Pahor, un occhio sloveno sulla Resistenza in Carso
E Pahor racconta gli sloveni nella nostra regione
Boris Pahor a 101 anni fonda la scuola letteraria slovena
Così sono scampato a un secolo sadico
Pahor, cinque preghiere ai giovani che verranno
Dalla deportazione ai tre grandi “no”
Pahor l’amore cura le ferite del ricordo
Boris Pahor, cento anni con gli occhi al futuro
“Dopo un secolo disastroso un’Europa senza etica”
Boris Pahor: “Il mio inno all’amore. Così ho vissuto cent’anni”
I cento anni del patriarca sloveno
Un secolo di amore e di battaglie
Il fascismo non è acqua passata
Necropoli,Pahor scava nei drammi della deportazione
L’Italia redenta nel 1918? No, la Storia è un’altra
Là sui monti con Boris Pahor
Favino e la Cavallari alla notte delle stelle
Esodo Istria: polemica Pahor
Trieste. Una cultura di confine
Allo scrittore Boris Pahor il premio Resistenza città di Omegna 2008
Trieste ormai vive nel mito alla periferia dell’Europa
“Necropoli” di Boris Pahor vince a Napoli
Premio Napoli, alla scoperta dei tesori del Rione Sanità
Dopo Saviano, Pahor: la memoria oltre l’orrore
Se un bambino vede i fascisti
La lezione del prof. Pahor
I diavoli col fez che bruciavano i libri
Gli uomini neri armati di bastone
Al borsino dei bestseller tira aria di scandalo
La lezione civile di Pahor
L’autore di Necropoli: “c’è ancora chi nega la cultura degli sloveni”
Testimone del tempo a San Pietro
Pahor: “Ogni giorno che passa ringrazio la vita di essere qui”
Grande festa a Latisana per il premio a Pahor
Boris Pahor testimone dell’orrore
Fate conoscere ai giovani le tragedie del passato
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Boris Pahor e Andrea Filippi in piazza San Marco
PORDENONE. Sembra così piccolo, Boris Pahor, con i suoi 95 anni di dolore e fatica che gli piegano le spalle, là, sul palco di piazzetta San Marco. Avvolto nell’impermeabile chiaro e protetto dal cappello attende, con l’invidiabile serenità dei grandi vecchi, la prima domanda del suo interlocutore, il direttore del Messaggero Veneto Andrea Filippi.
Boris Pahor, il più grande scrittore vivente di lingua slovena, insignito in Francia con la Legion d’Onore, tradotto in molti Paesi e per anni totalmente ignorato dall’Italia. Autore di quell’opera magistrale che è Necropoli, romanzo autobiografico sulla sua prigionia in campo di concentramento, in particolare a Natzweiler-Struthof.
Un grande libro nel quale descrive, perennemente in collegamento tra l’orrore del passato e il disagio del presente, l’incubo della prigionia, le atroci sofferenze della “massa zebrata” dei deportati e allo stesso tempo quel loro sentirsi umanamente mai sconfitti, la voglia di vita mai sopita del tutto. Pagine dense, dalle quali emerge in tutta la sua verità non l’Olocausto – Pahor non appartiene a quella storia – bensì la tragedia dei milioni di deportati di tutta Europa in quanto prigionieri politici, antinazisti, «le cui vicende sono state in parte taciute o misconosciute».
Ma Necropoli ha 42 anni e solo da poco, grazie alla casa editrice Fazi che lo ha ripubblicato in italiano, questo assoluto capolavoro si è fatto conoscere nel nostro Paese. E Boris Pahor ha ottenuto la fama in Italia a un’età in cui molti sono già all’altro mondo. «Dopo essere apparso in televisione sono diventato come la Lollobrigida quando è stata scoperta al bagno senza reggipetto», esclama ridendo, con il suo intercalare triestino.
Ed è da qui che ha inizio la conversazione. Da quel libro colpevolmente ignorato dalle case editrici italiane e che fu pubblicato, la prima volta, nel 1997, soltanto grazie al Consorzio culturale del Monfalconese. Ora è un caso letterario. «Perché il clima è cambiato… Sono caduti i confini, la Slovenia è entrata in Europa, i rapporti tra autori sloveni e italiani si sono fatti amichevoli. Fino a quattro, cinque anni fa un editore italiano, a Trieste, non poteva fare propaganda a un autore sloveno».
Sembra piccolo, Pahor, visto da sotto il palco di pordenonelegge.it, ma è bastato poco per accorgersi quanto sia grande quest’intellettuale che, anche nel momento più buio della sua vicenda umana, si è battuto per affermare la sua identità, «perché non volevo morire come italiano. Non sarebbe stato giusto». Ma Pahor non è morto. Là, nei blocchi del campo, lo ha salvato l’incarico di infermiere. Che gli ha risparmiato il lavoro all’aperto a venti gradi sotto zero, i viaggi nelle gallerie in cui i prigionieri scavavano la pietra.
Non smette più di raccontare, Pahor. Come un fiume in piena e come se ciò che testimonia fosse ancora lì, davanti a suoi occhi, riconduce le risposte all’intervista di Filippi sempre e inesorabilmente alle sofferenze dei suoi compagni, ai morti, affondando la lama in quel senso di colpa che affligge i sopravvissuti. «Con il quale si convive, ma resta».
Oggi, nel mondo in cui i “suoi” deportati «sembrano essere morti per niente» e nel quale la necessaria “unione morale” dell’Europa è ancora tutta da fare, Pahor affida la sua speranza ai giovani, ma chiede alla scuola di aiutarli a non dimenticare quel passato, quella tragedia. E mentre il pubblico, che lo ha appena salutato con un commosso applauso, è già in piedi, Pahor riporta il silenzio e chiede un altro applauso, più forte. «Per quelli che non sono tornati».
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Sopravvissuto ai lager nazisti, domani compie 95 anni e giovedì sera riceverà il Premio Viareggio
TRIESTE È atteso a Viareggio giovedì per ritirare il prestigioso Premio, Boris Pahor, lo scrittore triestino che dopo più di quarant’anni dalla prima pubblicazione di «Necropoli» (1967), ha potuto godere di una diffusione nazionale grazie alla casa editrice Fazi.
E ci ha messo pochi mesi a diventare un caso letterario, riconosciuto da critica e lettori, non solo all’estero, ma anche qui, in Italia, vincendo, tra gli altri, il Premio Viareggio. Pahor è stato custode di verità scomode, come i più grandi, nonostante l’età, nonostante i mali o una legittima stanchezza: «Si è vecchi solo se non si spera più – ci dice convinto – si invecchia quando non si pensa più di poter cambiare le cose». Una tesi da seguire, a constatare lo stato di salute del nostro, che compie 95 anni domani, sostenuti da una vitalità invidiabile.
