La famiglia Aubrey – Recensione del New Yorker

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La famiglia Aubrey New Yorker

Aspettando l’uscita il 5 luglio di La famiglia Aubrey, primo volume della saga famigliare scritta da Rebecca West, vi proponiamo la recensione del romanzo pubblicata dal New Yorker il 5 gennaio 1957.

 

Rebecca West ha scritto un lungo romanzo chiamato The Fountain Overflows (in italiano tradotto con La famiglia Aubrey). Il titolo è da prendere seriamente per vari motivi: Miss West ha annunciato che questo corposo volume è soltanto il primo di una serie che interesserà le fortune dei protagonisti, la talentuosa, malmessa e indomita famiglia Aubrey.
Il romanzo in più volumi rappresenta, per la narrativa contemporanea, ciò che l’attico è per l’architettura contemporanea, più o meno per la stessa ragione. Ci viene detto che sono lussi che non possiamo più permetterci, essendo spazio e tempo entrambi preziosi, ma quant’è piacevole passarci il nostro tempo libero, e quanto saremo tristi quando l’ultimo abbondante romanzo e l’ultimo soleggiato attico scompariranno! A Miss West non importa un fico secco di quello che può permettersi. Sa bene che sta realizzando la sua grande opera in uno stile radicalmente fuori moda. Sa anche che il suo stile è fuori moda nella prospettiva così come nella sua accuratissima ampiezza.
Il flusso di vita, e non il flusso di coscienza, è ciò che guida il suo interesse e detta il suo metodo; osserva fuori e oltre, piuttosto che dentro e in basso, e inventa azioni in modo sfrontato, azioni nelle quali una scrittrice più “moderna” darebbe l’impressione di imbattersi per puro caso, salvo poi portarle alla luce. La natura formale della conversazione con cui si apre il romanzo e la gioiosa evidenza della sua utilità nel far partire la trama ci informa che, allo scopo dell’autrice, Joyce, Proust e tutti gli altri ragazzi dietro le quinte hanno scritto invano.
«Oh, mio caro Piers, so che il lavoro non è degno di te», disse mamma con calore, «però è una tale benedizione, siamo così fortunati che il signor Morpurgo sia il proprietario del giornale ed è molto carino da parte sua aver chiesto il tuo aiuto…».
Chiaramente, l’autrice non si fa alcuno scrupolo; i lettori riluttanti nel credere a Mr. Morpurgo alla prima menzione del suo nome sono avvisati di cercare intrattenimento altrove.

Miss West scrisse nella quarta di copertina che La famiglia Aubrey nacque come un racconto, ed è caratteristico del suo talento che un progetto di 4 o 5 mila parole ne diventi uno da mezzo milione. Perché Rebecca West ha sempre scritto in maniera prolifica e (cosa ben più rara) mossa da una sovrabbondanza di idee. Persino nel brillante giornalismo a cui ha dedicato gran parte della sua vita negli ultimi vent’anni, il minimo frammento di un dettaglio – la forma di uno zigomo, la temperatura di una particolare giornata in una particolare città – portava Miss West alle considerazioni più estese, costruendo sui più ristretti dati di fatto le più ampie e ardite ipotesi. Ma ne La famiglia Aubrey ha ridotto al minimo le sue generalizzazioni.
Sebbene abbia molti commenti da fare sulla musica, le maniere borghesi, e così via, essi sono un tutt’uno con i fatti e le azioni da cui originano; al lettore non viene da pensare che si tratti delle irrefrenabili speculazioni di una mente prodigiosa. Rebecca West raggiunge questa vittoria indispensabile dando al romanzo la forma di una reminiscenza. Il narratore, Rose Aubrey, si guarda indietro attraverso cinquant’anni, fino alla sua infanzia in un sobborgo di Londra. Com’erano lei, le sorelle, i fratelli, i genitori, gli amici, gli insegnanti e i domestici? Come parlavano e come si vestivano? Cosa mangiavano? Cosa pensavano? Cosa ne pensa, ora, Rose, di quello che pensavano allora? Nella mente di una donna alla ricerca del suo passato, queste sono domande legittime, e West si sente in diritto di farne in quantità e di rispondere senza fretta. Che il flusso di vita, con movimenti lenti che catturino l’occhio del lettore, porti avanti qualsiasi cosa l’autrice abbia il piacere di inscenare; un tocco di spirito farà prendere vita a tutta la scena:

Poi scendemmo a prendere il tè nella sala da pranzo. Era un tè ottimo, con una torta tutta piena di ciliegie, non solo in cima. Era un peccato che la signora Furness non potesse scendere, ci era piaciuta così tanto. C’era un ampio orologio sul camino, che faceva un bel ticchettio, sembrava quasi facesse le fusa, ma quella stanza non era bella quanto le altre, perché aveva i muri ricoperti di grandi fotografie, incorniciate in quercia rossa, di pietre che recavano iscrizioni in lingue antiche, con delle note in calce, in grassetto, che dicevano dove erano state ritrovate. Introducevano una nota di squallore da aula scolastica.

Se vi piace questo passaggio, allora amerete tutto di La famiglia Aubrey, dovete solo abbandonarvi all’imperturbabile pienezza di Rebecca West. Il vostro premio sarà quello di entrare a far parte della famiglia Aubrey, i cui membri sono già straordinari in partenza, e senza dubbio continueranno a esserlo mentre, volume dopo volume, procederanno alla realizzazione dei loro talenti. Qui le loro avventure partono benissimo e i loro destini sono leggermente tratteggiati, ma percepiamo che molti cambiamenti si celano all’orizzonte. Credete a Mr. Morpurgo, mangiate la vostra torta alle ciliegie e leggete e leggete a oltranza.

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