantire un ordine di valori più condiviso”, sono scoppiati ben cinquantanove conflitti e di questi cinquantacinque si sono svolti all’interno dello stesso paese, coinvolgendo in larga misura la popolazione civile. Sono solo alcune delle cifre contenute in questo reportage di Massimo Nava, corrispondente a Parigi del “Corriere della sera”, che, nella sua lunga carriera di inviato ha potuto assistere personalmente alle guerre moderne dell’ultimo quindicennio, quelle alimentate dal fanatismo etnico e religioso, quelle nazionaliste di liberazione, quelle preventive e le ultime che hanno visto esseri umani costretti a fuggire, uccisi, bombardati, secondo una logica che pretende di difenderne gli interessi, migliorarne le condizioni di vita, liberarli da una dittatura, esportare il bene superiore della democrazia. Sono i conflitti che grazie all’impiego di tecnologie sofisticate vengono definite a “zero morti”, nel senso che a morire non sono più i soldati, soprattutto se occidentali. “Il fatto che muoiano quasi esclusivamente civili è un problema per chi la guerra la subisce.
In ogni caso per buona coscienza dell’Occidente, le vittime civili sono contemplate in un’altra dinamica molto di moda, quella dei danni collaterali non previsti, nella presunzione di condurre operazioni chirurgiche su bersagli precisi e circoscritti.
A volte i danni collaterali sono tragici: ma solo perché si è sbagliato bersaglio”. Quando l’aviazione tedesca bombardò la cittadina basca di Guernica, radendola al suolo, l’impatto suscitato sull’opinione pubblica internazionale fu enorme. Dopo vennero Dresda, Hiroshima, Nagasaki, e poi Dubrovnik, Sarajevo, Belgrado, Bagdad e Kabul e i bombardamenti sui civili divennero routine, le vittime, fra i quindici e i venti milioni dal ’45 a oggi solo nei Paesi del Terzo Mondo, per lo più ignorate e dimenticate. Ed è proprio la storia raccontata dalla parte di queste “Vittime” quella in cui ci coinvolge Massimo Nava: dai grandi conflitti in Kosovo, Afghanistan e Irak, al massacro di intere popolazioni in Bosnia, Ruanda, Burundi, Congo, Sudan, Cecenia, fino al numero imprecisato di guerriglie lontane e dimenticate dallo Zaire al Borneo, allo Sri Lanka, a Aceh, e poi ancora le Filippine, l’Algeria Timor est, la Costa d’Avorio, il Caucaso, in un lungo elenco perché all’odio sembra non esserci mai fine. Il tutto corredato
da utilissime schede sul Paese, che ne sintetizzano la storia e le cause del conflitto, e da quattro straordinari dossier fotografici di Silvio Senigalliesi. Un grandissimo lavoro giornalistico, che però non si limita alla cronaca e al racconto, ma solleva problematiche politiche e denuncia l’ipocrisia e le menzogne delle moderne democrazie mediatiche la cui
vittima principale è la correttezza dell’informazione.

 

Massimo Russo, KATAWEB
– 18/05/2005

 

La guerra vista con gli occhi delle vittime

 

I conflitti degli ultimi quindici anni raccontati dal solo punto di vista che fa sempre stare dalla parte della pace: quello delle vittime.
E’ proprio Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace il titolo del libro che Massimo Nava, corrispondente da Parigi per il Corriere della Sera, ha da poco pubblicato per Fazi editore (326 pagine, 18 euro). (Qui la videointervista all’autore)

Un volume arricchito dalle fotografie di Livio Senigalliesi – spesso compagno di reportage di Nava – scattate tra Balcani, Asia, Africa e Medio Oriente, e i cui diritti d’autore saranno interamente devoluti a Emergency per la realizzazione di un centro di riabilitazione per invalidi in Iraq.

“Ho scritto questo libro” spiega l’autore “perché le vittime non vengano uccise una seconda volta dall’odio, dal fatalismo di guerra, dal fanatismo culturale”. A sfogliare le pagine di Vittime sembra che davvero la storia non insegni nulla: sono oltre 150 i conflitti – nella maggior parte dei casi guerre civili – che si sono susseguiti in un’epoca che, dopo la caduta dei muri e la fine dei blocchi prometteva invece di essere pacifica.

Una situazione di fronte alla quale spesso le democrazie occidentali – secondo la definizione che ne dà lo stesso Nava – si sono trasformate in democrisie, di volta in volta occultando la verità, non intervenendo per pacificare ma solo per difendere i propri interessi, assistendo indifferenti ai massacri.

Dalla Bosnia al Ruanda, dal Kosovo all’Iraq passando per Timor Est, i volti delle vittime esprimono sempre lo stesso sgomento, analogo senso di smarrimento di fronte alla tragedia. E vittime e carnefici paiono a volte ingranaggi di un solo meccanismo che tutto stritola. Osserva quasi con meraviglia una donna di etnia hutu che aveva ucciso due vicini: “Nessuno ha voluto questa guerra, eppure ci siamo ammazzati come bestie feroci”.

