Orazio
Carpe diem
Le poesie più belle
A cura di Giovanni Ricciardi
Quasi tutti conoscono almeno un verso di Orazio, il grande poeta latino, uno dei più grandi di tutti i tempi: se non altro, il famosissimo e universale carpe diem.
Pochi hanno avuto invece l’opportunità di leggerlo e goderne, se non sudando sul latino dei banchi di scuola. Ed è un peccato. Raffinatissimo e intenso, antico e moderno al tempo stesso, Orazio continua – a più di duemila anni dalla morte, avvenuta nell’8 a.C. – a far sentire la propria voce, a meditare sulla fuga del tempo, invitando gli uomini a non lasciarsi sfuggire la densità dell’istante, l’attimo da cogliere e vivere in pienezza. Scontroso e irascibile, innamorato della saggezza e del vino, fu uomo solitario, ma credette profondamente nell’amicizia. Amò le donne con passione, ma della passione ebbe sospetto e timore. Non ebbe figli, né eredi, ma scelse di lasciare al mondo l’inconsistenza della parola poetica: «Un monumento più eterno del bronzo, più alto delle piramidi».
Minacciato da quel “male di vivere” che chiamò funestus veternus, cercò sempre un equilibrio interiore che non si lasciasse turbare dalle alterne vicende della vita, ma seppe anche accettare con un sorriso le debolezze proprie e altrui.
La sua poesia insegue la perfezione e l’eleganza assolute, ma spesso i suoi versi raggiungono la vetta ben più ardua della semplicità. Aspira all’eternità, ma esalta la bellezza del momento presente. Vorrebbe pronunciare la parola “speranza”, ma teme che sia un inganno. Non crede agli dèi, e se ne dispiace.
E così Orazio consacra la sua voce a una dimensione intermedia, a quella terra di nessuno che sta nel mezzo, fra il cielo e la terra: nel “non più” degli dèi fuggiti, nel “non ancora” del Dio che viene.
Questo piccolo libro offre una nuova traduzione di trenta componimenti – tra i più belli – scelti tra Epodi, Odi, Epistole. Una traduzione in versi il più possibile fedele al testo oraziano, ma che ne restituisca facilmente il senso, evitando inutili e pesanti arcaismi. Come tutte le traduzioni, non renderà mai appieno la bellezza dell’originale. Per questo conserva il testo latino a fronte. Ma se tradurre è – inevitabilmente – tradire, è l’unico tradimento che si possa consumare per amore.
dalla prefazione di Giovanni Ricciardi
Non indagare – empio saperlo – quale
destino a me, a te, fu stabilito,
Candida Mente, e non mettere mano a
cabale persiane. Quanto meglio
accettare qualunque cosa venga,
se Giove ci ha assegnato molti inverni,
o se questo sia l’ultimo che stanca
su opposti scogli il mar Tirreno: saggia,
filtra il vino, e in breve spazio accorcia
lunga speranza. Ora che noi parliamo,
il tempo, per invidia, è già fuggito.
Sia tuo il frutto del giorno; e lascia andare
la fede che riponi nel domani.