Sopravvissuto a Dachau, Boris Pahor risulta tra i nomi più accreditati della letteratura europea che regolarmente compare tra i candidati al Nobel, oltre ad aver già meritato l’onorificenza francese della Legion d’onore e il Premio Prešeren. Maestro di una lingua materica e lirica insieme. Da «Primavera difficile» a «Necropoli», per citare solo alcune opere, assistiamo alla scrittura di un unico grande testo, con delle variazioni, sulla possibilità di destrutturare il dolore, sulla necessità di esaminare la questione morale, il diritto identitario, la giustizia e la libertà. Appunto, come sta scritto in «Necropoli»: «Soltanto l’uomo può riordinare il mondo in cui vive e può mutarlo in modo che sia possibile realizzarvi le idee buone piuttosto che quelle cattive…».
Andiamo un po’ controcorrente rispetto ai temi per cui viene giustamente celebrato. Qual è il più bel ricordo della sua vita?
«Sono legati all’infanzia – spiega Boris Pahor -, quando con gli amici andavamo a fare il bagno a Barcola. Costruivamo delle casupole con pietre e latta, prendevamo il sole e ci tuffavamo facendo un gran scompiglio. Forse è la cosa più bella che ho vissuto perché subito dopo sono iniziate le sventure del fascismo e tutto è cambiato».
Lei ha vissuto la Trieste austriaca, italiana, americana, titina. Di questa città qual è il ricordo storico che l’ha più impressionata?
«Sicuramente il fascismo ha rovinato gran parte della mia giovinezza con quel senso di terrore inculcato ancor prima di andare al governo. Nel 1919 iniziarono gli internamenti degli intellettuali sloveni, ma l’anno che ho vissuto più pesantemente è il 1920: la Casa della Cultura in fiamme e il conseguente panico, come se fossimo in un luogo destinato alla paura e senza via di uscita. A causa di questo trauma per molto tempo sono stato spaesato, non riuscivo più a studiare. Sono uscito da questo clima grazie agli amici conosciuti in seminario a Capodistria. Lì ho scoperto la storia e ho iniziato a confrontarmi e a riflettere con persone segnate dalle mie stesse inquietudini».
Ma cosa significa vivere difendendo per molti anni la propria identità?
«Ho iniziato a difenderla proprio a Capodistria. Era inevitabile, eravamo tutti antifascisti, una battaglia per la difesa della propria appartenenza che è durata venticinque anni. La prima salvaguardia è stata intellettuale, approfondendo sui libri la nostra particolare situazione. Quando le cose si sono messe al peggio ho sentito il dovere di attivarmi ideando anche delle riviste scritte in sloveno, in collaborazione con il poeta Edvard Kocbek, questo è stato il primo atto di coraggio».
E poi molti altri. Ora è il momento dei festeggiamenti, il compleanno e il Premio Viareggio. Come attende questi eventi?
«Dopo essere ritornato dal campo di concentramento non ci ho mai più tenuto ai festeggiamenti. Ce ne possiamo andare un giorno prima o un giorno dopo, perché avere a cuore proprio quella data? Ringrazio il cielo di essere rimasto in vita, di poter osservare la natura e vivere l’amore. Quello che mi fa piacere, a proposito del compleanno e del premio, è di riuscire a goderli in un’atmosfera triestina mutata, questa è la vera soddisfazione: vivere in una città dove la mia lingua non è più denigrata. Finalmente, come diceva Slataper, a Trieste esistono due anime, due popoli in un clima di convivenza e di amicizia culturale».
Trieste in un unico aggettivo…
«Europea, nel senso che lo era già prima del ’18. Ha un passato speciale Trieste e spero che ritorni in una sorta di rinascimento».
Pasolini scriveva che per essere poeti bisogna avere molto tempo. Chiedo a lei: per essere narratori invece cosa occorre?
«Bisogna aver vissuto e avere qualcosa da raccontare. Lo scrittore deve narrare l’esistere rispetto alla verità storica e alla verità umana della sua epoca».
Posto che «Necropoli» sia il suo libro più famoso, con quale altro dei suoi romanzi ha un rapporto di altrettanta intimità?
«Sono due romanzi già editi in Francia e di prossima pubblicazione in Italia. “Il fischio della sirena” racconta di una povera ragazza slovena reclusa con le prostitute. Anche in questa storia si parla di resistenza e di organizzazione clandestina. Ma forse il libro che sento molto vicino è “Primavera difficile”, dovrebbe uscire quest’anno per i tipi della Zandonai, ha un taglio autobiografico: il protagonista si salva dal campo di concentramento e ritorna alla vita grazie all’amore. In Italia è già un po’ conosciuto grazie al professor Elvio Guagnini che l’ha presentato anche qui a Trieste. Molte sono le persone che mi hanno sostenuto e se possibile vorrei ricordare anche Ferruccio Fölkel, Fabio Cusin, Alessandro Mezzena Lona, Paolo Rumiz».
Quali regali si aspetta per i suoi 95 anni e quali regali sa che non giungeranno anche se ci terrebbe moltissimo?
«Non attendo alcun regalo, non è nella mia natura. Ma ecco, forse vorrei questo: scrivere cento pagine sulla Trieste della mia gioventù, mi piacerebbe sintetizzare l’ambiente delle novelle de “Il rogo nel porto” in un’unica opera, non so però se mi riuscirà, a questo dono ci terrei molto».
E questo terzo millennio?
«Avrebbe bisogno di menti sagge che riescano a riscattare la nostra vita dalla violenza, ma sono scettico. Temo che se continueremo a seguire gli Stati Uniti, se continueremo a sostenere una democrazia imposta con la violenza, c’è poco da aver fiducia. E lo stesso vale per l’Est e per la grande incognita della Cina. Non sono difensore di nessuna autorità, continuo a sperare, ma ho paura che stenti a decollare una saggezza universale».
Sandor Márai ha scritto che si è davvero vecchi quando restano solo i ricordi e la vanità di tutte le cose. Quando si invecchia?
«Si è vecchi quando non si spera più, quando non percepiamo più la possibilità di creare un cambiamento per un futuro migliore».
Insomma, il suo sarà un bellissimo e giovane compleanno…
«Fin che potrò voglio difendere coloro che cercano di trovare in qualche maniera una via d’uscita dal dolore, da quello che è stata la loro vita. E la vita, per molti, è stata la distruzione del corpo umano, come se fosse carta straccia, polvere, spazzatura. Bisogna continuare a combattere contro l’annichilimento, è necessario avere rispetto del corpo altrui».
