Seamus Heaney
La riparazione della poesia
Lezioni di Oxford
A cura di Massimo Bacigalupo
Chiamato a ricoprire la cattedra di poesia a Oxford dal 1989 al 1994, Seamus Heaney, una delle maggiori voci poetiche e critiche del secondo Novecento, affronta in dieci lezioni una serie di testi rappresentativi della tradizione angloamericana: dagli elisabettiani ai metafisici al poeta contadino John Clare a Oscar Wilde ai modernisti (Yeats) ai contemporanei, da Dylan Thomas a Philip Larkin ed Elizabeth Bishop. Sono lezioni memorabili, instancabili nel perseguire fino in fondo la responsabilità del critico. Vigile quanto appassionato, Heaney non ignora le debolezze e contraddizioni dei suoi testimoni, ma ne coglie il contributo centrale e ne estrapola, attraverso una ricerca che non ha nulla di casuale, un’immagine della poesia come “riparazione”. La poesia ripara in quanto fornisce il necessario contrappeso al principio di realtà, dovunque essa vada a cadere: materialista contro gli spiritualisti, fantastica contro i riduzionisti, scanzonata contro gli ideologi. Inoltre svolge una funzione riparatrice nei confronti di se stessa, rivendicando un’autonomia, che è “totale adeguatezza” all’occasione.
– 01/06/2001
Seamus Heaney, “La riparazione della poesia. Lezioni di Oxford”, a cura di Massimo Bacigalupo
Seamus Heaney, il poeta irlandese che nel 1995 è stato insignito del premio Nobel per la letteratura, è autore di saggi critici quali “Attenzioni” (1996) e “Il governo della lingua” (1998), tradotti in italiano dall’editrice Fazi e ben curati da M. Bacigalupo. Egli fu chiamato a insegnare presso le Università di Harvard e Oxford. Il volume che presentiamo consiste nella raccolta di 10 delle 15 lezioni universitarie tenute nella città che Keats definiva “la più bella del mondo” tra il 1989 e il 1994. In queste lezioni Heaney affronta una serie di testi rappresentativi della tradizione angloamericana: dagli elisabettiani ai metafisici, al poeta contadino John Clare, a Oscar Wilde, a Yeats fino ai contemporanei Dylan Thomas, Larkin, Elizabeth Bishop. Si tratta di lezioni tanto suggestive quanto impegnative. Gli autori presi in esame in gran parte non sono molto noti al nostro pubblico, ma i saggi sono una buona occasione, essendo corredati dalla traduzione di qualche testo, per fare la loro conoscenza.Nella scelta degli argomenti delle sue lezioni, l’A. non è stato guidato in modo sistematico dalla necessità di attenersi a un tema generale: “Ogni volta, il sine qua non è stato il ricordo di una lettura giovanile che nel corso degli anni si è trasformata in una precisa fedeltà alla poesia o al poeta in questione” (p. 106). Tuttavia, se non troviamo un tema, certo riconosciamo una tesi generale e forte, quella della “riparazione” della poesia. L’espressione del titolo, così come è stata tradotta in italiano, cerca di rendere il gioco di parole presente nel termine originale redress of poetry, che fonde l’idea del “risollevare” e quella più arcaica di “ricondurre sulla giusta via”. La poesia “persiste e opera come un modo di riparazione, la maniera in cui giustifica la fiducia del lettore e si legittima ponendo il suo “fine eccesso” in contrappeso alle inadeguatezze, desolazioni e atrocità della vita” (ivi): essa ci consola o rivela le ricchezze del nostro spirito: ci rende più consapevoli e umani. Dice il poeta, citando Seferis, che essa è “abbastanza forte per aiutare”. Queste convinzioni sono fondate sulla sensazione di “giustezza” che si riceve quando una poesia suscita un’impressione indelebile in chi l’ascolta e poi sopravvive nella mente come piacere e potenza. La poesia d’altra parte va “riparata”, cioè va ristabilita nella sua autonomia e difesa da ogni imposizione esterna e di utilità strumentale e obbedienza all’ideologia, alla politica o ad altro. Scrive in conclusione Heaney: “Volevo affermare che dentro di noi come individui possiamo riconciliare due ordini di conoscenza che potremmo chiamare pratica e poetica; affermare anche che ciascuna delle due forme di conoscenza ripara l’altra, e che la frontiera che le divide è lì per essere attraversata” (p.245).
