Intervista a Hilary Mantel

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In occasione dell’uscita del romanzo La storia segreta della rivoluzione, in libreria, pubblichiamo l’intervista a Hilary Mantel di Enrico Franceschini apparsa su «la Repubblica» il 3 aprile 2013 con il titolo Il re e io.

 

Jane Austen, Virginia Woolf, Hilary Mantel. Sappiamo chi sono le prime due. Potrebbe essere arrivato il momento di conoscere meglio la terza donna più importante della letteratura inglese. «Che onore trovarmi in tale compagnia», si schermisce lei. Ma poi diventa seria: «Però, se lo dicono i critici, magari vuol dire che me lo merito». Lo dicono, in effetti, sia i critici che il pubblico. Nessuno, prima di lei, aveva mai vinto due volte il Booker Prize, il più prestigioso premio letterario britannico. Nessuno, prima di lei, aveva mai vinto nello stesso anno il Booker e il Costa Award, il più ricco premio letterario britannico. «È il più grande autore inglese vivente?», si domanda il Daily Telegraph, dunque più grande anche di tanti scrittori maschi, McEwan, Hornby, Amis, Coe? I lettori sembrano d’accordo: Bring up the bodies (in Italia esce in questi giorni pubblicato da Fazi con il titolo Anna Bolena. Una questione di famiglia, traduzione di Giuseppina Oneto), secondo volume della sua trilogia dedicata all’Inghilterra dei Tudor, di Enrico VIII, di Thomas Cromwell, è un best-seller che qui ha già venduto 250 mila copie in pochi mesi, diventerà uno sceneggiato televisivo, andrà in scena al teatro di Stratford-on-Avon, la città di Shakespeare. Una cosa è certa: successo e riconoscimenti si sono fatti attendere. Li ha raggiunti soltanto ora, a 60 anni, dopo una lunga serie di libri che verranno certamente riscoperti e dopo una malattia che le ha provocato lunghe sofferenze. «Sento dire in giro che di premi ne ho vinti troppi», dice sprofondata in una poltrona della sua casa editrice londinese, «ma sa che le dico? Ho atteso tanto questo momento. Non mi vergogno che sia arrivato. Me lo godo».

Se li aspettava, i premi?

«Sono stati una sorpresa. Ma la sorpresa più grande è la reazione simile di critica e pubblico. Ero andata vicina a vincere premi importanti anche in passato. Le recensioni sui miei libri sono sempre state positive. Ma vendevo poco, forse perché cambiavo argomento a ogni romanzo. Avere tante frecce diverse nel proprio arco è secondo me un segno di forza, per uno scrittore, ma non necessariamente per il marketing. Con la trilogia sui Tudor, forse i lettori si sono fatti un’idea precisa di chi sono e di come scrivo».

Qualcuno si meraviglia che ci sia così tanto interesse per del romanzi sull’Inghilterra del 1500.

«Di solito si dice che Enrico VIII è una scusa per scrivere di sesso. E un po’, con sei mogli, è inevitabile. Ma nei miei libri racconto i Tudor da un punto di vista insolito, non assecondando le aspettative dei lettori».

Uno scrittore italiano, Alessandro Baricco, l’ha elogiata perché punta i fari non sui re ma su un personaggio di seconda fila, Cromwell. Perché?

«Perché mi ha sempre affascinato. Per me è un cattivo, un manipolatore, un assassino. Perché è ai margini della storia, appunto, ma contribuisce a determinarne gli esiti. Enrico VIII è la grande icona del tempo, ma il potere reale passa attraverso Cromwell. Il re è un uomo intelligente, ma pigro, che ha bisogno di un grande cortigiano. Il potere dietro il trono, forse è anche questa aspetto che ha colpito i lettori».

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Hilary Mantel davanti a un ritratto di Thomas Cromwell

Fare luce tra le ombre del potere: necessità che si sente anche ai giorni nostri.