I libri più richiesti della settimana
Necropoli
Mangialibri.com
Boris Pahor
Traduzione Ezio Martin
Fazi 2008
Aldilà del filo spinato c’è il mondo dei vivi, aldiqua la Necropoli, la città fatta di morti che camminano. Boris Pahor, partigiano triestino appartenente al fronte di Liberazione Nazionale Sloveno, vive da “politico” l’esperienza del lager, prima a Dachau e infine – dopo altri passaggi – a Bergen Belsen, dove viene liberato dagli Alleati. Boris Pahor è un testimone che racconta il “buco nero” della sua biografia sollecitato da una visita al lager che lo ha visto tra gli internati. Siamo alla fine degli anni ’60, e la cicatrice legata alla Shoah è ancora dolente. Boris ascolta la guida, un serioso vecchietto con un bastone, che descrive ai visitatori l’orrore del campo come si spiega il Cenacolo di Leonardo ad un gruppo di turisti in gita; i ricordi allora vengono a galla e il flusso della memoria si apre inaspettatamente. Il piazzale dell’appello, le baracche fredde ed affollate, la ciminiera del crematorio che fuma ininterrottamente e che ingoia i corpi e le anime dei prigionieri. Pahor, spettatore attonito di tanta malvagità, riesce, dopo aver conosciuto la miniera e la fabbrica, ad ottenere, grazie alle simpatie di un medico – internato anche lui – un posto in infermeria ad incidere piaghe, combattere la dissenteria e contagiarsi ogni giorno irrimediabilmente di un morbo mortale che resiste al Tempo ed alla Storia…
Boris Pahor è uno dei sopravvissuti alla Shoah. Scrittore sensibile e acuto, racconta in modo asciutto e sincero l’inferno che ha vissuto e dal quale non può ritornare. Oltre alle descrizioni di suoni ed immagini che hanno fatto entrare il campo di concentramento nella memoria collettiva e non solo di quella dei sopravvissuti, come la ruvida e cenciosa divisa rigata, le urla delle guardie tedesche, il piazzale dell’appello, il suono dei cucchiai nelle gamelle, c’è in Pahor una capacità di descrivere quello che si agita nella mente e nel cuore di un uomo ridotto ad un fantoccio dalla crudeltà di altri uomini. Ho letto molto in passato sullo sterminio degli ebrei: da Primo Levi a Vincenzo Pappalettera, da Christian Bernadac a Simon Wiesenthal, ma mai nessun autore era riuscito a trasmettermi in modo così vivido il senso di annientamento del corpo nel lager, un involucro fetido e purulento senza più niente di umano, ma soprattutto a fare luce su quei perversi meccanismi mentali (l’egoismo primo su tutti) legati ad una esperienza così brutale e totalizzante. Dinamiche psicologiche delle quali vergognarsi in situazioni di normalità che rendevano vittime e carnefici attori della stessa tragedia: gli uni in balia dei loro istinti primordiali, gli altri impegnati in un annientamento “scientifico” che senza limitarsi alla semplice uccisone ammantava il tutto di un sadismo perverso (un esempio su tutti la scritta “Il lavoro rende liberi” all’ingresso del campo) che sapeva di macabra “rirualità”. Da adolescente qualche volta mi capitava, dopo aver posato l’ennesimo libro sulla Shoah sopra il mio comodino, di non riuscire ad addormentarmi. Avevo paura che chiudendo gli occhi ci fosse il rischio che dalla mia camera ovattata potessi essere catapultata in una baracca di legno, vestita di una divisa a strisce e circondata da una babele di volti smagriti. L’Olocausto penso sia stato proprio questo: un incubo che gli uomini hanno voluto rendere reale nella notte più buia della Storia. [francesca de meis]
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Ieri è stato attribuito a Boris Pahor il Premio Viareggio Versilia. Dopo quarant’anni di silenzio, l’Italia riconosce allo scrittore sloveno-triestino il valore letterario e sociale della sua attività intellettuale.
Pubblicato all’estero, insignito della Legione d’Onore francese e più volte candidato al Nobel per la letteratura, Pahor è rimasto sconosciuto in patria per più di quarant’anni. Il suo capolavoro, “Necropoli”, pubblicato per la Fazi Editore, è una drammatica testimonianza delle deportazioni nei lager nazisti.
Questo riconoscimento, assegnato a personalità di fama che abbiano speso la propria vita per il progresso sociale, la pace e l’intesa fra i popoli, è un atto dovuto ad una personalità per lungo tempo dimenticata dal panorama letterario italiano.
La notorietà, raggiunta solo a 95 anni nel paese in cui vive da sempre, non può non far riflettere. Perchè tutti questi anni di silenzio nonostante i riconoscimenti all’estero? E’ amaro pensare che opere di valore siano potute passare senza lasciare traccia.
Fonte |
Ansa
Un uomo vivo nella città dei morti, il sopravvissuto e il lager nazista
Uno scrittore capace di emozionare
L’infermiere dei morti
Romanoir.it
Quando arriva nel campo di concentramento di Natzweiler-Struthof, l’io narrante di Necropoli è già un deportato. Triestino sloveno internato per antifascismo, Boris Pahor – scrittore e protagonista di questo memoir – ha già visto la propria fiducia nel mondo stracciata e incendiata in patria. L’incubo nazista ha infatti distrutto la vita di questo giovane speranzoso anni prima con l’incendio del Teatro sloveno di Trieste, intorno al quale i tedeschi ballavano come streghe a un sabbah. Ancora, come lo stesso Pahor racconta nel racconto La farfalla sull’attaccapanni, un altro rogo, questa volta del cervello e del cuore, aveva fatto brillare la fiducia degli sloveni come una bomba di potenza inaudita: il divieto di parlare la propria lingua nella propria terra. Diventai un negro, scrive Pahor in Necropoli, e mi accorsi che negare la lingua natia è una delle torture più terribili, perché la lingua è una componente fondamentale della fiducia, dell’amore per sé stessi.
Quando il giovane Boris indossa la camicia a strisce, gli zoccoli e il freddo pungente dei Vosgi, allora, è già un prigioniero che si nega categoricamente per tutta la prigionia qualsiasi pensiero rivolto al mondo dei vivi. Chi pensa alla vita, chi sfida la morte, muore, si ripete Pahor. Bisogna abituarsi al “mondo crematorio” del lager, vivere solo nel qui e ora. Sembra un film dell’orrore: chi sfida il mostro, il mostro l’uccide. Invece, no. È un memoir.