Quando tacciono le armi, l’orrore non finisce. L’autore racconta che anche al ritorno della pace, le conseguenze durano per generazioni, come si sente dalle parole di un’altra donna, stavolta vietnamita, tra i pochissimi sopravvissuti della strage di My Lay perpetrata dalle truppe americane nel 1968.

Tuttavia, come scrive Claudio Magris, che firma la prefazione di Vittime, Nava “continua a professare nonostante tutto, la speranza”. Motivata dalla voglia che le vittime hanno di ricominciare, di andare avanti. Di tornare a vivere.

Massimo Nava, milanese, è il corrispondente da Parigi del Corriere della Sera. Inviato di guerra attraverso i conflitti degli ultimi 15 anni, si è occupato anche degli anni di piombo e ha firmato diverse inchieste sulla società italiana.

 

 

LA PADANIA
– 04/05/2005

 

La guerra vista dal basso nelle cronache di Massimo Nava

 

La guerra vista dal basso, da chi ne subisce sulla propria pelle le drammatiche conseguenze. La racconta il giornalista Massimo Nava, inviato per il “Corriere della Sera” su molti fronti caldi, dall’Asia all’Africa ai Balcani, nel libro Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace (Fazi editore, pp. 326, 18 euro). Nel libro, corredato dalle fotografie di Livio Senigalliesi, Nava parla di svolte epocali, guerre, rivoluzioni, deposizioni di regimi, tenendo sempre in primo piano le storie di chi da questi conflitti è stato travolto.
È il filo storico dei Templari, dei loro monumenti e delle loro testimonianze artistiche, a legare Perugia con la spagnola Tarragona, la francese Arles e l’isola di Malta. Ne discuteranno in un convegno nel capoluogo umbro, venerdì e sabato, studiosi, storici dell’arte ed esperti della materia provenienti da tutto il mondo. Proprio a Perugia uno dei monumenti dell’ordine monastico-cavalleresco, la monumentale chiesa di San Bevignate, è da tempo oggetto di un restauro che entro quest’anno la porterà fuori da un penoso degrado. Diventerà un centro permanente di documentazione sui Templari a livello europeo, essendo uno dei rari monumenti rimasti a testimoniare con la sua mole massiccia, quasi più da fortezza che da luogo di culto, di una vicenda singolare ed avvolta in gran parte nel mistero. Al progetto “Milites Templi” partecipano anche partner francesi, spagnoli e maltesi.
Tornano a Torino alcune opere della collezione privata di Maria Beatrice di Savoia. I lotti sono stati acquistati a un’asta dalla Fondazione Crt e da quella per l’arte della Compagnia San Palo e saranno consegnate in comodato gratuito alla galleria Sabauda e al castello di Racconigi. Tra le opere, un olio su tela raffigurante il Trionfo di venere e Amore, un ritratto di Margherita di Savoia a 6 anni, un ritratto di Tommaso Francesco e un Angelo dell’Annunciazione.

 

IO DONNA
– 19/03/2005

 

Memorial Rwanda

 

Massimo Nava deve aver fatto sua la triste constatazione di Ivo Andric, il poeta bosniaco che nel 1961 fu insignito del premio Nobel: “I morti non parlano i sopravvissuti ammutoliscono, per questo le tragedie si ripetono”. L’inviato del “Corriere della Sera” testimone di molte tragedie ripetute ai quattro angoli del mondo, nel suo libro Vittime, Storie di guerra sul fronte della pace (Fazi editore, pagg. 326, euro 18, da oggi in libreria), prova a restituire la voce a coloro che ne sono stati privati da quella “guerra mondiale su schacchieri diversi” che sono i tanti conflitti in atto nel mondo. “Un viaggio non solo nell’orrore delle guerre che in questi decenni hanno devastato il mondo ma anche nell’ovattata coltre di falsità e di irrealtà che rende così difficilmente accessibile la verità” scrive Claudio Magris nella prefazione del volume. Afghanistan, Georgia, Somalia, Burundi, Congo, Croazia, Kosovo, Borneo, Serbia, Iraq sono allora i teatri dello sterminio, un’unica guerra globale che dal 1945 a oggi ha provocato quindici-venti milioni di morti. E il Rwanda, naturalmente. Del quale ricorre quest’anno il decennio della tragedia che ha provocato un milione di vittime. Un autentico genocidio. Il feroce conflitto tra tutsi e hutu nel paese centrafricano è ricordato in questi giorni anche dal film “Hotel Rwanda” di Terry George sulla vicenda dello “Schindler rwandese”, Paul Rusesabagina (intepretato dall’americano Don Cheadle, per questo ruolo candidato all’Oscar) che nell’albergo-rifugio di Kagali ospitò, salvando loro la vita, centinaia di tutsi e di hutu. “Io donna” vi propone l’anticipazione di un capitolo dedicato al Rwanda tratto da Vittime, libro sulla “democrisia”, sintesi di democrazia e ipocrisia: un gioco di parole che l’autore inventa per denunciare la “mondializzazione della menzogna”, la manipolazione dell’informazione, prima “vittima” della guerra. Massimo Nava, nel ’95, a un anno dalla fine del conflitto interetnico, visitò il carcere di Kigali dov’erano rinchiusi in condizioni disumane ottomila prigionieri. Questa è la sua testimonianza, accompagnata da foto scattate da Livio Senigallesi. L’intero ricavato del libro sarà devoluto al centro di riabilitazione per pazienti mutilati che Emergency dal ‘98 gestisce a Sulaimanyia, nel Kurdistan iracheno. Come scrive Gino Strada, fondatore di Emergency: “Per sottrarre altre vittime a un destino che sembrava segnato”