«Gli storici, naturalmente, lo avevano già fatto. Ma il grande pubblico non legge i trattati di storia, mentre un romanzo è in grado di raggiungerlo».

Lei si è avvicinata a Cromwell leggendo libri di storia?

«È accaduto molto prima. A scuola. Frequentavo un convento cattolico e ci dava una certa versione della storia, secondo cui Enrico VIII, il re che aveva rotto con la Chiesa di Roma, era un mostro, e il suo ministro Cromwell anche di più. Ero una bastian contraria fin da piccola e mi innamorai di quel personaggio fin da allora».

Singolare innamoramento per una ragazzina cattolica.

«Ho ricevuto una rigida educazione cattolica, ma non lo sono più. Potrei dire che ho smesso di esserlo proprio grazie alla mia educazione in convento».

E cosa la attirava in Anna Bolena, la protagonista femminile del suo romanzo?

«È l’archetipo della femmina fatale. La giovane donna che ruba l’uomo potente alla moglie anziana. Un triangolo classico e crudele. Tutti lo conosciamo. Se digiti Anna Bolena su Google, trovi così tanto materiale che puoi pensare che sia successo la settimana scorsa, non cinquecento anni fa. Secoli fa è stata l’eroina del protestantesimo, poi l’eroina del femminismo. Per conto mio è sbagliato considerarla un’eroina, ma è anche sbagliato considerarla una vittima. Era una donna di potere, molto scaltra, spietata, che ha vissuto ed è morta in base alle regole che lei stessa si è data , che non ha mai nascosto il suo odio per Caterina, la prima moglie del re».

Cromwell un killer, Anna Bolena spietata, non è che le piacciono solo i cattivi?

«Mi piacciono le persone che sono ambiziose e pronte a giocarsi tutto per una posta importante. Mi piacciono quelli che rischiano, e sia Cromwell che Anna lo fanno».

Lei viene lodata per il suo stile, non solo perché racconta i Tudor con il tempo presente, ma perché scrive straordinariamente bene. Dove o come ha imparato?

«Da Shakespeare. Sembra un cliché, ma è così. Sono cresciuta in una casa senza libri, ma anche lì a un certo punto entrò non so come una vecchia edizione del Giulio Cesare di Shakespeare. Ricordo ancora quando lessi la scena in cui Marco Antonio, con il corpo di Cesare appena ucciso, spinge la folla contro Bruto e Cassio. Tutto quello che ho scritto viene da quella scena, il potere di un leader carismatico sulla folla, l’arte della retorica, il punto della svolta in cui tutto cambia».

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Ma a parte il Bardo, chi l’ha ispirata?

«Ho letto di tutto, tanto, voracemente, storia, poesia, narrativa. Ma i miei contemporanei li ho letti tardi, solo quando ero già adulta».

Le piace Jane Austen, nel 200esimo anniversario di Orgoglio e pregiudizio?

«Mi piacciono la sua sottigliezza e il suo umorismo. Ma più di tutto, in Orgoglio e pregiudizio, mi piace Lidia, la storia della sorella che scappa e ne combina di tutti i colori. Ha ragione lei, sono attirata più dai cattivi che dai buoni».

E Virginia Woolf?

«Amo i suoi diari, ma non i suoi romanzi. Mi interessa di più la sua vita che le sue storie. Leggendole divento impaziente, vorrei meno emozione, più azione. Ma forse non ero ancora pronta per la Woolf. Forse un giorno lo sarò.»

Cosa ha di diverso una scrittrice da uno scrittore?

«Per conto mio, niente. Certo, quando scrivi trasporti sulla pagina una parte di te stesso. Ma la migliore scrittura avviene quando la tua personalità viene spazzata via. Ho letto di un famoso scrittore inglese che si fa mettere uno specchio davanti alla scrivania, mentre scrive. Ebbene io, al  contrario, indosserei una maschera, per scomparire, diventare un’altra. Ma non ne ho bisogno, perché indosso una maschera virtuale».

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