– 12/04/1999
Del poeta irlandese premio Nobel sono stati tradotti in italiano un testo in versi e un’opera critica
HEANEY, IL CORAGGIO DELL’IMPEGNO POLITICO
La poesia è un linguaggio con cui si possono comunicare le cose che più ci premono, l’attualità politica ed emotiva? Di solito in Italia non è così, siamo abituati a una lirica chiusa su di sé, non di rado indecifrabile. Diverso il ruolo della poesia nei paesi anglosassoni, che chiude il secolo decisamente in attivo. Seamus Heaney, irlandese, oggi a 60 anni il più autorevole poeta di lingua inglese, ha appena pubblicato una nuova traduzione di “Beowulf”, il poema epico anglosassone che è alle origini della cultura inglese e tedesca, e i media hanno dato grande risalto all’impresa, mentre il 2 novembre l’ “Irish Times” gli ha assegnato il Premio di Letteratura Irlandese per la poesia per una vasta antologia, “Opened Ground”. Gli editori italiani hanno a loro volta accolto Heaney a braccia aperte. Nel 1999 è uscita la raccolta poetica “La lanterna di biancospino (a cura di Francesca Romana Paci, Guanda, pp.136, L.18.000) e un compatto volume di lezioni tenute da Heaney a Oxford, “La riparazione della poesia (Fazi, pp.262. L.30.000), che sono state presentate ieri da Wayne Pounds e Francesco Rognoni a Genova alla Libreria Feltrinelli, Via P. E. Bensa, 2/3 A. In queste lezioni Heaney si chiede appunto cosa la poesia possa fare per “riparare”, bilanciare, la realtà che si trova davanti. Afferma che deve sapere andare contro le aspettative che la vogliono conforme alle ideologie correnti, restando fedele alla giustizia, quella “fuggiasca nel campo dei vincitori”. Una poesia contestatrice, memoria di una libertà di conoscere, puro volo, che Heaney ritrova nelle opere oggetto delle sue lezioni: un poemetto erotico elisabettiano di Marlowe, la “Ballata del Carcere di Reading” di Oscar Wilde, la controversa carriera di Dylan Thomas, un poemetto irlandese del settecento “Il tribunale di mezzanotte”, e maestri come Yeats e Philip Larkin. Professore per necessità, Heaney resta tuttavia intuitivo e appassionante, tanto che la sua critica è forse la migliore che ci venga oggi dal campo anglosassone. Secondo la lunga tradizione che ha avuto i critici più importanti nei migliori poeti, vedi Eliot e Auden, o nell’ottocento Wordsworth e Arnold. Anche la poesia che apre “La lanterna di biancospino” è una sorta di lezione, dedicata agli “Alfabeti”, infatti fu scritta da Heaney per una cerimonia all’università di Harward. E’ un’autobiografia attraverso la scoperta della scrittura: “Questo è scrivere. Collo e dorso di un cigno / fanno un 2… Due travi e una traversina sulla lavagna / sono la lettera che qualcuno chiama “a”, altri “ei”. / Ci sono carte, ci sono titoli, c’è un giusto / modo di tenere la penna e uno sbagliato”. Il ragazzino che scopre le strane forme delle lettere diventa il professore candidato al Nobel (la raccolta è del 1987): “Ruotato è il globo. Adesso sta in una O di legno [l’anfiteatro universitario, NdR]. / Allude a Shakespeare. Allude a Robert Graves. / Il tempo ha spianato la scuola e la finestra…”. Mente l’individuo cresce il mondo della sua infanzia svanisce, la scuola dell’Ulster addirittura rasa al suolo: alla fissità apparente delle parole si oppone la distruzione universale che la minaccia. “La lanterna di Biancospino” presenta una serie di confronti con la realtà ardua della politica e dell’esistenza. Spesso Heaney