Il feto è sepolto in una scatola di cartone che lo protegge dallo strato
di liquami ed escrementi. Accanto alla scatola, sdraiate per terra, la madre
e altre donne, molte stuprate dai militari e dai guardiani. Jaqueline accarezza
il pancione di sei mesi, dono di tre soldati nella caserma di Kigali,
la notte in cui è stata arrestata. Teresine non è incinta perché ha sessant’anni,
ma tredici soldati se la sono presa come trofeo di guerra. Raccontano
di pestaggi e incursioni notturne, mostrano piaghe e ferite. Attorno,
altri bambini, aggrappati a seni esausti, sfiniti dalla polmonite e dalla
dissenteria. Madri e figli sono ammassati in un corridoio, sul quale si af-
facciano altre stanze gremite. Così si nasce e si muore nel reparto donne
della prigione di Kigali, un girone, nemmeno il più orrendo, dell’inferno
che, con il permesso delle autorità, ho potuto visitare. Permesso accordato
dal ministro di Grazia e Giustizia e così motivato: i prigionieri sono accusati
di genocidio; senza punizione esemplare non ci sarà mai pace in
Ruanda ma solo vendette e nuovi massacri. I processi saranno regolari, assicurano
i vincitori della guerra civile di un anno fa, ma, essendo pochi i
giudici sopravvissuti ai massacri, per trentamila prigionieri la condanna è
già pronunciata: una lenta agonia che fa sembrare più umano un lager nazista.
Come ad Auschwitz, i prigionieri si dividono loculi a strati, in stanze
buie e senz’aria. La scorsa settimana, nella prigione di Muhima, una
ventina sono morti per soffocamento. La conquista del loculo o di un gradino
consente di stare sdraiati o seduti e di evitare la pena inflitta alle migliaia
che se ne stanno notte e giorno nel cortile, seminudi e in piedi, inzuppati
di pioggia, costretti a muoversi a turno. I piedi, piagati e affondati
negli escrementi, sembrano scoppiare dal gonfiore e dalle piaghe e soltanto
a chi sta per morire è concesso sdraiarsi. Le malattie ne portano via
trecento ogni mese, ma un centinaio, in fila e ammanettati, attendono ogni
giorno di entrare. Ottomila sono i prigionieri di Kigali, seimila a Gitarama,
l’altra prigione visitata, un lager più piccolo e, se possibile, ancora più inumano.
A Kigali, almeno, non manca l’acqua. Qui, c’è una doccia per seimila
reclusi. Per conquistare la razione quotidiana di polenta e fagioli ci
si mette in fila all’alba, con brevi spostamenti di gruppi a incastro: gli ultimi
mangiano a notte fonda. Lo stesso avviene per i bisogni corporali, secondo
un’incredibile autoregolamentazione della sofferenza. Per i malati
di dissenteria, il luogo di detenzione è direttamente la latrina. Cammino
fra due file di prigionieri che si pigiano e si comprimono per farmi passare.
Rischio di calpestare piedi, teste, lamenti e ferite che affiorano dal liquame
e dai rifiuti. Alcuni mostrano ferite da baionetta, cicatrici ai polsi
e alle braccia, i segni del filo di ferro che li ha tenuti legati. Altri, impazziti,
sono rinchiusi nella cantina. Non ci sono segnali di protesta né di ribellione,
ma una rassegnata sofferenza e un’infinita pena, come ebrei neri
che si preparano a scomparire, selezionati dalla sconfitta e dalla delazione.
Fra i detenuti di Kigali e Gitarama ci sono professori, intellettuali,
medici, alti funzionari del vecchio regime, qualche suora e diversi sacerdoti:
i rappresentanti di una classe dirigente sconfitta, tutti accomunati
dall’appartenenza all’etnia hutu e dall’accusa di genocidio. Molti, per stessa
