Beryl Bainbridge
Master Georgie
Traduzione di Neelam Srivastava
Un misterioso incidente, avvenuto in passato, unisce per sempre le vite, gli amori e il destino dei quattro protagonisti del nuovo romanzo di Beryl Bainbridge. George Hardy, il Master Georgie del titolo, è la “presenza” centrale della storia, ambientata al tempo della guerra di Crimea, ma il racconto si dispiega attraverso la voce narrante degli altri tre personaggi: il dottor Potter, il fotografo Pompey Jones e Myrtle, orfana e presunta sorella di George. Saranno loro a delineare le ambigue sembianze di George Hardy, che deciderà di abbandonare la dissoluta esistenza nell’agiata Liverpool vittoriana per unirsi come medico alle truppe impegnate in Crimea.
Master Georgie, finalista del Booker Prize, non è solo un racconto avvincente, ma è soprattutto una riflessione ironica e amara sull’impossibilità di comprendere fino in fondo le persone care.
«Master Georgie è un romanzo da leggere e rileggere, nella sua pregnante concisione. Bainbridge è riuscita a scrivere un romanzo storico senza banalità, a risparmiarci chiacchiere e moralismi, a proiettare la storia in un’aura metafisica senza disperderne la specificità».
Massimo Bacigalupo, «L’Indice dei Libri del Mese»
– 03/01/2001
Beryl Bainbridge, Master Georgie
Beryl Bainbridge è un tipo alla Juliette Greco anche se più giovane di un decennio, un’incallita fumatrice dalla voce roca in un appartamento londinese costellato di santini (si definisce una conversa cattolica non praticante). Viene da Liverpool, la città ventosa di slums e dune che fa da sfondo ai primi due capitoli del suo ultimo romanzo, questo intrigante e appassionante “Master Georgie”. Come il titolo, è un libro secco che non fornisce autocommenti ma fa scorrere sei “tavole” con le loro date (dal 1846 al 1854) sotto gli occhi increduli del lettore, tavole che rimandano sempre a una fotografia che vi viene scattata e che sono narrate alternativamente da tre personaggi: Myrtle, la trovatella presa in casa dallo studente e poi medico Georgie Hardy e di lui innamorata; Pompey, un monellaccio che diventa factotum e amante di Georgie, nonché fotografo; il dottor Potter, scienziato cognato di georgie che lo segue nel 1854 prima a Costantinopoli e poi in Crimea. Come nei due romanzi precedenti, dedicati alla spedizione di Robert Scott all’Antartide (Un’avventura micidiale, Anabasi, 1995) e al naufragio del Titanic (Ognuno per sé, Fazi, 1998). Beryl Bainbridge è attirata dalle catastrofi, per cui ci porta da una Liverpool di normali orrori quotidiani al teatro di una guerra disastrosa e incomprensibile (qualcuno ricorda perché si combatté a Sebastopoli?) dove i sudditi dei pacifici regnanti europei si scannarono efficientemente, e il colera e la disorganizzazione fecero il resto. Ma per descrivere tutto ciò Bainbridge non sfodera una scrittura emotiva, né ammannisce decine di pagine di pseudodocumentazione e ragionamenti sulla guerra di Crimea; proietta invece una serie di fotogrammi gelidi, che possono ricordare il Woyzeck di Buechner. Oltre tutto il lettore sta sempre spiando gli indizi che i narratori lasciano cadere nei loro resoconti per capire quali siano in effetti i rapporti fra di loro e che cosa mai stia accadendo. perfino la realtà più immediata (il sesso e la morte) appare non meno problematica in questo vuoto conoscitivo in cui tutti annaspano. Ecco Pompey verso il finale: “Vidi uno dei nostri fucilieri seduti dritto nel fango, gli occhi spalancati e la sommità della testa aperta come un uovo alla coque… Mi allungai verso Myrtle e la presi fra le braccia… Non riuscii a penetrarla. Mi permise di accarezzare il suo orifizio ma quando tentai di andare olter si rifiutò. Non insistetti, dato che non era una faccenda molto importante…” Il tragico si congiunge all’umorismo e a una dominante grottesca. Ed è qui forse che Bainbridge si rivela figlia prosciugata ma non indegna di Dickens. “Master Georgie” è un romanzo da leggere e rileggere, nella sua pregnante concisione. Bainbridge è riuscita a scrivere un romanzo storico senza banalità, a risparmiarci chiacchiere e moralismi, a proiettare la storia in un’aura metafisica senza disperderne la specificità.