si vale di forme allegoriche vicine a quelle dei poeti dell’Europa dell’Est, raccontandoci parabole sulla “Repubblica della Coscienza” (dove “la nebbia è un presagio temuto ma il lampo / promette bene”), l’ “isola che scompare”, “il Cantone delle attese”, e appunto la “Lanterna di Biancospino”, cioè la bacca rossa del pruno che ricorda la lanterna di Diogene alla ricerca dell’uomo giusto. In un’altra poesia straordinaria, “Dalle frontiere della scrittura”, la scena è quella di un posto di blocco della polizia militare nel Nord Irlanda; passarlo è come passare liberi nel mondo della poesia, dopo aver mostrato le carte e affrontato tutto il peso del presente. Una serie commossa di otto poesia viene all’ultima nemica, la morte, essendo scritta in memoria della madre del poeta, contadina cattolica (Heaney è il primo di nove figli), ed evocando sapientemente nella forma del sonetto i momenti più intensi della loro vita in comune: quando pelavano le patate la domenica mattina, immagine che gli torna in mente mentre il prete va recitando la preghiera per i morenti, o il gioco di piegare le lenzuola, avvicinandosi via via. Dall’astratto la poesia di Heaney viene al concreto e all’intimo, dal pubblico al privato, con magistrale esemplare discrezione. Ha proprio ragione, “c’è un giusto / modo di tenere la penna e un modo sbagliato”.
– 02/09/1999
La poesia ripara la vita
Molti dei migliori poeti anglosassoni, da Pound a Eliot, da Stevens a Brodskij (poeta russo ma formidabile saggista inglese), da Yeats a Walcott, ci hanno abituati a una riflessione critica che potremmo definire di controcanto alla poesia. La riflessione teorica sul proprio lavoro, e più in generale sull’arte del poetare e sul perché di quell’arte, è quasi un basso continuo che accompagna, nei ritmi forse meno tesi ma non meno rigorosi della prosa, lo scrivere in versi. Un accompagnamento indispensabile a chiarire, e più di qualche volta anche a modificare, la percezione del mondo proposta (‘e imposta’) al lettore dalla dura luce della poesia. Anche Seamus Heaney (il premio Nobel irlandese del 1995) rientra nella pattuglia dei poeti-saggisti, e scorazza nel territorio della critica da par suo, mobilitando una smisurata competenza storica e poetico-letteraria, che talvolta però deborda in erudizione un po’ compiaciuta. Dopo aver pubblicato ‘Attenzioni’ (‘Preoccupations’) e ‘Il governo della lingua’, Fazi fa uscire ora il terzo volume di riflessioni critiche di Heaney, ‘La riparazione della poesia’ (pp.264, L. 30.000). Qui il poeta irlandese, che si è sempre guadagnato da vivere insegnando, fino ad approdare in alcune delle università più prestigiose del mondo di lingua inglese, raccoglie dieci delle quindici lezioni tenute a Oxford nei cinque anni (1989-1994) in cui è stato ‘professore di poesia’. Il libro è curato e tradotto col consueto rigore appassionato da Massimo Bacigalupo, che nel saggio introduttivo (“Orfeo a Oxford”), analizzando il concetto di “poesia come riparazione” (“Redress), caro a Heaney, puntualizza: “La riparazione della poesia vuol dire che la poesia svolge una funzione riparatrice, ‘violenza interna che si oppone a una violenza esterna’, insomma essa ci consola, o rivela (come suggeriva Proust a proposito di certe frasi del ‘Tristano’) le ricchezze ignote e soffocate del nostro spirito. Come la musica, ci rende più pienamente consapevoli, più felici, più umani. È – dice Heaney citando Seferis – ‘abbastanza forte per aiutare’. D’altra parte, la riparazione della poesia è anche l’atto di ristabilire la poesia, di riaffermare la sua autonomia, di ‘difenderla'”. In questo modo Heaney si riallaccia esplicitamente a Sidney e a Shelley, dunque al grande fiume della tradizione rinascimentale prima, romantica poi. Ciascuna delle lezioni tende a essere un sistema solare indipendente, un circuito riflessivo ed emotivo autoalimentato, ma l’ordine prescelto imprime al loro insieme un percorso che fa pensare a una galassia compatta quanto il più denso e remoto dei sistemi che ne fanno parte. I poeti maggiori e minori presi in esame coabitano con un’invidiabile, quasi scanzonata naturalezza: così si passa dalla taverna dove venne pugnalato Christopher Marlowe al “Tribunale di mezzanotte” di Brian Merriman; dal “prog” (profitto, bottino) di John Clare alla “Ballata del carcere di Reading”, da Hugh MacDiarmid a Dylan Thomas; fino a una lucida e visionaria sequenza di considerazioni sulle “cose ultime” (la silenziosa ma abbacinante presenza della morte) nella poesia di Yeats e di Larkin (l’Irlanda e l’Inghilterra dunque, il sublime e il quotidiano). Bellissima, tra le altre, la lezione intitolata “Contando fino a cento. A proposito di Elizabeth Bishop”, dove Heaney prende le mosse del racconto autobiografico ‘Nel villaggio’, per passare al setaccio alcune delle sue più inquietanti, dirette e magiche poesie. “Potremmo arrivare a dire – scrive analizzando ‘The Sandpiper’ (Il piovanello) – che la poesia mostra come l’attenzione ossessiva al dettaglio può trasformarsi in una conoscenza visionaria; come una messa a fuoco intensa può amplificare anziché limitare il nostro raggio. Gli ultimi due versi in effetti trasformano quel che è piccolo e singolare e lo proiettano su uno schermo cosmico. Rendono luminoso e meraviglioso ciò che è in pericolo di essere trascurato”. Forse lo scopo e il risultato critico-estetico di ogni poesia che sia degna di inserirsi nella Tradizione (quindi anche di aggredirla e interrogarla) sta proprio qui, nel rendere meraviglioso ciò che rischia di non essere osservato, udito, toccato dalla nostra considerazione così spesso distratta dall’essenziale, forse perché abbandonata da quel ‘senso di grazia’ che quasi tutta la poesia moderna canta come una cosa perduta, travolta dalla cultura della produzione in serie. Per poterci aiutare a vivere la poesia deve a sua volta essere aiutata a rivivere dentro di noi, cioè difesa dal groviglio della quotidianità, il guado che tutti dobbiamo attraversare. Sì, la poesia “per essere utile deve riaffermare la sua inutilità e libertà. Solo nel gioco è il senso del lavoro”.
– 02/09/1999
Poesia
Nulla di meglio di un po’ di poesia sotto l’albero, o magari per aspettare il Capodanno in modo alternativo. Cominciamo con un saggio del grande Seamus Heaney: “La riparazione della poesia” (Fazi editore, pagg. 262, 30mila lire), nel quale il Nobel per la letteratura irlandese affronta alcuni tra i testi più rappresentativi della letteratura angloamericana: dagli elisabettiani ai metafisici, da Oscar Wilde ai modernisti, fino ai contemporanei. E da queste lezioni esce un’immagine della poesia “come riparazione” in quanto essa fornisce il necessario contrappeso al principio di realtà. Un testo che va a completare il percorso poetico di Heaney iniziato con il discorso di accettazione del Nobel, “Dare credito alla poesia” (Archinto editore).