Pubblicato per la prima volta nel 1967, Necropoli ha dovuto attendere 41 anni per sbarcare in Italia, la terra in cui è nato Pahor, ora novantenne, grande scrittore classe 1913, che per il suo lavoro è stato più volte candidato al Premio Nobel, insignito del massimo riconoscimento sloveno, il premio Prešeren, nominato in Francia Officier de l’Ordre des Arts e des Lettres, e fregiato della Legion d’Onore dal presidente della Repubblica francese nel 2007. Appena pubblicato nel nostro Paese, Necropoli è divenuto un caso letterario, di struggente attualità persino rispetto alle vicende degli ultimi giorni, a testimonianza, come diceva Calvino, che un classico non invecchia mai, e sa regalare sempre nuovi significati.
Si svolge su due piani temporali paralleli, il memoir di Pahor. Nel primo, sono gli anni Sessanta, e Pahor ritorna in incognito nel lager dove ha vissuto sino alla Liberazione, mescolandosi ad altri turisti della memoria, ma rimanendo sempre un po’ distaccato dal gruppo. Indossa dei comodi sandali. Nel secondo sono gli anni Quaranta. Pahor riesce a scampare la morte grazie a uno sloveno che lo assolda come infermiere nel lager e, impersonando le vesti di cerbero della morte degli altri, anche se un cerbero compassionevole, si salva. Indossa zoccoli che feriscono la carne gonfia nell’inverno terribile dei Vosgi, ma che soprattutto ossessionano con il loro rumore caratteristico e ossessivo gli incubi del sopravvissuto Boris. La penna di Pahor si sposta di continuo tra i due piani temporali, in una serie infinita di illuminazioni proustiane, però orrorifiche, che creano incessanti rimandi tra passato e presente. Eppure, non prevale l’orrore, il senso di colpa per essere vivo, l’umiliazione, l’odio panico. Pur presenti, questi sentimenti sono scalzati da una profonda speranza. Una coppia di amanti che si bacia poco lontano dal forno crematorio. Bambini che giocano. Una vecchia guida con la barba. La notte, gli adolescenti che scoprono l’amore in un campeggio ridente.
La vita vince.
Imbracciato il coraggio alla ricerca di una catarsi dolorosissima che ha bisogno di partire dall’inferno più profondo, di ricordare nel dettaglio i mucchietti di ossa imbracate in casacche a strisce – i reclusi del lager –, la vita cosparsa di dissenteria e di flemmoni, la notte dei minatori in cui la paura ruggisce come una piovra enorme, i tedeschi che abbaiano una lingua capace solo di uccidere e urlare, il forno crematorio ghignante e onnipresente, Pahor sboccia in un presente nuovo, in cui ha voglia di credere. Con una fiducia e un sorriso che oggi, adesso, qui, possono insegnare il cammino anche a noi.
(pubblicato su www.romanoir.it il 04.06.2008)
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PREMIATI A TRIESTE I VINCITORI DEL CONCORSO INTERNAZIONALE “TRIESTE SCRITTURE DI FRONTIERA”
Agenziaaise.it
TRIESTE aise – Lo scrittore sloveno-triestino Boris Pahor, già acclamato a livello internazionale e più volte candidato al Nobel, è stato insignito del Premio alla Carriera alla decima edizione del Concorso Internazionale “Trieste Scritture di Frontiera”, promosso dall’Associazione Altamarea.
La premiazione si è svolta la sera di sabato, 24 maggio, in una cerimonia presso il Caffè San Marco di Trieste, alla presenza della presidente della Provincia di Trieste, Maria Teresa Bassa Poropat, rappresentanti della cultura e delle istituzioni. Le motivazioni del premio sono state illustrate dal presidente della Giuria, il saggista e slavista Predrag Matvejevic.
Pahor, 95enne scrittore di lingua slovena, è già stato tradotto in più lingue e insignito di importanti riconoscimenti all’estero, tra i quali il Premio Prešeren in Slovenia e la Legion d’Onore in Francia, ma era rimasto finora quasi sconosciuto in Italia, causa le poche traduzioni in italiano dei suoi libri, spesso a tiratura limitata. La recente ripubblicazione per Fazi Editore del suo capolavoro “Necropoli”, drammatica testimonianza della deportazione nei lager nazisti, lo ha infine portato alla notorietà anche nel Paese in cui Boris Pahor da sempre vive.
Vari altri premi sono assegnati in questa decima edizione del concorso “Trieste Scritture di frontiera”, che si avvale della collaborazione degli assessorati alla Cultura della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e della Provincia di Trieste, delle Cooperative Operaie di Trieste, Istria e Friuli, e del supporto di numerose altre realtà locali.
Il Primo premio per la narrativa, attribuito con la collaborazione del Pen Club Trieste, è stato assegnato al giornalista e scrittore Pietro Spirito, di Trieste, per il suo “Un corpo sul fondo”, edito da Guanda. Autore di vari altri libri e già finalista al Premio Strega, Spirito ha scritto un’efficace docu-fiction, che si sviluppa a partire da un’esperienza autobiografica riguardo un sommergibile affondato in Istria durante la seconda guerra mondiale.
Il Primo premio per la poesia è andato invece alla poetessa e saggista d’origine sarda Antonella Anedda, rinomata a livello europeo e residente a Roma. Il premio, attribuito con la collaborazione con il Circolo di Trieste dell’associazione regionale dei Circoli Sardi del Friuli Venezia Giulia, le è stato assegnato per la recente pubblicazione presso la prestigiosa collana “Lo specchio” di Mondadori del volume di poesie “Dal balcone del corpo”.
Il premio Poesia giovane è andato al genovese Massimo Dagnino, apprezzato autore e traduttore di poesie, per il volume “Presente continuo” (Edizioni Stampa), mentre quello per la poesia inedita d’autore alla slovena Maja Vidmar, al suo esordio in Italia ma già affermata nel centro Europa, per la sua silloge tradotta in italiano da Jolka Milic.
Per la sezione “Giuliani nel mondo”, realizzata in collaborazione con l’omonima associazione d’emigrazione, il Premio è stato attribuito al poeta e letterato Diego Bastianutti, esule italiano da Fiume e residente a Vancouver, in Canada, per l’autobiografico “Per un pugno di terra”, pubblicato nel 2006 da Zeisciu Centro Studi Editore di Milano.
Per la traduzione letteraria, premio ex-aequo al saggista, poeta e traduttore Giacomo Scotti, uno degli intellettuali di punta della comunità italiana di Fiume, in Croazia, e al poeta, traduttore e filologo serbo residente a Zagabria Sinan Gudževic. Scotti è stato premiato per la traduzione di “Racconti dalla Bosnia” (Edizioni Diabasis), un excursus nella narrativa bosniaco-erzegovese moderna e contemporanea, ove si mescolano Oriente ed Occidente, e Gudževic per “Epigrammi Romani” (Multimedia Edizioni), volume di cui è autore e traduttore, tramite il quale l’Italia può apprezzare la sua raffinata poesia, in cui si fondono cultura contemporanea e antica.