L’opera di Bainbridge, finalista al Booker Prize
Un signorino a confronto con lo scrittore Hardy
Inconsolati. E inconsolabili. Sono i personaggi di Beryl Bainbridge, una delle più affermate scrittrici britanniche, finalista alla scorsa edizione del Booker Prize con questo “Master Georgie” ora tradotto per fazi da Neelam Srivastava. Una storia di amore, ossessione e mistero ambientata tra la Londra vittoriana e i campi di battaglia della guerra di Crimea, che l’autrice rievoca con una freddezza niente affatto convenzionale. Del resto già nel precedente “Ognuno per sé” (uscito nel 1998 presso lo stesso editore) la Bainbridge aveva fornito una ricostruzione del naufragio del Titanic che non aveva nulla a che spartire con il punto di vista spettacolare, ma in definitiva ottimistico, del film di James Cameron.Presente nelle librerie italiane, sia pure in modo discontinuo, dalla metà degli anni Settanta, Beryl Bainbridge è una scrittrice che non concede sconti al lettore, a partire dalla struttura della trama. “Master Georgie”, per esempio, è costruito attraverso le voci di tre personaggi, tutti in diverso modo legati allo sfuggente protagonista che dà titolo alla narrazione, il “signorino” Georgie Hardy. UN cognome, quest’ultimo, che la dice lunga sulla volontà della Bainbridge di misurarsi con il più impervio e – di nuovo- pessimista tra i grnadi autori della tradizione romanzesca inglese. Tre personaggi, dicevamo, ognuno dei quali commenta due dagherrotipi di una immaginaria collezione di lastre sulle quali l’Ottocento fissa in modo impietoso il proprio acme e la propria crisi. George Hardy, infatti, è medico di professione e fotografo per diletto, a differenza del giovane Pompey Jones, il vagabondo che cerca di riscattarsi – almeno dal punto di vista sociale – apprendendo la nobile arte del dagherrotipo. Pompey è l’ultimo dei narratori ad avvicendarsi sulla scena del romanzo ed è a lui che spetta il compito di descrivere la morte del suo benefattore in una Crimea che la Bainbridge si compiace di rappresentare come un sottovalutato Vietnam del XIX secolo.Ma a prendere la parola è anche la monomaniaca Myrtle, ceh da piccola orfana accolta per pietà in casa Hardy si trasforma in amante segreta dell’adorato Georgie. E c’è il cognato del silenzioso protagonista, il fin troppo loquace dottor Potter, con il suo umanesimo vacuo e impermeabile alla realtà, desideroso soltanto di chiudere gli occhi davanti all’inarrestabile mattanza della guerra. Il vero legame tra i vari personaggi è rappresentato dall’infamante segreto che grava sulla famiglia Hardy e che Georgie si è fatto carico di nascondere. Ammesso e non concesso che si tratti dell’unico segreto da cui il “signorino” è tormentato.Testimonianza di indubbia sapienza narrativa, “Master Georgie” è anche il documento severo – e a tratti scabroso – di una letteratura che rinuncia a consolare il lettore, mettendolo davanti a una serie di domande destinate a rimanere senza risposta. una prospettiva inquietante, certo, ma non trascurabile.
Le inglesi-humour
Bainbridge, lastre sordide dalla Crimea
Romanziera inglese tra le più notevoli dell’ultimo quarto di secolo, Beryl Bainbridge si muove di solito tra parodia e discorso femminista con una forte adesione alla realtà inglese del presente e del passato, che in parte spiega (ma non giustifica) il tiepido successo ottenuto finora in Italia.“Master Georgie” – pubblicato, come in precedenza “Ognuno per sé”, da Fazi Editore (traduzione di Neelam Srivastava, pp. 175, L. 26.000) – esplora uno spaccato significativo dell’epoca vittoriana con uno humour più aspro di quello che ha reso famose le rivisitazioni storiche di Antonia S. Byatt, l’autrice di Possessione e di Angeli e insetti. La vicenda narrata nelle prime pagine dell’orfanella Myrtle, trovata a tre anni in una cantina “seduta accanto al corpo di una donna con la gola rosicchiata dai topi”, pur essendo emblematica della miseria dei diseredati nella Liverpool ingigantita e devastata dalla Rivoluzione industriale, si concentra soprattutto sull’intenso legame tra Myrtle e il “signorino” Georgie, un padrone-fratello-amante, diviso tra i privilegi del ceto borghese, la curiosità nei confronti della nuova visione scientifica, l’ambigua e mai confessata omosessualità, e gli slanci filantropici che lo spingono a recarsi prima a Costantinopoli e poi in Crimea per prestare aiuto come medico, al corpo di spedizione britannico, impegnato, accanto ai Turchi, a contrastare l’espansione della Russia zarista nel 1854-56. Rovesciando e moltiplicando il punto di vista di un altro famoso romanzo di rivisitazione vittoriana, La donna del tenente francese di John Fowles (in cui era la protagonista Sarah a essere osservata, spiata, concupita), la Bainbridge pone al centro del suo romanzo il mistero e la fascinazione di un personaggio maschile, raccontato da Myrtle, da un giovane proletario che, grazie a Georgie è diventato fotografo, dal colto e un po’ stralunato cognato. I rapporti tra i quattro personaggi vengono indagati nell’incrocio continuo delle riflessioni e dei commenti, ma il signorino Georgie rimane per tutti l’oggetto del desiderio e dell’amore, fino ad oltre la morte. Nello stesso tempo, il panorama dell’Inghilterra della metà dell’Ottocento si dissolve nella finzione di una recita (di momenti teatrali è pieno il romanzo), si raggela nei ritratti spettrali fissati su primitive lastre fotografiche, si frantuma nelle immagini speculari di una Liverpool sordida e classista e di una guerra insensata e sanguinosa. Se, come ella stessa afferma, Myrtle, nella sua fanatica devozione, non è niente altro che l’”ombra” del signorino Georgie, quell’ombra – nel romanzo della Bainbridge – acquista una potente materialità, coagulando attorno a sé l’attenzione degli altri protagonisti, e raccontando non solo la vita e la morte di un eroe fallito, ma anche il dramma della condizione femminile, fatta di umiliazioni, di violenze sessuali, di maternità non volute e tanto più dolorose perché accettate come l’inevitabile destino delle donne.