– 02/09/1999
Piacere a se stessa
La miglior critica letteraria è “la sola forma civile di autobiografia”, ha scritto Oscar Wilde, con quel suo gusto inconfondibile del paradosso, che di primo acchito si direbbe del tutto estraneo allo stile per niente aforistico del suo connazionale Seamus Heaney (Belfast 1939), premio Nobel nel ‘95. Eppure, fra le tante chiavi di lettura di queste splendide lezioni oxoniensi, “La riparazione della poesia” – ma il discorso vale anche per i saggi e le prose raccolti in “Attenzioni” e nel “Governo della lingua” (Fazi, 1996 e 1998) -, quella autobiografia è certo fra le più suggestive. Lo stesso Heaney riconosce che il tema della “riparazione” è “un aspetto o una conseguenza della mia biografia”, e se anche i poeti di cui scrive appartengono per lo più al “canone” inglese o americano, “lo sfondo implicito è rimasto nordirlandese”. Ed effettivamente, ripetute in queste pagine, certe celebri definizioni della poesia, come “stasi momentanea contro la confusione” (Frost), “violenza interna che si oppone a una violenza esterna” (Wallace Stevens), acquistando una risonanza anche politica quasi del tutto inedita: pur non rinunciando mai al loro discorso innanzitutto “estetico”, sulla “poesia in quanto poesia”, “piacere a se stessa”, gioia della lingua. Il che, del resto, è già implicito nel gioco di parole del titolo, dove “riparazione”, “redress”, va inteso sia in senso transitivo (perché, per dirla con lo spesso citato Seferis, la poesia “è abbastanza forte per aiutare”), sia in senso intransitivo, o autoriflessivo: come restituzione della poesia a se stessa – sua classica difesa, nella grande tradizione rinascimentale e romantica di Sidney e Shelley. “I poeti sono i non riconosciuti del mondo”, aveva dichiarato quest’ultimo, esponendosi fin troppo alle ironie novecentesche (macché! ribatteva W.H. Auden, maliziosamente: “i non riconosciuti legislatori del mondo” sono i servizi segreti, non i poeti”…). Ma Seamus Heaney, la cui retorica rifugge l’altisonanza romantica – e che, come tutti i maggiori poeti del secondo Novecento, non solo in lingua inglese, è un po’ anche figlio di Auden -, dice davvero, Heaney, qualcosa di molto diverso da Shelley, quando afferma che “il poeta deve un certo senso restituire al mondo la libertà di affrontare le proprie faccende ex novo”, o allude a “quella civiltà totale che i poeti alla loro maniera non-messianica sono sempre riusciti a immaginare o accrescere”? Quest’ultima citazione è tratta dal saggio su Brian Marriman, un poeta gaelico del Settecento, la cui opera si direbbe provincia solo degli specialisti. Perché una delle scommesse della Riparazione della poesia è quella di rivendicare il valore esemplare – e, direi, “centrale” – di esperienze letterarie e linguistiche che sembrerebbero molto marginali: come quella del poeta contadino John Clare (1793-1864), in manicomio per quasi metà della sua vita, o dell’esuberante poeta e critico scozzese Hugh MacDiarmid (1892-1978). Del resto, anche di autori d’interesse più generale, come Marlowe o Wilde, vengono commentati testi apparentemente secondari. Mentre l’ormai riconosciuta “centralità” di Elizabeth Bishop (1911-79), forse la voce più significativa del secondo Novecento americano, è frutto d’un esercizio continuo di dislocazione, spaesamento. Alle lezioni dedicate a questi autori si aggiungono pagine su Frost e Herbert, Hardy e John Hewitt; nonché momenti di illuminante (e niente affatto narcisistica) esegesi della poesia dello stesso Heaney. Vi si trovano anche un saggio vigoroso, ma piuttosto limitativo, sugli “eccessi” di Dylan Thomas; e un altro in cui la gioia “sublime” di Yeats è contrapposta e “vince” sul seducente disfattismo di Larkin – un confronto, questo, ad armi decisamente impari, e però che ci ricorda come la grande critica letteraria che davvero voglia allearsi all’opera di “riparazione” della poesia talvolta debba essere tendenziosa.