ammissione del governo, sono probabilmente innocenti, ma è bastata la
denuncia di un vicino, il tradimento di un compagno di scuola, il sospetto
per entrare all’inferno e lasciare tutto ai nuovi padroni del Ruanda che,
proprio con l’accusa di genocidio, legittimano il potere.
Aloise, insegnante, eletto dai detenuti responsabile dell’ordine interno
nel carcere di Kigali, protesta come tutti la propria innocenza: “Sono sta-
riprento
portato via in luglio. Mi hanno interrogato in gennaio. Poi, più nulla”.
Joseph, giovane ingegnere, oppositore del vecchio regime e nominato viceministro
per il Turismo dai vincitori, si è trovato la polizia in casa in ottobre:
“Qualcuno si è domandato perché ero sopravvissuto mentre i miei
vicini erano stati uccisi. E questa è la mia colpa”. Manda un messaggio alla
moglie, una pediatra: “Sono ancora vivo, ma fammi arrivare medicine”.
A Gitarama, i detenuti raccontano che la visita dei parenti è concessa una
volta la settimana, ma che non c’è il tempo né la possibilità fisica di arrivare
al portone. Nessuno ha mai visto un avvocato e nemmeno un difensore
d’ufficio. Gli interrogatori sono condotti da militari o da coloro che
dovrebbero entrare nella futura struttura giudiziaria del paese: “Dai nostri
aguzzini di oggi”. Nabisundu ha fatto per trent’anni il magistrato. Ora è
rinchiuso, nella stanza delle autorità, con un prefetto e qualche funzionario.
Stessi loculi, stesso fetore e caldo soffocante, ma anche il lager riproduce
le gerarchie: “Il vecchio regime faceva almeno processi regolari. Oggi
ci condannano in blocco, ma la verità è che in una guerra civile tutti i
contendenti sono responsabili. C’è chi ha ucciso per vendetta e chi ha ucciso
per difendersi. Con l’accusa di genocidio, i vincitori diventano tutti
innocenti e noi tutti colpevoli”. I veri criminali, i capi dell’esercito e delle
milizie sono all’estero o nei campi profughi dello Zaire e del Burundi, dove
si addestrano per la rivincita. Senza più usare le armi, i tutsi conducono
una sorta di nuova pulizia etnica. Il Ruanda, decimato dai massacri, è
oggi ripopolato da esiliati tutsi, mentre gli hutu stanno nelle campagne,
nei campi profughi di confine o in prigione. Joseph, uno dei sacerdoti rinchiusi,
è accusato di connivenze con il regime: “Ho difeso gli uni e gli altri,
ho cercato di salvare tutti. La mia sola colpa è di essere sopravvissuto”.
Vorrebbe dir messa in questo stanzone soffocante, ma gli è stato impedito:
“Che inferno è mai questo se rinchiude gli innocenti?”.
A nulla sono per ora serviti gli appelli della Chiesa ruandese e le denunce
delle Nazioni Unite. Il governo concede soltanto l’intervento della
Croce Rossa e delle organizzazioni umanitarie (poco tempo fa, una delegazione
della Caritas italiana ha chiesto di poter portare assistenza sanitaria),
ma è irremovibile “sulla detenzione dei presunti responsabili dei massacri
“. “Non abbiamo mezzi per soluzioni diverse”, ripete il vice primo
ministro e presidente del Fronte Popolare, Alexis Kanyarengwe. Nemmeno
un lager con filo spinato, nemmeno lo stadio di Pinochet sono considerate
soluzioni possibili. Anziché celebrare una Norimberga africana, il
nuovo regime vorrebbe come processare tutto il Terzo Reich, dai soldati ai
bambini. Anche loro devono pagare, come questo orfano di sette anni, i
genitori uccisi durante la guerra, ora accovacciato a scoppiare di tosse nel
suo loculo sempre buio. Nome di battesimo, Innocent.

