Intervista a Rebecca West della Paris Review

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Rebecca West Paris Review

In occasione dell’uscita di La famiglia Aubrey, primo volume della saga familiare scritta da Rebecca West, pubblichiamo una parte dell’intervista apparsa sul numero 65 della Paris Review

 

Nel corridoio di Rebecca West era appeso un suo ritratto realizzato negli anni Trenta da Wyndham Lewis, «prima della rovina», ha aggiunto lei. Ma i suoi occhi marroni sono rimasti brillanti e penetranti, la sua voce energica e la sua attenzione verso ogni cosa acuta. Al nostro primo incontro indossava un caftano a fantasia colorata, la seconda volta una camicia larga sopra dei pantaloni. Le cataratte richiedevano due paia di occhiali, legati a delle catenelle a mo’ di collana. L’artrite aveva reso inevitabile il bastone. I suoi capelli erano bianchi e corti e portava degli splendidi anelli. La sua voce aveva conservato alcuni suoni vocalici del periodo edoardiano e alcune delle sue espressioni: «Non posso vedere niente e nessuno» equivaleva a «Aborro». Usava parole di derivazione straniera come “memoirs”, con l’accento della lingua d’origine. Ci siamo sedute nel suo salotto, una stanza con quadri e disegni con una grande finestra a golfo che dava su alcuni degli alberi alti di Londra. Le foglie, che facevano mulinello durante il nostro primo incontro, sfioravano quasi i vetri della finestra.

INTERVISTATRICE: Nel suo romanzo La famiglia Aubrey descrive magnificamente la miseria della classe istruita. È questo il suo background?

WEST: Oh sì. Le racconterò qual era la situazione. Avevamo molti bei mobili che appartenevano alla famiglia di mio padre, nessuno apparteneva a quella di mia madre, loro non erano ancora morti – l’intera famiglia aveva raggiunto l’ottantina, novantina –, ma possedevamo dei mobili, una mole di libri e un ottimo pianoforte che mia madre continuava a suonare. Eravamo poveri perché il padre di mio padre era morto quando lui e i suoi tre fratelli erano degli scolaretti. La loro madre era un membro della Plymouth Brethren e una fanatica religiosa con una coscienza che sarebbe stato meglio frenare e, sa, evirare o castrare. Lei si era rifiutata di accettare una rendita annuale che le era stata offerta dalla famiglia reale. E nessuno sapeva perché le fosse stata offerta, ma lei lo aveva scoperto, disapprovava e rifiutò. Da quel momento furono poveri per sempre. La cosa esasperante era che nessuno seppe mai perché avesse detto alla regina Victoria, «Non posso accettare questa concessione». Fu molto duro per mio padre, che era nell’esercito, perché ti servono soldi per diventare un ufficiale. Era un esperto di balistica. Era bravo in molte cose.

INTERVISTATRICE: Era un soldato di carriera?

WEST: No. Non per tutta la vita. Aveva lasciato l’esercito dopo aver ottenuto il grado di capitano. Se ne era andato negli Stati Uniti, aveva diretto una miniera e scritto in abbondanza, perlopiù di scienze politiche. Scriveva bene. Possedeva una mente molto intuitiva e disegnava davvero bene. Aveva fatto ogni sorta di cosa e aveva ricevuto un discreto addestramento a Woolwich, un’accademia militare. Eravamo i figli del suo secondo matrimonio e non riusciva più a guadagnare molto. Se ne era andato in Africa e lì si era ammalato. Una volta tornato morì a Liverpool quando avevo dodici o tredici anni.

INTERVISTATRICE: Lui è stato una figura distante e ammirevole, come è il padre di La famiglia Aubrey?

WEST: Oh, non è stato così scervellato come il padre di La famiglia Aubrey e non ha venduto mobili che non gli appartenessero e tutto questo genere di cose. Questo, piuttosto, è un ricordo legato a un altro personaggio singolare.

INTERVISTATRICE: In molti dei suoi libri ha scritto in modo davvero commovente su quanto sia crudele la morte naturale, di come questa sia la più grande disgrazia rispetto ad alcune delle molte morti violente delle quali ha scritto altrettanto. Per lei è stata un’esperienza traumatizzante perdere suo padre da piccola?

