Alfred de Vigny
Servitù e grandezza della vita militare
Introduzione di Eraldo Affinati
Traduzione di Manuela Maddamm
Servitù e grandezza della vita militare è la rievocazione autobiografica della lunga esperienza nell’esercito di Alfred de Vigny, ma anche una riflessione rigorosa e acuta sulla difficile condizione del soldato nei moderni eserciti permanenti. La grandezza dell’opera risiede nel fascino delle umane vicende in essa descritte. De Vigny mostra la dignità profonda di certi destini umani sempre tesi verso un senso della vita che trascende la dimensione individuale.
«L’esercito è cieco e muto. Colpisce davanti a sé dal luogo in cui viene posto. Non vuole niente e agisce su impulso. È una grande cosa che viene mossa e uccide; ma è anche una cosa che soffre».
Alfred de Vigny, Servitù e grandezza della vita militare
Pur essendo in sostanza un libro di ricordi, “Servitù e grandezza della vita militare” rifiuta di ascriversi al genere autobiografia, per esplicita, quasi polemica dichiarazione del suo autore. Dall’interno di una visione fortemente eticizzata non solo della scrittura, ma della pratica culturale intesa come servizio alla patria, alla comunità degli uomini, de Vigny stigmatizza una spinta intimistica non sostenuta da solide motivazioni morali: “Non penso infatti che ci si possa confessare pubblicamente prima d’essere abbastanza vecchi e illustri, nonché sufficientemente pentiti, da poter interessare un’intera Nazione ai nostri peccati”. In assenza di ragioni estrinseche, pertinenti in ultimo alla sfera del politico (edificare la Nazione), lo scrivere autobiografia acquisisce esso stesso un carattere quasi peccaminoso, impudico e frivolo, testimoniando un’incontinenza sentimentale assai poco virile: “Talvolta, sospinti da uno spirito tormentato dal passato e senza alcuna fiducia nel futuro, si cede troppo facilmente alla tentazione di divertire qualche sfaccendato con i segreti di famiglia o con i misteri del proprio cuore”. L’uso della prima persona svolge dunque in de Vigny una funzione di garanzia sulla verità degli eventi riportati; i quali non a caso sono fitti di nomi e di riferimenti a persone reali. E del resto gli interventi del narratore sono accuratamente misurati dentro il limite della discrezione, evitata col massimo studio l’interferenza dell’io profondo nel lavoro di osservazione e illustrazione delle cose. Presentandosi nella veste del cronista all’antica, raccoglitore di gesta di persone umili, ma forti, perseveranti, obbedienti, leali, lo scrittore conforma lo stile del racconto alla severa dignità dell’argomento. Una prosa classica, virgiliana, con punte di espressionismo figurativo affioranti nei luoghi di più alta tensione ideale o emotiva: in perfetta coerenza con le disposizioni della classicità matura. Rientrano fra questi momenti certe descrizioni spaventose e plastiche, di una ferma evidenza, simili a quelle che, per motivi divergenti, saranno usate da Savinio e da Gadda: “Correndo, inciampai in qualcosa che stava per farmi cadere: era un piede umano. (…) Liscio, venato come un marmo nero, aveva rosa soltanto le unghie”. Chiuso da ogni lato dalle ragioni dell’etica, della retorica, dalla presenza continua di una sorta di ideale pubblico di persone per bene – in consonanza ovvia con lo spirito del tempo (1835) – il testo nondimeno prende aria da tutte le parti, si libra, disegna una trama d’immagini, di figure, talmente nitide e pure da sembrare attinte al territorio del sogno. E’ curioso in questo senso, sebbene probabilmente banale, osservare come l’estetica di cui e frutto questa scrittura stia agli antipodi di quella inaugurata di lì a poco e poi invalsa in larga maggioranza fino ai nostri giorni. In de Vigny, a differenza di quanto accade in De Quincey, per esempio, o in Poe, non si percepisce quasi la sensazione del bivio, della svolta; l’emergenza dell’inquietudine appare ancora sovranamente tenuta a bada. Non vi è traccia d’ironia, né d’infrazione, né della minuziosa, ossessiva erosione del “significato” tipiche della sensibilità novecentesca. Ci si può chiedere da che cosa derivi il senso di cosa viva, in qualche modo attuale, che comunque si avverte in questa apologia dell’obbedienza e dell’onore. E se da un lato è senz’altro decisiva la seduzione dello stile, il piacere provocato comunque dalla ricchezza e dell’eleganza del dettato, è anche vero che questo non basta a giustificare l’interesse, per esempio, di una casa editrice, la quale pubblica un libro evidentemente quando suppone di andare incontro a un’esigenza diffusa. Si deve pensare dunque a una qualità intrinseca di “Servitù e grandezza della vita militare”, qualcosa che riguarda forse proprio la sua collocazione a monte della Decadenza, a ridosso ma tuttora immune dal processo descritto da Nietzsche sulla scorta di Bourget: “Uno stile decadente è quello in cui l’unità del libro si decompone per far posto all’indipendenza della pagina, la pagina si decompone per far posto all’indipendenza della frase e la frase per far posto all’indipendenza della parola”. Qui invece non c’è ancora nulla che si stacca, tutto anzi concorre a cementare un’unità tenuta fuori dal soggetto, dalla sfera d’influenza del soggetto-topo, il roditore; può darsi che sia questo ad apparire salutare, commovente quasi, al lettore moderno.