– 05/01/2000
La vita umana si trasforma
Fra il 1989 e il 1994 il premio Nobel Seamus Heaney ricopriva a Oxford la prestigiosa cattedra di poesia e delle quindici lezioni che vi tenne sulla tradizione anglo-americana ne sono state scelte dieci ora pubblicate in “La riparazione della poesia”. Il poeta irlandese ci parla di autori noti come Christipher Marlowe, Oscar wilde, dylan Thomas, W.B. Yeats, Philip Larkin, ed Elizabeth Bishop, come gli altri ignoti in Italia, ma non per questo sono meno interessanti, quali Brian Merriman, un irlandese di fine ‘700, John Clare, un poeta del mondo rurale dell’800, e Hugh MacDiarmid, un nazionalista scozzese che negli anni Venti e Trenta del nostro secolo tentò un’operazione di fusione delle parlate gaeliche. Quello che secondo Heaney, accomuna questo gruppo eterogeneo di poeti è la capacità di realizzare nei loro versi la “riparazione” della poesia, intendendo con questo termine la funzione non solo di riequilibrare il reale che non può essere contenuta in limiti angusti e codificati, ma anche di attuare, con i mezzi linguistici propri della poesia, quella trasformazione fantastica della vita umana che si rivela il modo migliore per comprendere l’esistenza.Con la sua sensibiità, Heaney ci conduce lungo un viaggio poetico unico, rico di metafore concrete la cui freschezza si è conservata nell’ottima traduzione di Massimo Bacigalupo, che è anche il curatore del volume, e ci mostra come oltrepassare con l’aiuto della scrittura quella sottile linea di demarcazione che divide la quotidianità dalla rappresenrazione fantastica significhi per lui anche la possibilità d’integrazione, superare, cioé, la sua condizione di “inner émigré e ricomporre nella lingua un io diviso dalla frontiera fra nord e il sud dell’Irlanda.
– 02/09/1999
Heaney, il coraggio dell’impegno politico
La poesia è un linguaggio con cui si possono comunicare le cose che più ci premono, l’attualità politica ed emotiva? Di solito in Italia non è così, siamo abituati a una lirica chiusa su di sé, non di rado indecifrabile. Diverso il ruolo della poesia nei paesi anglosassoni, che chiude il secolo decisamente in attivo. Seamus Heaney, irlandese, oggi a 60 anni il più autorevole poeta di lingua inglese, ha appena pubblicato una nuova traduzione di Beowulf , il poema epico anglosassone che è alle origini della cultura inglese e tedesca, e i media hanno dato grande risalto all’impresa, mentre il 2 novembre l’ “Irish Times” gli ha assegnato il Premio di Letteratura Irlandese per la poesia per la vasta antologia, Opened Ground. Gli editori italiani hanno a loro volta accolto Heaney a braccia aperte. Nel 1999 è uscita la raccolta poetica La lanterna di biancospino (a cura di Francesca Romana Paci, Guanda, pp. 136) e un compatto volume di lezioni tenute da Heaney a Oxford, La riparazione della poesia (Fazi, pp. 262), che sono state presentate ieri da Wayne Pounds e Francesco Rognoni a Genova alla Libreria Feltrinelli, Via Bensa, 2/3 A. In queste lezioni Heaney si chiede appunto cosa la poesia possa fare per “riparare”, bilanciare, la realtà che si trova davanti. Afferma che deve sapere andare contro le aspettative che la vogliono conforme alle ideologie correnti, restando fedele alla giustizia, quella “fuggiasca nel campo dei vincitori”. Una poesia contestatrice, memoria di una libertà di conoscere, puro volo, che Heaney ritrova nelle opere oggetto delle sue lezioni: un poemetto erotico elisabettiano di Marlowe, La Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde, la controversa carriera di Dylan Thomas, un poemetto irlandese del settecento Il tribunale di mezzanotte, e i maestri come Yeats e Philip Larkin. Professore per necessità, Heaney resta tuttavia intuitivo e appassionante, tanto che la sua critica è forse la migliore che ci venga oggi dal campo anglosassone. Secondo la lunga tradizione che ha avuto i critici più importanti nei migliori poeti, vedi Eliot e Auden, o nell’ottocento Wordsworth e Arnold. Anche la poesia che apre La lanterna di biancospino è una sorta di lezione, dedicata agli “Alfabeti”, infatti fu scritta da Heaney per la cerimonia