Due poi i Premi speciali della Giuria: alla regista e sceneggiatrice napoletana Laura Angiulli, per il suo toccante documentario sui postumi della guerra nell’ex Jugoslavia “Tempo del dopo – le città martiri: Sarajevo, Srebrenica, Mostar”, giudicato dal saggista bosniaco Predrag Matvejevic “un vero capolavoro”, e al triestino Vincenzo Mercante per il saggio “I Sefarditi: saggi ministri di califfi e re” (edito da Alinari), a coronamento di una sua attività tesa a favorire il dialogo interculturale e interconfessionale.
La giuria del Concorso “Trieste scritture di frontiera” ha inoltre inteso assegnare delle menzioni speciali ad altri partecipanti: per la Poesia dialettale alla triestina Graziella Semacchi Glubich, per “Sui scoi de la veciaia” (Ibiskos editrice Risolo); per la Poesia a Luigi Raimondi di Udine per “Incredibili storie” (ed. Paola Tavoschi), a Valeria Ferraro di Venezia per la silloge “Il vino rovesciato” (Pietro Manni Edizioni); a Giovanni Cristianini di Gorizia per “Versi ritrovati” (Florensart edizioni); a Vlada Acquavita di Buie d’Istria, in Croazia, per “Herbarium mysticum – Clausole medioevali” (edizioni Edit, Fiume); a Marco Marangoni di San Vito al Tagliamento per la silloge “Per quale avventura” (Raffaelli Editore); e alla goriziana residente in Friuli Rosinella Celeste Lucas per “Bora e Scirocco” (I libri del Litorale).
Due, infine, le menzioni speciali per la narrativa: a Sandro Manoni di Venezia per “L’isola delle lusinghe” e a Massimiliano Forza di Trieste per “No family day”. (aise)
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Boris Pahor, il rovescio delle foibe
Necropoli – Boris Pahor
È tornato dopo venti anni nel campo di concentramento nei Vosgi dove è stato internato, Boris Pahor, triestino classe 1913, e lo racconta nel suo romanzo, Necropoli. Era stato interprete e poi infermiere nei campi della morte, impotente di fronte alla devastazione dei corpi, alle umiliazioni. E al forno crematorio. Tornare in visita è un privilegio non disgiunto da un senso di colpa, dal rimorso di essere sopravvissuto. Pahor trasmette l’orrore dello sterminio di massa con una prosa intrisa di poesia, quasi a smorzare l’impatto col male. E di fronte alla commozione che lo assale man mano che fissa i ricordi, crea una forma di difesa cercando di oggettivare, come allora, “per non permettere ai sentimenti di penetrare fino al nocciolo in cui si era concentrato l’istinto di sopravvivenza”. Se l’inferno esiste, non può essere che questo. C’è solo la speranza fino all’ultimo nelle capacità umane di sopportare, in nome della vita. Non la consolazione della fede, per l’assenza della pietà divina su tanto scempio. Assenza che purtroppo si protrae. Genere letterario che ha avuto testimonianze indimenticabili, Necropoli è una testimonianza ulteriore che rende omaggio anche agli altri, i non ebrei, destinati all’estinzione dal progetto nazista, insieme a tutti i condannati politici.
Marisa Cecchetti
Boris Pahor, Necropoli, Fazi 2008
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Vive La France mentre Pahor incombe sullo Strega
“I consigli di Atlantide”: Necropoli di Boris Pahor (Fazi)
Boris Pahor – Necropoli
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Bookavenue.it
Necropoli e` il racconto struggente dei mesi di prigionia trascorsi da Pahor nel campo di concentramento di Natzweiler-Struthof sui Vosgi, dove fu mandato dalla Gestapo perche` appartenente alla Resistenza slovena. L’occasione del racconto nasce da una visita che lo scrittore compie anni dopo nei luoghi della sua prigionia: una sorta di doloroso pellegrinaggio che da` inizio al flusso della memoria. Compaiono cosi` le immagini indelebili di quei giorni in balia del Male assoluto: i volti, i nomi, le storie dei compagni, gli episodi di straordinaria generosita` umana e quelli di infinita degradazione, il lavoro svolto come infermiere, i carcerieri, il freddo, la neve, la fame, i forni, la morte nell’aria.
Un libro bellissimo, costruito e scritto magistralmente, colmo di sofferenza eppure illuminato dalla straordinaria vitalita` di Pahor, che da quella esperienza e` uscito terribilmente segnato ma miracolosamente ancora integro.
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La Slovenia di Boris
Da sempre cantore della minoranza slovena in Italia, il candidato al nobel Pahor continua a scrivere nonostante i suoi 90 anni. in questa intervista ricorda gli anni duri del nazionalismo fascista, parla della sua nuova opera e delle prospettive di un’Europa unita..
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Boris Pahor è nato a Trieste nel 1913, città in cui ancora oggi vive e scrive. Laureatosi in Lettere all’Università di Padova si è dedicato all’insegnamento e alla scrittura. Ha pubblicato moltissimo, e i suoi scritti sono stati tradotti dallo sloveno in francese, inglese, tedesco e perfino in esperanto, ma in lingua italiana sono stati editi solamente “Necropoli”, Consorzio culturale del monfalconese, Begliano 1997, “Il rogo nel porto”, Nicolodi, Rovereto 2001 e “La villa sul lago”, Nicolodi, Rovereto 2002. Per l’autorevolezza della sua voce e il valore della sua produzione letteraria è attualmente membro dell’Accademia di Scienze, lettere e arti di Lubiana e vice-presidente dell’Associazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minoritarie. È redattore e direttore della rivista “Zaliv” (il Golfo), che ha sempre dimostrato forte impegno per la tutela della minoranza slovena e per il processo della democratizzazione della Slovenia. È tra gli scrittori candidati al premio Nobel per la Letteratura.
Una bambina di origine slovena in una scuola di Trieste. Anno secondo della rivoluzione fascista. Lei che si ostina a esprimersi nella sua lingua, il maestro che impone la legge del nazionalismo a tutti i costi. E per punizione la piccola alunna che viene appesa per le trecce a un attaccapanni. Boris Pahor è il cantore di questa atroce novella, “La farfalla sull’attaccapanni”, ed è il paradigma di tante altre atrocità, grandi e piccole, di cui è stato testimone, suo malgrado, e che costituiscono la trama di una prolifica vena letteraria che ancora non si è estinta, visto che l’autore continua a scrivere, a produrre, a studiare, nonostante i suoi 90 anni.