 

 

Cludio Magris, CORRIERE DELLA SERA
– 21/03/2005

 

“Democrisia”, scheletro nell’armadio dell’Occidente

 

Il mondo, dice un proverbio ebraico, può essere distrutto fra la sera
e il mattino. Mai come oggi – ovvero, paradossalmente, in un momento
in cui, almeno in Occidente, si gode di una qualità di vita inimmaginabile
nei secoli precedenti ed estesa a larghe masse – si è avvertita così intensamente
questa possibilità che il mondo crolli, in un collasso di proporzioni
planetarie, simile – ma su scala globale – a quello avvenuto alla
fine dell’evo antico. Questo timore esisteva certo anche prima della caduta
del Muro, ma in forma diversa. Era la paura apocalittica del day after,
di una guerra atomica fra le due superpotenze che potesse ridurre i
luoghi della nostra vita alle macerie di Hiroshima. Oggi invece il crollo,
la morte e la fine non hanno più un unico simbolico volto, la guerra nucleare
globale, così come il nemico, il potenziale artefice della distruzione,
non ha più un solo volto – per l’Occidente, quello dell’Unione Sovietica,
del comunismo.
Oggi l’incubo – o il possibile presagio, il fiuto che percepisce un odore
inquietante – è proteiforme, assume di continuo volti diversi e mutevoli,
come una malattia profonda che si segnali con i sintomi più vari in
parti sempre nuove del corpo, con attacchi ora a un organo ora a un altro.
L’incubo del day after presupponeva il pericolo che qualcuno, come
nelle finzioni cinematografiche, premesse il famoso bottone scatenante
la guerra nucleare. Il nostro incubo – meno grandioso, più frammentato
e rimosso, altrettanto inquietante – è che dappertutto vi siano bottoni,
nessuno dei quali provoca da solo la catastrofe totale, ma ognuno dei
quali è connesso ad imprevedibili altri, che forse non ci si accorge di
schiacciare e che alla fine possono produrre un disastro totale (…)
L’incisivo, asciutto, bellissimo libro di Massimo Nava è un viaggio
non solo nell’orrore delle guerre che in questi decenni hanno devastato
il mondo – una vera guerra mondiale su scacchieri diversi, che dal 1945
in poi ha provocato 15-20 milioni di morti – ma anche nell’ovattata coltre
di falsità e di irrealtà che avvolge il mondo e rende così difficilmente
accessibile la verità, in un’epoca in cui pur disponiamo tecnicamente di
strumenti di informazione capaci di raccogliere e trasmettere notizie in
tempo reale. Il suo viaggio negli orrori della guerra diviene così pure un
viaggio nel delirio della “mondializzazione senza controllo”. Come dice
anche Nava all’inizio del suo libro, speravamo che la caduta del comunismo
e del blocco sovietico avvenisse in altri modi e con altri esiti, quale
tappa illuminista dell’entrata di tutta l’umanità nella maggiore età, come
diceva Kant, e non con la sostituzione di sanguinosi muri etnici a
quelli ideologici sbriciolati. E’ tragico che dopo quella liberatoria caduta
il mondo sia divenuto ancor più irrazionale e incontrollabile. Se in
molti ex-Paesi dell’Est la democrazia è spesso “demokratura”, come ha
scritto Predrag Matvejevi_, potere della nomenclatura combinato con
garanzie formali, in Occidente sembra imperare la “democrisia”, come
scrive Nava, una democrazia che si fonda sempre di più sull’ipocrisia,
sull’occultamento e inquinamento della verità, non solo nascosta ma
spesso svisata in modo tale da non essere più distinguibile e forse alla fine
nemmeno esistente.
Questo libro forte e doloroso, così coraggioso nella sua sobrietà – che
trasforma una qualità etica in valore stilistico – si muove nei teatri dello
sterminio, dandone ritratti indimenticabili: Afghanistan, Georgia, Somalia,
Burundi, Congo, Croazia, Kosovo, Borneo, Serbia, Irak e altre
stazioni di quella Via Crucis senza prospettiva di redenzione o di resurrezione
che è oggi la Storia di una grande parte del mondo (…)
In questo labirinto di sangue e in questa nuvola di deodoranti ideo-
logici e mediatici che impediscono al suo odore di arrivare alle nostre radici,
Massimo Nava si muove come un viaggiatore o esploratore di una
volta, munito solo della sua intelligenza, della sua curiosità, della sua
pietà e del suo sdegno, affrontando per così dire a mani nude la spaventosa
realtà in cui si immerge, ben consapevole di quanto insidiata, limitata,
parziale, potenzialmente distorta possa sempre essere anche la più
onesta testimonianza personale, ma senza arrendersi ad alcuno scetticismo
bensì combattendo il groviglio di falsificazioni che di continuo avvolge
e stravolge i fatti, persuaso che solo questa ostinata volontà di verità
conscia dei propri limiti possa raggiungere, come egli scrive, <quella
che un grande e rimpianto maestro, l’ex direttore del “Corriere della
Sera”, Alberto Cavallari, definiva la “non menzogna”, una specie di verità
possibile e onesta, costruita attraverso l’osservazione diretta e il confronto
tra molte verità e diverse fonti>.
Questa attitudine permette a Nava di addentrarsi nei retroscena delle
tragedie che racconta, di narrare il grottesco e le contraddizioni mescolate
all’orrore (come quei serbi e croati, che a poche ore e a pochi chilometri
di distanza dagli atroci scontri, si incontrano normalmente) e soprattutto
di raccontare, con precisione documentaria, gli eventi e la distorsione
con cui vengono spesso riportati, mistificati, capovolti. Fa toccare
con mano come, nell’età della perfezione informatica, sappiamo
meno che ai tempi di Kipling di ciò che succede realmente in Afghanistan
o in Irak. La presa diretta della realtà viene deformata dal sistema
informativo, che non la racconta, ma la spiega e commenta inserendola
in un contesto di interpretazioni e versioni prefabbricate per l’opinione
pubblica, in cui quella verità si diluisce, si scompone, si annacqua, quando
non si capovolge (…)
Alieno da pregiudiziali e aprioristiche valutazioni politiche o ideolo-
giche, Nava dà a ognuno il suo: se dimostra che “la guerra irachena è anche
il paradigma di una mostruosa macchinazione internazionale delle
coscienze”, come quella ancor più fraudolenta del Kosovo, non disconosce
certo la grande democrazia della stampa americana cui si deve lo
smascheramento di tante menzogne sulla guerra in Irak, e cerca, di volta
in volta, nell’Africa nera come nel Borneo, di mettere imparzialmente
in luce le varie responsabilità delle diverse potenze, forze politiche e correnti
culturali, sempre calandosi nel concreto dell’esperienza vissuta dagli
individui.
Forse oggi è questa la più autentica letteratura, perché il mondo è così
inimmaginabile da far concorrenza sleale alla fantasia. Nava, che cita
Camus, continua a professare, malgrado tutto, la speranza. Fra le vittime
cui egli rivolge la sua attenzione c’è, in primo luogo, l’informazione,
continuamente travisata e ridotta a strumento di consenso. La verità, come
dice quel passo del Vangelo che era così caro a Freud, vi farà liberi,
ma la verità sulle guerre e le stragi che infiammano il mondo arriva troppo
tardi ossia quando non serve più, quando non è più pericolosa. Il disastro
non è solo morale, è politico. Non occorre essere pacifisti – come
non lo è Nava – per condannare una politica aggressiva squinternata il
cui gioco temerario sembra essere in mani non adeguate a condurlo.

