Tradurre «Lo specchio e la luce» di Hilary Mantel

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Hilary Mantel

In occasione dell’uscita di Lo specchio e la luce, la traduttrice Giuseppina Oneto, con il contributo del suo collega Stefano Tummolini, racconta la loro esperienza di traduzione del romanzo conclusivo della trilogia sui Tudor iniziata con Wolf Hall e proseguita con Anna Bolena, una questione di famiglia, entrambi premiati con il Man Booker Prize.

 

Non è mai stato facile tradurre Hilary Mantel. Ne avevo esperienza già da anni, dopo che mi è stato assegnato il gradito compito di lavorare a Wolf Hall. Con quel volume ho cominciato a conoscere la scrittura di Hilary (mi sia concessa questa intimità solo letteraria) e ad amarla. Il suo è un inglese ricchissimo, agile nei movimenti, poetico e radicato nell’ampia tradizione del suo paese. Compie piroette, salti carpiati e giravolte, salta ostacoli di spiegazioni storiche impersonandole sulla pagina; volta alto con i falchi, scende fra le risse sul porto, nel sangue versato sui patiboli, riecheggia di violenza e di prepotenze, stringe alleanze con i morti e le loro insospettabili strategie invisibili: ma sempre con estrema asciuttezza ed eleganza, sempre con la consapevolezza di potersi avvalere degli strumenti di una lingua che ha sviluppato una cultura scritta alla quale si devono dei monumenti letterari.

Bene, tutto ciò per un traduttore non è semplice. Per due, come in questa occasione, forse ancora meno. Da sola, per una serie di vicende e coincidenze personali che sarebbe lungo spiegare, non avevo il tempo necessario per affrontare il testo, quindi avevo bisogno d’aiuto, e l’aiuto l’ho avuto da Stefano Tummolini. Un aiuto sostanziale: la sua bella mano di scrittore ha portato un tocco di leggerezza in tanti passaggi complicati, ha sciolto nodi che non erano evidenti alle prime letture, ha fornito idee che hanno portato una ventata di aria nuova. Io ci ho messo la mia esperienza, la mia voglia di rendere onore – fin dove è possibile, o meglio, fin dove mi è possibile – al ritmo, al passo serrato, alla forza asciutta del linguaggio mantelliano. Non ci sono leziosaggini nella scrittura di Hilary, non ci sono concessioni al lettore. C’è un profondo ascolto del passato, uno studio meticolosissimo delle vicende storiche, un convivere con i fantasmi sepolti da secoli. C’è la grande spinta a stravolgere il mito e rifondarlo, a spogliarlo dalla polvere del tempo, a radicarlo nel suo muco, e a portarcelo sulla pagina perché possiamo sentirlo fremere sotto le dita. E sentirlo tremare di paura, tacere di dolore, imbaldanzire di ricchezza, ruggire di arroganza, sferzare con la potenza del dominio.

Per il traduttore – e in questo caso anche la traduttrice – ciò significa sviluppare una sicura competenza nella verifica storica e lessicale, in quest’ultimo caso per rintracciare le evoluzioni semantiche delle parole nel corso dei secoli; significa una tenace agilità nel ripensare le frasi e nel non dare mai per scontato la loro resa; significa non credere mai di aver fatto del proprio meglio ma tentare ancora una limatura, ancora un “togliere via”, come diceva Umberto Eco, per far risaltare sul bianco della pagina i tanti echi di cui vive la scrittura di Mantel; significa fare appello a tutte le proprie risorse di studi letterari, e in questo caso soprattutto shakespeariani, e cercare di calzare al meglio gli stivali da lavoro con cui la scrittrice attraversa i campi della sua creatività, per poi porgersi davanti al pubblico avvolta in mantelli di velluto e vesti di seta di epoche lontane, trovandosi a dover scegliere, da traduttore/traduttrice, le tonalità giuste per parole, espressioni e scelte stilistiche che non rimandino troppo da vicino a tradizioni storiche italiane della stessa epoca, e dunque a una storia – la nostra – impastata di elementi storici, politici e sociali molto, molto diversi.

Come dicevo, tradurre la Hilary Mantel dei romanzi storici non è mai facile. E ancor meno lo diventa quando i tre volumi in cui lei segue le vicende di Thomas Cromwell sono strettamente legati fra loro, per cui bisogna tenere a mente i tanti rimandi che li legano l’un l’altro. Bisogna esercitare attenzione e buona memoria, anche se godere degli strumenti digitali, con le ricerche immediate che permettono, ha reso più facile poter sfogliare virtualmente centinaia e centinaia di pagine per scovare il passaggio a cui lei si riferisce centinaia e centinaia di pagine dopo.

E ancora una cosa: da traduttore/traduttrice non bisogna neanche lasciarsi travolgere dallo sconforto davanti alle necessarie perdite alle quali si va incontro nel trasportare il testo da un contesto linguistico-culturale a un altro, ma ricordare sempre che la traduzione è comunque una ricchezza, è un moltiplicare le vite di un’opera scritta, offrendo nelle mani del lettore, in questo caso italiano, un libro concepito e scritto in un’altra lingua. Anche se resta sempre la consapevolezza che, per quanto si sia tentato una lettura il più profonda possibile e quindi una riscrittura in italiano il più corrispondente possibile allo spirito del testo, la traduzione non sarà mai definitiva, ma resterà sempre un tentativo, al meglio delle proprie capacità, che sarà indispensabile sottoporre a necessarie rivisitazioni e nuove letture.

 

Giuseppina Oneto

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