WEST: Oh. Sì. Fu terribile… A quel tempo, ogni aspetto della nostra vita era decisamente sgradevole. C’eravamo ritrovati in serie difficoltà economiche, non per colpa di qualcuno. Mia madre dovette lavorare molto duramente e benché fosse stata una brava pianista, a quell’epoca era fuori dai giochi e quando ha realizzato che mio padre era vecchio e che non sarebbe stato in grado di mandare avanti la situazione, lei in modo davvero nobile andò a imparare a dattilografare. Hai presente quelli che hanno sempre scritto sui giornali e dicono che i dattilografi sono nati durante l’ultima guerra, ma che vanno avanti ormai dagli anni Ottanta e Novanta e dal 1900? Ebbene, mia madre aveva dattilografato un po’ per dei predicatori americani che si chiamavano Torry e Alexander e si occupava della loro musica. Giravano per l’Inghilterra e mia madre su un palco suonava Glory Song, un inno famoso, che si sente ancora fischiettare per le strade. Una cosa davvero nobile. Ma lei non stava bene, non era giovane e così andammo in Scozia. Mia sorella studiava medicina. L’altra mia sorella aveva una borsa di studio a Cheltenham, che per lei fu piuttosto infruttuosa. Era davvero molto brillante e divertente.

INTERVISTATRICE: Quale sorella era?

WEST: Era Winifred, più o meno la Mary di La famiglia Aubrey. Poi c’ero io che dovevo andare a provare a ottenere una borsa di studio, cosa che generalmente facevo, nella scuola della zona. Mia madre portava avanti il business della dattilografia e io la aiutavo, era divertente e migliorò la mia vista, il che è stato piuttosto utile. Di solito dattilografava manoscritti, soprattutto per la facoltà di musica di Edimburgo. C’era un professore di tedesco che conosceva da tutta la vita. Lui aveva l’abitudine di inviare sempre articoli e ancora ricordo con orrore e divertimento un suo enorme libro tedesco su un corso di musica con frasi come questa: «se chi ascolta rivolge la sua attenzione ai flauti e agli ottavini, senza dubbio gli verrà in mente l’alba nascente sui Cavalli di San Marco a Venezia». Ci sono molti modi di dire piuttosto buoni nella musica del periodo wagneriano che, all’occorrenza, posso trovare, che erano davvero, davvero stravaganti.

INTERVISTATRICE: Suonava anche lei, da piccola?

WEST: Sì, suonavo, ma non così bene. Fin da bambina – ma non è stato diagnosticato per molti, moltissimi anni – ho avuto problemi di udito. Alla fine, ho perso completamente l’udito in quest’orecchio, dove ho contratto la polmonite, e credo sia una cosa piuttosto chic. Poi ho pensato di star riacquisendo lentamente il mio udito ma in realtà ho imparato a leggere le labbra ed è un fatto incredibile, molti giovani – se perdono l’udito da piccoli – imparano a leggere le labbra inconsapevolmente. È abbastanza comune. Io l’ho fatto senza saperlo – quando ho avuto la doppia cataratta, ho improvvisamente scoperto l’udito ormai andato e ho detto «Santo cielo! Sono diventata sorda nello stesso momento in cui i miei occhi si stanno ammalando», ma il mio otorino, che è davvero un uomo gentile, ha detto «No, non l’ha perso. La sua capacità di leggere le labbra sta scomparendo», cosa che fu davvero spiacevole, ma dall’altra parte, mi ha stupito l’ingegnosità dell’essere umano. Mi ha colpito davvero molto.

INTERVISTATRICE: A casa sua l’atmosfera per le donne era di grande emancipazione perché vi avevano lasciate sole?

WEST: Oh sì. Ci avevano lasciate sole. Avevamo uno zio che era davvero preoccupato. Era presidente dell’Accademia Reale di Musica, Sir Alexander MacKenzie, non gliene era mai importato nulla delle donne fuorché di sua moglie. Trascurava la sua stessa figlia, che era un’attrice che aveva recitato molto bene nelle prime opere di Čechov. Lui la trattava senza riguardi, l’aveva fatta tornare a casa, lasciando suo marito a Parigi per accudire sua madre. Il marito, dopo sei anni, con il cuore infranto se ne andò via con un’altra persona. Nel complesso eravamo realmente femministe e questa fu una cosa davvero stimolante…

Traduzione Francesca Giovanna Proietti

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