 

 

Laura Fiengo, VANITY FAIR
– 21/04/2005

 

Uno sguardo non neutrale sulla guerra

 

Non è difficile stare dalla parte della pace. Basta stare dalla parte delle vittime”. Uno sguardo non neutrale sulle guerre moderne (59 conflitti dal 1990 al 2003, tre milioni e seicentomila morti negli ultimi 15 anni) arriva dal libro Vittime. Storie di guerra sul fronte della pace (Fazi editore, 18 euro). Lo ha scritto Massimo Nava, per molti anni inviato di guerra del Corriere della Sera. Dai Balcani all’Iraq, le testimonianze del giornalista raccontano la caduta di regimi e dittatori, stragi ed emergenze, ma soprattutto storie di persone. La cronaca, vista da vicino, si trasforma così in accusa verso la nuova cultura della guerra e i suoi sostenitori. E il volume, corredato dalle immagini di Livio Senigallesi , si schiera con le vittime anche nella pratica: i diritti d’autore, come spiega la lettera di accompagnamento di Gino Strada, aiuteranno il centro di Emergency in Iraq.

 

Antonella Trentin, DONNA MODERNA
– 06/04/2005

 

L’orrore delle guerre negli occhi dei bambini

 

La guerra può essere guardata con occhi diversi. Quelli di un soldato occidentale, spedito a Baghdad a esportare la democrazia. O quelli disperati di un bambino scampato ai terroristi ceceni nella scuola di Beslan, in Ossezia. Massimo Nava, 55 anni, da 30 giornalista del Corriere della Sera come inviato, ora corrispondente a Parigi, ha scelto o sguardo dei più deboli e disarmati. A loro, o meglio al centro di riabilitazione per i piccoli mutilati dalle mine in Iraq di Emergency, l’associazione fondata dal chirurgo Gino Strada, donerà anche i diritti d’autore del suo ultimo libro Vittime, storie di guerra sul fronte della pace (Fazi editore). Il volume ripercorre le pagine più fosche dell’umanità recente, dalla caduta del muro di Berlino, nel 1989, quando il mondo sembrava destinato a un futuro migliore, fino a oggi. Un lungo viaggio nell’orrore, in compagnia delle foto di Livio Senigallesi. Come quella, bellissima, che ci guarda dalla copertina: una bambina afgana con i capelli arruffati tra le macerie di Kabul, in Afghanistan. I suoi grandi occhi, intensi, ci invitano a entrare nel libro, per ritrovare tante vite altrimenti cancellate dall’odio e dalle bombe.
Nava, come mai ha scelto di raccontare la storia dalla parte delle vittime? “E’ un modo per ricordare, con volti e nomi, gli enormi costi umani dei conflitti, quelli che in un gergo asettico vengono chiamati “danni collaterali”. Oggi viviamo nella presunzione che si possa condurre una guerra come un’operazione chirurgica, dove i bombardieri sono bisturi altamente tecnologici”.
Una presunzione?
“Spesso, troppo spesso, si sbaglia bersaglio. Dal 1990 a oggi le guerre hanno provocato 3 milioni e 600 mila morti, per la maggior parte civili. Venti milioni di bambini sono diventati profughi. Non ho visto conflitti giusti in quest’ultimo decennio”.
La guerra è sempre sbagliata
“Non sono un pacifista a oltranza. In condizioni estreme, la guerra può essere l’ultima risorsa per stabilire la legalità violata o proteggere una popolazione minacciata. Ma non può essere decisa calpestando il diritto internazionale, senza una valutazione etica del proprio agire e una riflessione profonda sulle conseguenze”.
In Iraq, lei scrive, non è andata così.
“L’Iraq dopo Saddam è diventato l’opposto di quel che ci si proponeva: un serbatoio del terrorismo internazionale, in mano a bade criminali che spadroneggiano e rapiscono cittadini stranieri. La democrazia che noi occidentali ci siamo illusi di edificare è rimasta un’utopia. La rivista britannica The Lancet ha stimato che, dopo la liberazione, un iracheno ha 58 volte più probabilità di morire, nel 95 per cento dei casi per colpa dei raid americani. Se questa è libertà… “.
Lei ha raccontato sul Corriere l’operazione Iraq Freedom, il lungo bombardamento di Baghdad nel marzo 2003. Cosa ricorda di quei giorni?