all’università di Harvard. E’ un’autobiografia attraverso la scoperta della scrittura: “Questo è scrivere. Collo e dorso di un cigno/ fanno un 2… Due travi e una traversina sulla lavagna/ sono la lettera che qualcuno chiama a, altri ei. Ci sono carte, ci sono titoli, c’è un giusto/ modo di tenere la penna e un modo sbagliato”. Il ragazzino che scopre le strane forme delle lettere diventa il professore candidato al Nobel (la raccolta è del 1987): “Ruotato è il globo. Adesso sta in una O di legno (l’anfiteatro universitario, NdR)./ Allude a Shakespeare. Allude a Robert Grave./ Il tempo ha spianato la scuola e la finestra…”. Mentre l’individuo cresce il mondo della sua infanzia svanisce, la scuola di Ulster addirittura rasa al suolo: alla fissità apparente delle parole si oppone la distribuzione universale che la minaccia. La lanterna di biancospino presenta una serie di confronti con la realtà ardua della politica e dell’esistenza. Spesso Heaney si vale di forme allegoriche vicine a quelle dei poeti dell’Europa dell’Est, raccontandoci parabole sulla “Repubblica della Coscienza” (dove “la nebbia è un presagio temuto ma il lampo/ promette bene”), l’ “Isola che scompare”, il “Cantone delle attese”, e appunto la “Lanterna di biancospino”, cioè la bacca rosa del pruno che ricorda la lanterna di Diogene alla ricerca dell’uomo giusto. In un’altra poesia straordinaria, “Dalle frontiere della scrittura”, la scena è quella di un blocco della polizia militare nel Nord Irlanda; passarlo è come passare liberi nel mondo della poesia, dopo aver mostrato le carte e affrontato tutto il peso del presente. Una serie commossa di otto poesie viene all’ultima nemica, la morte, essendo scritta in memoria della madre del poeta, contadina cattolica (Heaney è il primo di nove figli), ed evocando sapientemente nella forma del sonetto i momenti più intensi della loro vita in comune: quando pelavano le patate la domenica mattina, immagine che gli torna in mente mentre il prete va recitando la preghiera per i morenti, o il gioco di piegare le lenzuola, avvicinandosi via via. Dall’astratto la poesia di Heaney viene al concreto e all’ultimo, dal pubblico al privato, con magistrale esemplare discrezione. Ha proprio ragione, “c’è un giusto/ modo di tenere la penna e un modo sbagliato.
– 10/11/1999
Seamus Heaney, La riparazione della poesia
Dopo Josif Brodskij, un altro premio Nobel degli anni più recenti dimostra di essere – oltre che un grandissimo poeta – un altrettanto grande lettore di poesia. Dal 1989 al 1994 l’irlandese Seamus Heaney venne chiamato a ricoprire la prestigiosa cattedra di poesia dell’Università di Oxford, e presso quella stessa università tenne una serie di lezioni su testi (celebri o sconosciuti ai più) della tradizione anglo-americana. Ora dieci di quelle lezioni vengono pubblicate in italiano, e offrono al lettore la possibilità di sviscerare fino in fondo versi e autori che pur essendo molto lontani gli uni dagli altri (si va dal poeta contadino John Clare a Oscar Wilde, da Dylan Thomas a Elizabeth Bishop) conservano un tratto comune. Tutti infatti, a giudizio di Heaney, corrispondono alla funzione “riparatrice” della poesia; ovvero al suo costitutivo potere di controbilanciare i limiti di una realtà che si crede data una volta per sempre. Ed è proprio l’ampiezza dello spettro indagato a rendere memorabili queste lezioni.Non a caso il saggio più riuscito è quello in cui si giustappongono Yeats e Larkin, che poetano in modo opposto attorno al tema della morte. Il primo invitando a una battaglia mai doma, il secondo optando per un’accettazione del declino mortale: “Però, quando una poesia rima, quando una forma si autogenera, quando un metro provoca la coscienza a trovare nuove posizioni, essa è già dalla parte della vita. Se una rima sorprende ed estende le relazioni prefissate fra parole, già questa è una protesta contro la necessità. Se la lingua fa più di quanto basta, come avviene in ogni poesia riuscita, essa opta per la condizione della vita ulteriore, e si ribella contro il limite. Così anche “Aubade” di Larkin non passa dalla parte del nemico”.