– 12/01/2000
incontro: Beryl Bainbridge
un’eccentrica “dame” inglese
colleziona statue di santi, scrive romanzi storici e ha un appuntamento con la regina…
Se uno dei tratti distintivi di un’autentica signora inglese è davvero l’eccentricità, allora a Beryl Bainbridge spetta un primato di “inglesitudine”. É per questo, forse, che il 21 novembre la regina Elisabetta II le conferirà a Buckingham Palace il titolo di dame, corrispettivo femminile di sir. Nella casa a nord di Londra dove abita da trent’anni, a due passi dal mercatino vintage di Camden Town, un enorme bufalo imbalsamato accoglie il visitatore, che per entrare, è costretto a strisciare lungo la parete. Beryl – volto da ex diva del muto, inseparabile sigaretta, palandrana di velluto nero e babbucce con arabeschi – sembra non farci caso. Entrare nel suo nero living-room è come tuffarsi in una chiesetta di paese di cinquant’anni fa: variopinte statue di santi, martiri e Cristi con il sacro cuore rosso e blu in bella vista. Beryl Bainbridge in Inghilterra è una scrittrice apprezzata per la sua grande capacità di ricostruire un periodo storico e calarvi un plot di pura invenzione. Il suo ultimo romanzo, Master Georgie (Fazi), una galleria di personaggi le cui vicende si consumano nel 1854 durante la guerra di Crimea, sembra un album di straordinarie fotografie ingiallite. Con questo libro Beryl ha rischiato per la quinta volta di vincere il Booker Prize, che i giudici, però, si ostinano a non volerle dare.- Perché questa ambientazione durante la guerra di Crimea?Qualche anno fa, sbarazzandomi di un’infinità di vecchi giornali, lessi per caso un articolo del Times sull’improvvisa apertura all’Occidente del Mar Nero. C’era una foto che ritraeva i palazzi di cemento a Balaclava, la città dove ebbe luogo la vittoriosa “carica dei Seicento” della cavalleria inglese contro i russi. Mi è venuto in mente che lì sotto dovevano ancora giacere le vittime della strage consumata in Crimea.- Il romanzo parte dalla città della sua infanzia, Liverpool…É lì che a quattordici anni fui cacciata da scuola. Circolava un poemetto pornografico e io lo illustrai con dovizia di particolari. Mia madre lo trovò nella tasca del mio cappotto e corse dalla preside. A quell’epoca un’espulsione era un marchio a fuoco: nessuna scuola in Inghilterra mi avrebbe ripresa. Così, per farmi fare qualcosa, mi iscrissero a un corso di recitazione e diventai un’attrice nei repertory theatres: giravamo il paese recitando Shakespeare, gli elisabettiani, i classici. Sapere a memoria decine di testi mi ha insegnato l’arte del dialogo.- Altri guai combinati in quegli anni?Be’, mio padre non mi perdonò la conversione al cattolicesimo. Ero allo sbando, avevo bisogno di regole: la religione cattolica mi sembrava una buona soluzione. E funzionò, almeno per un po’. Oggi le chiese si sbarazzano di queste bellissime statue di gesso: S. Lucia con gli occhi nel piattino, S. Antonio con l’agnello in grembo. Le porto a casa in ricordo di quei tempi.- Fino a quando ha fatto l’attrice?Ventun anni: mi sposai e arrivarono tre bambini. Così cominciai a scrivere. I miei primi romanzi furono autobiografici, era facile scriverli. Un’avventura terribilmente complicata, che Mike Newell trasformò in un film con Hugh Grant, racconta gli anni del teatro. Poi cominciai a esplorare la storia. Scrissi un libro sulla gioventù di Hitler, uno sulla sfortunata spedizione in Antartide del capitano Scott, uno sul Titanic, Ognuno per sé, che mi portò per la prima volta un grande successo e molti soldi.- Cosa fa quando non scrive?La nonna. Ho sette nipoti tra i 5 mesi e i 19 anni. Andiamo a teatro, dipingiamo, leggiamo Shakespeare. Tre mi accompagneranno a Buckingham Palace il 21, che è anche il giorno del mio compleanno. Spero riescano a non ridere quando, dopo aver ricevuto il titolo, dovrò, come vogliono l regole dell’etichetta, indietreggiare senza voltarmi indietro.