«Hanno detto di me che Pahor è tutto memoria del campo di concentramento o voce della minoranza slovena – dice -. Ma non è così. È un’affermazione riduttiva. Il valore etico che anima la mia scrittura è l’insofferenza per la non libertà, di qualunque genere essa sia». Sloveno triestino, Pahor resta ancora quasi del tutto sconosciuto all’editoria e al mondo intellettuale italiano. È appena rientrato da St. Malo, dove ha partecipato a tavole rotonde, discutendo di letteratura, di appartenenza, di lingue minoritarie, di libertà negate. «A St. Malo ho parlato del fascismo, di quello che ha fatto. Dei suoi tanti crimini che sono spesso stati sottaciuti. E questo per non dare troppa materia al comunismo, che in Italia era davvero forte dopo la seconda guerra mondiale. Per questo hanno preferito che non si raccontasse mai la verità su quello che i fascisti hanno fatto qui a Trieste, in Slovenia, in Croazia. E non parlo della guerra, ma del periodo tra le due guerre mondiali. Ci hanno annientati. Ci hanno trattato peggio degli schiavi neri. Quelli, almeno, parlavano la loro lingua, mantenevano le loro tradizioni. A noi hanno negato tutto: la lingua, la cultura, l’identità. Se parlavi in sloveno per strada a Trieste in quegli anni rischiavi che qualcuno ti allungasse uno schiaffo!»
Un tempo Trieste era orgogliosa delle sue molte anime…
No, a Trieste non è mai interessato un granché delle sue anime. Ci credevano gli intellettuali come Svevo e Joyce. Ma a Trieste Svevo e Joyce non sono mai piaciuti davvero. Certo la città aveva un nome all’estero. Qui i bastimenti andavano e venivano da ogni parte del mondo. E i commercianti sapevano bene che passare all’Italia avrebbe significato la morte di tutto questo. Eppure gli irredentisti andavano dicendo: cresca l’erba nel porto, ma vogliamo Trieste italiana! Così noi sloveni e croati abbiamo dovuto soccombere. Le nostre etnie, o per meglio dire le nostre nazioni, sono state immolate ai sacri confini della regione orientale. L’Istria era a maggioranza croata, c’è poco da fare. C’erano gli italiani sulla costa, nessuno dice di no. Ma l’interno dell’Istria era ed è croato. Noi in quegli anni abbiamo pagato l’imperialismo interno dell’Italia, lo stesso che si è espresso all’estero sui Balcani o sulla Libia, lo stesso che Bretoni, Provenzali e Alsaziani hanno dovuto soffrire in Francia, o i Catalani sotto il regime di Franco.
Ma come è cominciata a Trieste la persecuzione?
Già nel 1920. In quell’anno vennero dati alle fiamme tre centri di cultura sloveni, uno a Trieste città, uno a Barcola e uno a San Giovanni, assieme a molti studi di nostri avvocati, a tipografie, teatri. Ma l’incendio dei centri culturali è stato un atto molto forte, perché noi sloveni siamo sempre stati legati ai nostri centri di cultura. In ogni borgo, per quanto piccolo, sorge anche oggi una kulturni dom. È questa consapevolezza della nostra identità che ci ha aiutato a sopravvivere nei secoli. Nel ‘30, a dieci anni dall’incendio, Francesco Giunta, uno dei fondatori delle squadre d’azione triestine, celebrò in un libro l’evento come la prova che la rivoluzione fascista era nata proprio a Trieste.
Che impressione le resta di quei giorni?
Ho personalmente vissuto la distruzione del teatro di San Giacomo. Era la festa di San Nicolò e il Santo, accompagnato da diavoli, distribuiva piccoli regali ai bambini. Poi sono arrivati i diavoli veri, quelli con il fez e i manganelli. Avevo 7 anni. Ero lì con mio padre e le mie due sorelline. Hanno gettato tutto dalle finestre, appiccato il fuoco. Era un teatro coi fiocchi. La città è rimasta neutra. Ha assistito senza esprimere alcun parere.
Che clima c’era in casa sua?
Mio padre bestemmiava, mia mamma piangeva. E poi piangeva anche perché mio padre bestemmiava. Era un uomo buonissimo mio padre, ma quando si scaldava… Vendeva burro, miele e ricotta a Ponterosso. Un mestiere molto duro. D’inverno rischiavi che la bora buttasse tutto in canale. C’era tanto freddo che mio padre si metteva un giornale sotto la giacca, per proteggersi in qualche modo dal gelo. E d’estate invece il burro si scioglieva per il gran calore. Pensi che sotto l’Austria era fotografo della polizia scientifica. Poi il nuovo governo italiano pensò bene di allontanare tutti gli amministrativi e lo trasferirono in Sicilia. Ma mio padre preferì mettersi in pensione. E per vivere andò ad aiutare mio nonno su questo banco a Ponterosso. Era tenace, ci teneva alla sua identità. Volle che sulla tomba di famiglia, in cimitero, ci fosse una croce con su scritto Drusina Pahor, famiglia Pahor, in sloveno. In quegli anni cambiavano i nomi anche ai morti. Ma quella croce è rimasta lì. Chissà, forse perché non eravamo importanti, non ci conosceva nessuno e così nemmeno la notarono.
Lei allora era un ragazzino…
Ho vissuto malissimo quegli anni. Il passaggio alla classe quinta elementare è stato drammatico. Dopo quattro anni di scuola in sloveno dover diventare improvvisamente italiano, è stato un disastro completo. Ovviamente andavo malissimo a scuola. E mio padre lo visse come un fallimento personale. Tanto che qualcuno suggerì in famiglia di farmi entrare in seminario. Fui mandato a Capodistria. Una città istriana, ma abitata da lattaie e contadine croate e slovene, come Gorizia, come Trieste. E qui ho incontrato moltissimi altri giovani croati e sloveni, come me. Sono stati anni importantissimi. Ho preso coscienza di me stesso. Mi sono ricostruito psicologicamente. Ma non era certo la mia strada, quella del seminario. Così dopo altri due anni di teologia sono uscito e appena fuori mi hanno arruolato: era la Campagna di Libia. Un’esperienza strana. Facevo il militare per una nazione che voleva annullare la mia identità. Ho combattuto per quella nazione e ho guadagnato anche due medaglie.