– 02/09/1999
Anche la poesia si può riparare con le ricette irlandesi di Heaney
Pregnante e a suo modo enigmatico, il titolo La riparazione della poesia di questa nuova raccolta di saggi di Seamus Heaney, premio Nobel e uno dei maggiori poeti viventi, non soltanto di lingua inglese. Nell’acuta prefazione al libro, Massimo Bacigalupo rammenta che l’italiano “riparazione” cerca di rendere il gioco di parole (redress) dell’originale, ove si fondono due spunti teorici: l’idea del “risollevare” e quella del “ricondurre sulla via giusta, appropriata”. Ecco allora Heaney, che è saggista raffinato e sottile non meno che creativo, in dieci lezioni tenute dalla prestigiosa, quasi leggendaria, cattedra di poesia di Oxford, fare il punto sulla poesia in termini di principio ma anche di analisi critica diretta dei testi. La poesia, ammonisce Heaney, va ristabilita e dunque, se si vuole, “riparata” nel suo significato autonomo, va difesa. e la sua libertà esclude ogni finalizzazione e ogni sudditanza. Ma la linea di forza del libro, che lo percorre dall’introduzione alle pagine conclusive, scaturisce dal principio più volte riaffermato da Heaney della “frontiera della scrittura”, il confine tra la vita vissuta e la vita dell’immaginario, dei fantastico; dato di fatto essenziale per un poeta lucidamente visionario qual è Heaney, singolare inventore di immagini, di simboli, di metafore sempre radicate nella realtà naturale e insieme nel mito. In questo senso, mi affido proprio alla chiusa dell’ultima lezione, quando Heaney cita una sua poesia del ’91, contenuta in Veder cose, ove si riprende una leggenda medievale, la storia dei monaci in preghiera che d’improvviso vedono “sopra di loro in aria, una nave”. La poesia è realtà concreta o anche visione, persino magia, miracolo? La poesia, sotto questo profilo, è sonorità, musica, ma non soltanto questo. Al di là dei due saggi teorici, Heaney affronta negli altri otto una serie di poeti non tutti noti al pubblico italiano ma non per questo meno cruciali. In un arco che va dal Cinquecento al nostro secolo, Heaney punta con forza su George Herbert, il grande poeta metafisico seicentesco in cui visione, concettualità, trascendenza e invenzione verbale si fondono, per approdare nel Novecento sull’americano Wallace Stevens, poeta inventivamente concettuale e saggista di singolare lucidità. Nel poemetto seicentesco Ero e Leandro di Christopher Marlowe l'”energia sovversiva” dall’autore riplasma le sollecitazioni di una straordinaria storia d’amore. Teniamo bene a mente, comunque, che Heaney è irlandese cattolico, nato e cresciuto nell’Ulster e divenuto poi cittadino dell’Eire. Una bella rivincita, per lui, salire sulla cattedra di poesia di Oxford, specie se si considera che, pur non essendo un militante, egli si è trovato sempre vicino a posizioni nazionalistiche. In questo volume intere parti riguardano una simile identità culturale, più che politica in senso stretto. Lo spazio dedicato a poeti che scrivono in gaelico o, come Hugh MacDiarmid, in scozzese, testimonia di un rapporto privilegiato. Ma, a costo di riprendere quello che sta diventando un luogo comune, è la supposta marginalità della cultura irlandese a diventare una forza, a rendere possibile da un lato il recupero di valori ancestrali, dall’altro l’acquisizione di una prospettiva diversa, più mossa e più libera di quella inglese. Quando Heaney trova in Marlowe soluzioni pre-joyciane si serve di una simile prospettiva e al tempo strsso, si ricollega a uno dei suoi modelli prediletti. Così diventa possibile – e tele mi sembra essere il messaggio che Heaney affida alle ultime pagine del suo non facile libro -, autentica sfida al lettore, “conciliare due ordini di conoscenza che. potremmo chiamare pratica e poetica”.