“Il rais e il vertice supremo erano nascosti sotto terra, in rifugi anti-atomici, mentre a prendersi le bombe restava la popolazione civile. Come i piccoli handicappati della Casa della Carità delle suore di Madre Teresa di Calcutta. L’ultimo arrivato era un fagottino di sette mesi, senza braccia. Durante i bombardamenti le suore cullavano i più spaventati. Raccontavano loro che il rumore dal cielo era soltanto un tuono, di cui non bisognava aver paura perché dopo arriva la pioggia che rende fertile il deserto. Avevano inventato la contraerea più commovente mai vista”.
Nel libro lei dice un’altra verità scomoda: negli scontri armati spesso non esiste un confine tra buoni e cattivi
“La guerra nei Balcani, purtroppo, è una conferma. Camuffata da conflitto tra etnie e religioni diverse, è stato in realtà uno scontro tra gruppi di potere per mantenere ed estendere il proprio dominio, con gravi responsabilità internazionali. Dietro il pretesto di odi atavici sono stati commessi crimini orrendi. Da tutte le parti: serbi, croati, musulmani bosniaci, kosovari serbi e kosovari albanesi. Ricordo Sanja Risvanovic, 20 anni. Ha dovuto aspettare la pace in Bosnia, nella primavera del 1996, per uscire con un ragazzo per la prima volta nella sua vita”.
Come mai?
“Fino ad allora era stata una fanciulla soldato, forse l’unica in trincea sulle alture di Sarajevo. Ha indossato la divisa dell’armata musulmana bosniaca quando aveva 13 anni, accanto al padre militare. “Sono stata fatta prigioniera” mi ha raccontato. “I soldati serbi hanno ucciso due miei compagni, e hanno cominciato a picchiarmi. Poi mi hanno lasciata andare”. Di sicuro anche Sanja ha ucciso e ferito. Ma voi come la giudichereste: vittima o colpevole?”
Una confusione di ruoli che lei ha visto anche tra i prigionieri hutu, responsabili nel 1994 del genocidio di un milione di tutsi in Russia.
“Molti di loro avevano sterminato amici e vicini a colpi ci macete. Eppure sembravano larve umane, non carnefici. Juliana, 37 anni e sette figli, era rinchiusa in un campo di Kigali. Durante gli scontri suo marito era morto, mentre lei, con il figlio piccolo legato sulla schiena, era stata inseguita dai soldati. Questi l’avevano colpita di dietro e avevano ucciso il bambino. Poi l’avevano portata nel villaggio dove ‘erano tuts prigionieri. “Devi eliminare questi due vecchi” le avevano ordinato. Terrorizzata, aveva eseguito. “Nessuno ha voluto questa guerra” piangeva “eppure ci siamo ammazzati come bestie feroci”. Parole che potrebbero riassumere tutti i conflitti dei nostri giorni”.
Ci sarà pure una strada diversa dalle armi
“Fermarci a riflettere. Esportare diritti civili e gli strumenti per attuarli, come la Corte penale internazionale. Smetterla di pensare che il Bene coincida con la nostra democrazia, che vorremmo imporre al mondo come ai tempi delle crociate”.

 

 

WWW.CAFEBABEL.COM
– 21/03/2005

 

Iraq, quando la guerra è menzogna

 

Dalla Georgia all’Algeria, dal Ruanda ai massacri dei Balcani, l’ultimo libro di uno dei più celebri reporter italiani, Massimo Nava, è “un viaggio non solo nell’orrore delle guerre che in questi decenni hanno devastato il mondo (…) ma anche nell’ovattata coltre di falsità e di irrealtà che rende così difficilmente accessibile la verità” come sintetizza la prefazione di Claudio Magris. Un viaggio tra conflitti spesso legati alla contesa di una risorsa sempre più scarsa: il petrolio. Di seguito pubblichiamo due brani (un reportage e una riflessione) relativi alla guerra mossa nel maggio 2003 dagli Stati Uniti contro l’Iraq. Un paese che – come ricorda il libro dell’attuale corrispondente a Parigi del Corriere della Sera – possiede le maggiori riserve di petrolio al mondo, dopo l’Arabia Saudita. E che dall’inizio dell’intervento ha subito, secondo stime minimaliste, “fra quindicimila e diciassettemila vittime civili”. Come giustificare queste morti?