– 11/10/1996
Alfred de Vigny
Ottimista e tragico
Alfred de Vigny (1787 – 1863) entrò quindicenne nelle Guardie Rosse della Casa Imperiale, lasciando l’esercito soltanto nel 1827, sposò un’inglese e fu amico di Victor Hugo. La condizione umana la guardò attraverso una concezione stoica e pessimistica, meditando sovente sul “male sociale” e intorno al “male filosofico”. Un pessimismo che però concedette e concede qualche spiraglio: la fede nel progresso e la religione dello spirito. Vecchi arnesi ottocenteschi, forse, ma che incideranno su quella generazione di autori che inventerà la letteratura moderna. Si disse che Baudelaire accorse al capezzale di de Vigny per riceverne l’eredità spirituale. anche se il fatto non é avvenuto nella realtà, si é compiuto nel fugace mondo della sensibilità e delle idee. Ora l’editore Fazi ripropone di de Vigny, con un’introduzione di Eraldo Affinati e nella traduzione di Manuela Maddamma, l’opera “Servitù e grandezza della vita militare”. Possiamo considerare questo libro un pamphlet di protesta contro la barbarie dei conflitti, il cinismo della politica, lo spiritualismo guerrafondaio. Da un critico di racconti lirici e realisti allo stesso tempo, prende forma un genere di romanzo consapevolmente innovativo: la filosofia e la storia sono tenute presenti in egual misura e vengono sapientemente utilizzate per il fine. Poi c’è il tocco tragico. Molto moderno, perfetto per noi.
– 02/01/1997
Alfred de Vigny – “Servitù e grandezza della vita militare”
In questa raccolta di racconti Alfred de Vigny narra, con disperata lucidità, una delle grandi passioni infelici della sua vita: la passione per l’esercito. Nato nel 1797, e cresciuto al suono delle fanfare delle vittorie napoleoniche, Vigny, govane aristocratico, si arruola nel 1815 nelle Guardie Rosse della Casa Imeperiale e, dopo aver trascorso i Cento Giorni, nascosto, con sua grande umiliazione, in casa di parenti, resta per vent’anni nell’esercito senza partecipare a neppure una battaglia. “Gli eventi che inseguivo non avvennero mai così grandi quanto avrei sperato”, dice con scorata delusione fin dalle prime pagine.Gli episodi di vita militare, descritti da Vigny nei tre lunghi racconti che compongono il volume, sono molto lontani da qualsiasi retorica trionfalistica; non si trovano l’esaltazione della battaglia e l’ebbrezza della vittoria, ma piuttosto un’elegiaca e sofferta ammirazione per il coraggio e la lealtà del singolo soldato che riesce, pur impastoiato dalle snervanti regole dell’armata, a mantenere intatti quei valori di lealtà e onore che Vigny considerava i fondamenti ineludibili della propria natura aristocratica. L’ultimo racconto, “Vita e morte del capitano Renaud” o “Il bastone di giunco”, é particolarmente significativo; un ufficiale napoleonico, dopo aver trascorso anni di prigionia sulle navi inglesi, viene ucciso, nelle giornate di luglio del 1830, da un quattordicenne parigino che aveva caricato la pistola con una pallina colorata.