È una situazione paradossale…
Ma ero contento, in un certo senso, di essere lontano dal groviglio triestino. Il deserto, poi, mi suggeriva una vastezza di orizzonti che non avevo mai potuto vivere prima. E gli arabi: li sentivo a me molto vicini, una nazione oppressa dall’Italia, come lo era anche la mia nazione. Dall’esperienza di quegli anni è nato un libro: “Nomadi senza oasi”. E poi in Libia ho potuto prendere il diploma di maturità classica, al liceo Carducci di Bengasi. Mi ero portato dietro tutti i libri che potevo, infilandoli in ogni tasca disponibile. Il mio comandante non mi poteva sopportare. Era uno che aveva combattuto in Spagna per Franco e dal momento che io non mi interessavo proprio ai suoi cannoni, mi aveva fatto lasciare gran parte dei miei libri a Tripoli per ripicca. È stata una specie di riscatto. Dei 35 ufficiali italiani che hanno sostenuto l’esame ne sono stati promossi soltanto sei. E tra quelli, l’unico 8 in italiano è stato il mio, quello di Boris Pahor, sloveno triestino!
Poi l’esperienza del campo di concentramento, da cui nasce il romanzo Necropoli.
Le mie simpatie per i partigiani erano evidenti. Assieme ad altri avevo costituito nel 1944 un comitato triestino di opposizione ai nazifascisti. Ma una settimana dopo ero già nelle loro mani. Trovarono in casa mia dei documenti compromettenti. Avevo scritto da qualche parte che i nazisti si sarebbero rotti la testa sulle scogliere di Trieste. Questo è bastato. Era il 28 febbraio del 1944. Assieme a me sono partiti altri 600 disgraziati.
Ma la sua voce è sempre stata pronta a condannare ogni tipo di non libertà.
La mia letteratura si è sempre interessata alle storie semplici della povera gente. La mia poetica è e resterà l’insofferenza per la mancanza di libertà. Sono stato sempre un non allineato. Per questo non ho mai riscosso grandi simpatie, né da una parte né dall’altra. La lotta di liberazione partigiana è stata pluralistica, animata da un fortissimo valore etico: comunisti, liberali e cristiano sociali hanno lottato assieme per la libertà. Poi le cose sono cambiate. Pensi a quello che è accaduto a Edvard Kocbek: un cristiano sociale che ha combattuto assieme a Tito, un intellettuale di grande levatura e apertura culturale, autore tra l’altro di un libro importantissimo e non adeguatamente valorizzato, La Compagnia (ed. Cseo, Bologna 1979, ndr), che andrebbe rivalutato; uno che è diventato vicepresidente del Parlamento iugoslavo. È stato liquidato politicamente perché non allineato con le scelte della Iugoslavia di allora. E gli eccidi compiuti nel ’45 contro gente disarmata non possono essere considerati lotta di liberazione ! Io non potevo non pronunciarmi su tutto questo. Per questo la mia è ancora oggi considerata una voce scomoda.
E poi la fine della guerra e il ritorno a casa.
E ancora il dramma della non libertà: in quegli anni Trieste, oltre a Berlino, è il luogo in cui si è giocato con maggiore ferocia lo scontro tra Oriente e Occidente. Due delle opere che compongono la mia trilogia, come l’hanno chiamata i critici, “Labirinto” e “Primavera difficile” (la terza è “Oscuramento”; nessuna è stata tradotta in italiano, ndr), sono ambientate in quegli anni così difficili. Si parla di un amore contrastato, della tubercolosi contratta dal protagonista, delle difficoltà di adattamento di un ex deportato.
L’Europa unita permetterà di abbattere queste barriere?
Il Presidente della Repubblica slovena mi ha invitato a partecipare alla celebrazione della festa dell’Indipendenza della Repubblica, il 25 giugno scorso. Ma non ci sono andato perché la comunicazione mi è giunta troppo tardi. La lettera ci ha messo 7 giorni per arrivare da Lubiana a Trieste. Sette giorni per attraversare una distanza di 60 chilometri. Come vede l’Europa dei confini resta.
La Slovenia, cosa potrà portare all’Europa?
Per prima cosa l’esempio di come si possa restare fedeli alla propria identità senza armate, senza generali e senza ammiragli. Un’identità basata sulla cultura. E questo gli sloveni hanno imparato a farlo sopravvivendo a una storia che da sempre ha cercato di assorbirli, di omologarli: prima la germanizzazione dell’Impero asburgico, poi il fascismo e l’italianizzazione forzata e infine gli anni iugoslavi, serbizzanti, orientalizzanti. L’internazionalismo di Tito è sempre stato contrario alla salvaguardia delle identità nazionali. Una posizione molto lontana da quella del Partito comunista italiano, che appunto è sempre stato fiero della sua identità nazionale: prima comunisti ma poi anche italiani. E poi la Slovenia ha una grande tradizione letteraria.
Lei continua a scrivere…
L’ultimo libro che ho scritto si intitola “Zibelka sveta”, “La culla del mondo”, che in Francia è stato edito da Le Rocher nel 2002. È la storia di un incesto perpetrato per anni da un padre sulla propria figlia. La protagonista si innamorerà di un sessantenne sopravvissuto ai campi di sterminio. E i loro dolori, le loro prigionie, così diverse ma tanto simili, si incontreranno nella ricerca di se stessi attraverso un sentimento molto forte che dalla conoscenza passa alla convivenza, quindi alla comprensione per sbocciare infine nell’amore. La donna è la culla del mondo. |
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PAHOR, LA COLPA DI ESSERE SOPRAVVISSUTO
Lapolis.it
PAHOR, LA COLPA DI ESSERE SOPRAVVISSUTO
di Claudio MagrisDurante una visita al Lager di Natzweiler-Struthof, nel quale molti anni prima si era trovato faccia a faccia con l’ orrore e l’ abiezione più inconcepibili della nostra storia, Boris Pahor osserva un carpentiere che sostituisce – nel campo che è ora un luogo di memoria e di pellegrinaggio per ex deportati come lui e per turisti dell’ anima più o meno realmente consapevoli di ciò che stanno vedendo – alcune assi marcite di una baracca dove un tempo avevano vissuto (se in tal caso è lecito usare questo verbo) i prigionieri. «Il mio animo – scrive – si ribellava a quelle toppe bianche frammiste alle assi annerite, dilavate e consunte; non tanto per il colore, perché sapevo che quell’ operaio avrebbe ridipinto le nuove assi rendendole uguali alle vecchie; semplicemente non potevo sopportare la presenza di quei pezzi di legno grezzo piallato di recente. Era come se qualcuno cercasse di inoculare cellule fresche e viventi in un putridume morto, come se qualcuno innestasse una gamba bianca in un mucchio di mummie annerite e appiattite. Ero per l’ intangibilità della dannazione. Ebbene, ora non riesco più a distinguere i pezzi aggiunti; il male ha fagocitato le nuove cellule impregnandole col suo putrido succo». «Sono ingiusto, lo so», dice Pahor con l’ oggettività classica del grande