«La famiglia Aubrey» secondo Alessandro Baricco

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Rebecca West Famiglia Aubrey Alessandro Baricco

Aspettando l’uscita di La famiglia Aubrey, primo volume della saga familiare scritta da Rebecca West, pubblichiamo questo breve saggio di Alessandro Baricco inserito nella raccolta Una certa idea di mondo pubblicata da Feltrinelli.

 

Non vorrei creare troppe aspettative, ma non ho letto niente di meglio, in questi ultimi dieci anni. Sono tre volumi di un’unica saga famigliare che nei progetti della West doveva coprire buona parte del Novecento. In tutto, qualcosa come 1200 pagine (be’, non siete costretti a comprarli subito tutti e tre). Molta Inghilterra, un po’ di Scozia e di Irlanda. Due sorelle famose pianiste, un padre in fuga, un fratello irripetibile, i capelli di Rosamund, le ore infinite al Dog and Duck, l’indimenticabile signor Morpurgo: e il loro destino glorioso, come direbbe la West.
Rebecca West non sapevo chi era. Ormai lo sanno in pochi anche in Inghilterra. Un’amica di Virginia Woolf, ti dicono, e poi si fermano lì. Io sono ancora qui a chiedermi come mai non si dica il contrario: Virginia Woolf? Ah, un’amica di Rebecca West.
[…]
Non avendo capito che era una trilogia, a me è accaduto di iniziare dal secondo volume, Proprio stanotte. Le prime pagine, lo ricordo benissimo, mi parvero di una noia ineguagliabile. Raramente avevo letto qualcosa che procedesse più lentamente. Ma non lo faceva in modo forzato o virtuosistico: era tutto molto naturale. Era solo che quella donna aveva quel passo, e non c’era nulla che si potesse fare a riguardo. Mi ricordo che spesso continuavo a leggere pensando ad altro. Mi ritrovavo a girar pagina che a malapena sapevo cosa avevo letto. Eppure giravo pagina. Perché diavolo non smettevo? Un motivo, immediatamente percepibile, c’era: nello scorrere lentissimo di quel fiume, ogni tanto passava una barca. Una frase, una similitudine, un’osservazione minuscola, l’esattezza di un colore, la precisione millimetrica di un aggettivo. E non c’era passaggio di barca, per quanto raro, che non fosse davvero memorabile (in particolare le similitudini, da rimanere a bocca aperta).
Così, per un po’ me ne sono stato ad aspettare il passaggio delle barche, paziente. Poi, pagina dopo pagina, senza accorgermene, ho cominciato a capire il fiume. È durata un po’, e alla fine qualcosa è successo, perché, d’improvviso, ero in quel fiume. Non c’era più lentezza, ma un certo passo del cuore, irrimediabilmente giusto. Quel che prima mi sembrava una collezione sfinente di dettagli inutili adesso mi appariva come il corretto censimento delle cose, il minimo che si debba concedere al miracoloso esistere del mondo. Da lì in poi, è stato tutto facile. Avrebbe anche potuto non finire mai.
Così ho navigato per milleduecento pagine e adesso mi toccherebbe spiegare perché l’ho vissuto come un viaggio struggente (personalmente ritenevo deceduto questo aggettivo decenni fa, ma ora non ne trovo un altro per tradurre in una parola il sound di quel fiume, l’inclinazione di quello sguardo, il tono di voce, la luce). Non so, credo di essere rimasto abbagliato dalla calma con cui quella donna poteva scomporre una sensazione, uno sguardo, un sentimento. La calma silenziosa, mi viene da dire. Ci sono invisibili sfumature dell’esistere, del semplice esistere, che solo i libri sanno pronunciare: ma anche conta molto con che tono lo fanno. Quello della West non lo conoscevo, e probabilmente era quello che ero disposto ad ascoltare, in quel momento. Non sempre vuoi avere il fiato di Céline addosso o spellarti le mani tutto il tempo davanti ai virtuosismi di Proust; ci sono anche i momenti in cui non ti va di ridere alle battute di Salinger o ti viene la nausea all’ennesimo superlativo di Conrad. La West (che io non faccio fatica ad annoverare tra i grandi) aveva un suo modo, nel dissezionare gli umani, che mi ricorda la cautela sapiente con cui si dispongono dei fiori in un vaso. Sembrava annotare le verità dei viventi come se fossero un elegante arredo alla falsità della vita. Non aveva l’aria di voler risolvere o svelare alcunché: le andava di ridisporre le cose, una accanto all’altra, in un modo che ne testimoniasse la vocazione a un senso, e a una qualche bellezza. Nel farlo, non dava mai l’impressione di esibirsi in qualcosa di speciale, né di aspettarsi qualche ammirazione. Disponeva i suoi fiori, parlando intanto d’altro. Di rado ho incontrato un esercizio dell’intelligenza così privo di violenza. Così, nella luce di bagliori lentissimi, molto ho ricevuto di quanto non saprei vedere da solo, imparando una serenità che di solito non mi appartiene e un gusto che non saprei insegnare. L’ho fatto con la lentezza da lei stabilita e adesso gliene sono grato, perché alla fine l’ho appresa, e non di rado mi accade di richiamarla alla memoria, e di abitarla per un po’: cosa che mi è fonte di passeggera, ma nitida, delizia. Riprendo a leggere a caso, passando le dita sugli angoli arrotondati delle pagine, e mai ne resto deluso. Tanto che perfino mi dispiace, un po’, di parlarne oggi a gente che nemmeno incontrerò mai. O magari sì, in modo sotterraneo e indefinibile, tutti a nuotare nello stesso fiume.

Alessandro Baricco

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