Baghdad, 16 marzo 2003
Quando il tramonto rinfresca l’aria, si accendono luminarie multicolori di grandi magazzini, ristoranti, pizzerie all’aperto. Il centro di Baghdad, con la distesa di sedie di plastica e tavolini, offre allora immagini da sagra popolare a ferragosto. Un angolo di Riccione, fra minareti e profumo di kebab. Traffico impazzito, spiedini d’agnello, balli nei cortili, fidanzati a passeggio, bambini in giostra. La guerra, ancora per qualche sera, diventa finzione, cancellata da questa surreale capacità di estraniarsi e ricorrere al sogno. Mi chiedo se non sia questa una straordinaria virtù degli iracheni, il lascito di una civiltà millenaria, la risorsa naturale più utile, visto che il petrolio è bottino dei prossimi conquistatori.
L’Iraq isolato dal mondo perpetua l’estraniazione dei suoi giovani, i quali moltiplicano diplomi inutili, parlano inglese, si dedicano alla pittura e alla poesia, guardano il calcio italiano e accorrono alle sfilate di moda. I poster di Totti e Battistuta sono le cose più nuove al mercato dei libri e dei giornali, che gli iracheni vendono, assieme agli ori di famiglia, per sopravvivere.
Il campionato di calcio italiano supera in TV l’audience delle manifestazioni per la pace che si fanno in tutto il mondo. Nell’immaginario di massa Saddam può apparire come la guerra, incombente e virtuale, invisibile ma onnipresente immagine in ogni angolo della città. Difficile notare altre figure, salvo la statua di Ali Baba e i personaggi di Disney disegnati sui muretti dei parchi-gioco (…).
Nell’Iraq laico, che veste all’occidentale, che anche questa notte ascolterà musica americana nei ristoranti e alla radio del figlio di Saddam, la religione potrebbe diventare il fattore che deciderà il futuro, più degli altri sentimenti collettivi, della paura, della rassegnazione.
Venerdì sera, nella maestosa moschea Musa Al Kadim, cara agli sciiti, il rito della preghiera e del lamento di massa rinnova la passione di Hussain, il nipote del Profeta, il cui martirio fu all’origine dello scisma. La storia e le carte geografiche lasciarono fra il Tigri e l’Eufrate una parte della popolazione sciita, maggioranza demografica ai margini del potere di Saddam. (…)
La durata della guerra e il dopo Saddam dipenderanno dal prevalere dei sentimenti della vigilia, dalla paura che favorisce la resa, dalla voglia di sognare un futuro o dall’implosione religiosa, etnica e tribale. Non so se gli iracheni che ho incontrato si arrenderanno in fretta o daranno al raís il “sangue e lo spirito”, come vuole la propaganda di regime. Di certo, non c’è rabbia né orgoglio a Baghdad, ma la dignitosa attesa di una sentenza di massa, pronunciata senza processo.

Parigi, gennaio 2005
Viviamo all’interno di una fabbrica della menzogna a sua volta condizionata da una falsa percezione della realtà, influenzata da gruppi di pressione che controllano il sistema informativo e che condizionano le decisioni. Siamo nell’epoca della menzogna funzionale, versione moderna della “disinformatia” in stile sovietico, con l’aggravante di essere concepita in funzione dell’evento stesso e a priori, disegnata sulla deformazione della realtà in funzione di nteressi e strategie.
(…) È un fatto che milioni di americani ancora oggi pensino che l’Iraq fosse direttamente collegabile agli attentati dell’11 settembre e che gli “arsenali” a disposizione dei cattivi fossero una ragione sufficiente per scatenare la guerra. Tutto questo è persino logico, dal momento che milioni di loro hanno già visto al cinema attentati mostruosi, effetti catastrofici, rapimenti di presidenti, guerre stellari e terrorismo biochimico.
Il terrorismo di Bin Laden è abbastanza semplice da comprendere e forse da combattere, ma nella nostra realtà mediatizzata diventa iperterrorismo planetario per stroncare il quale non bastano l’intelligence, il coordinamento fra polizie di tutto il mondo, il controllo dei finanziamenti, le forze speciali, la diplomazia per la pace in Medio Oriente e magari una diversa attenzione politica ed economica ai problemi del mondo arabo. Occorrono guerre convenzionali, eserciti, fortezze volanti, aerei invisibili, tecnologie sofisticate e naturalmente bombardamenti a tappeto e migliaia di vittime civili innocenti. Nessuno che s’interroghi sulla più demenziale delle strategie: quella cioè di attaccare uno Stato e una popolazione con l’obiettivo di distruggere un terrorismo senza Stati, senza confini, sicuramente sovranazionale, spesso inserito nelle nostre stesse società, addirittura alimentato attraverso i nostri canali finanziari e qualche volta in rapporti d’affari con l’Occidente, come è proprio il caso della famiglia Bin Laden con la famiglia Bush.
Di fronte alla minaccia terroristica, l’Occidente continua a credere nella supremazia militare, come se la guerra fredda non fosse finita, come se avessimo ancora bisogno dello scudo spaziale, come se i vari Bin Laden potessero essere eliminati utilizzando portaerei e missili terra-aria. Forse potrebbe aiutare la riflessione sugli eroi della mitologia greca: in fondo, l’“intelligence” di Ulisse non è risultata più efficace della forza di Achille?

 

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