scrittore. Necropoli, annoverato da decenni fra i capolavori della letteratura dello sterminio, è un libro eccezionale, che riesce a fondere l’ assoluto dell’ orrore – sempre qui e ora, presente e bruciante, eterno davanti a Dio – con la complessità della storia, la relatività delle situazioni e i limiti dell’ intelligenza e della comprensione umana. I turisti che visitano il Lager, la guida che si guadagna il pane illustrandolo (mostrando ad esempio un tavolo di dissezione sul quale un professore universitario di Strasburgo effettuava vivisezioni e prove batteriologiche sui deportati, specialmente ma non soltanto zingari) o due innamorati che si baciano davanti al reticolato turbano il sopravvissuto in modo stridente. Ma – con la sua classica capacità di afferrare la totalità – Pahor subito dice a se stesso «che è puerile voler trasferire questi due innamorati nel mondo di una volta. Come non avrebbe senso chiedersi a chi, allora, sarebbe mai venuto in mente che un giorno qui avrebbero passeggiato coppiette innamorate. Noi eravamo immersi in una totalità apocalittica, nella dimensione del nulla; quei due invece galleggiano nella vastità dell’ amore, che è altrettanto infinito, e che altrettanto incomprensibilmente signoreggia sulle cose, le esclude o le esalta». Con questo grande libro Pahor affronta il tortuoso incubo della colpa (quantomeno sentita come tale) del sopravvissuto, di chi è tornato; incubo che tanto sembra aver pesato sul grandissimo Primo Levi, quando diceva che chi è tornato non ha visto veramente a fondo la Gorgone e chi l’ ha vista non è tornato. (…) Necropoli è un ritratto a pieno campo e allo stesso tempo stringato – mai patetico – della vita (della non-vita, della morte) nel Lager. Un possente afflato umano coesiste con una nitida e fredda precisione, in una perfetta struttura narrativa che interseca il racconto del passato – della prigionia, rivissuta nel perenne presente dell’ orrore – e il resoconto del presente, della rivisitazione molti anni dopo di quegli inferni bonificati e divenuti museo e memento di se stessi, non senza le ambiguità implicite in questo sempre incerto superamento ufficiale del passato. Necropoli è un’ opera magistrale (se è lecito usare giudizi estetici per una testimonianza del male assoluto) anche per la sua limpida sapienza strutturale, per l’ intrecciarsi di tempi – verbali ed esistenziali – che intessono il racconto. In un libro in cui non c’ è la minima sbavatura vi sono momenti particolarmente indimenticabili: le sequenze cinematografiche della collettiva («multicefala») massa dei detenuti sotto il getto d’ acqua delle docce, la rasatura del pube che assimila i prigionieri a cani che si annusino a vicenda, le tenaglie che trascinano gli scheletri su cumuli di altri scheletri, i dettagli del lavoro o delle cure prestate dai detenuti-infermieri come lo stesso autore, le forche per le impiccagioni, gli stratagemmi per salvarsi applicando un cartellino con un altro nome all’ alluce di un cadavere, i deliri dei morenti; la bocca sempre urlante dei tedeschi assurta a caratteristica antropologica, il ciarpame di fetida biancheria dei morti purtuttavia preziosa per i vivi, il silenzio del fumo che esce dai camini; l’ esigenza di ordine che paradossalmente permane pur nell’ esecuzione dell’ infame lavoro forzato, il segreto egoismo nell’ aiuto prestato a un condannato con il sollievo di non essere al suo posto, i miserabili e benvenuti baratti di cicche e croste di pane fra i prigionieri; l’ abiezione storica divenuta squallore cosmico, vuoto assoluto. Momenti sbalzati davanti all’ eternità con possente poesia, come quelle due ragazze che incrociano casualmente per strada la fila dei dannati e nemmeno se ne accorgono, li eliminano dal loro sguardo, come se su quella strada ci fossero soltanto la neve e la bella giornata di sole. Oppure il sorriso di un bambino che si affaccia alla finestra mentre in strada passa quella fila di vittime e sorride; un sorriso innocente, ma «anacronistico» al pari del sole che splende alto nel cielo. O, ancora, quel condannato che prima di essere impiccato sputa in faccia ai carnefici – talora basta uno sputo sul viso di qualcuno per lavare lo sporco dal volto del mondo. Boris Pahor è sopravvissuto. Non posso penetrare il suo cuore, ma sembra essere uscito da quella necropoli veramente vivo, nel pieno senso del termine; irrimediabilmente segnato ma non umanamente mutilato né spento; integro, a differenza di altri – anche di altri grandi scrittori – passati attraverso quell’ inferno. Forse deve in parte quest’ integrità alla sua vitalità, alla sua confidenza – che egli fa risalire alle sue origini popolari – con la fisicità elementare della vita, che gli permette di non sentirsi a disagio «a contatto con il marciume, con le feci e con il sangue». Questa forza, questa armonia con lo scorrere anche lutulento dell’ esistenza e con la materia – fragile, talora repellente ma talora anche cristianamente gloriosa – di cui siamo fatti diventano fraterna assistenza a quei poveri sudici corpi accanto a lui, da lavare pulire e seppellire. Boris Pahor lo fa e lo narra con asciutta precisione fattuale, senz’ alcun pathos umanitario. Perfino in quella necropoli tale resistenza umana è una speranza. Per sé e per gli altri. Chissà se, come dice la Scrittura, le ossa umiliate – tutte le ossa umiliate – un giorno esulteranno. Una voce slovena dalla città dei morti .
Corriere della sera 3 feb 2008
Necropoli
Tempimoderni.leonardo.it
Oggi dobbiamo curare la memoria, eliminare eventuali meccanismi di difesa: l’importante è ricordare senza censura. Che il teatro dei nostri ricordi sia chiaro che non sia solo un sogno della fase rem o che la memoria abbaia la volatilità di una ram. Le nostre memorie non sono sogni! Chiaramente! I ricordi devono albergare in noi per l’eternità: caratterizzandoci. Dobbiamo rivolgerci domande introspettive del tipo: se questo è un uomo? magari guardando alla luna e chiederle: perché? Ma non dobbiamo mai smettere di ricordare e pensare: la nostra memoria è la più grande maestra.
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Come in
Necropoli, testimonianza di vita vissuta più che romanzo, dove
Boris Pahor descrive l’inferno dei lager nazisti attraverso il filtro della memoria. Questo capolavoro finalmente tradotto in italiano (oggi in uscita) del professore Pahor, probabilmente il più grande scrittore sloveno vivente. Già professore di mia mamma, poiché ebbi l’indescrivibile piacere di conoscerlo parlandoci cinque interminabili minuti, nutro per lui anche affetto oltre che un’infinita ammirazione. Si tratta di un libro autobiografico in cui l’autore racconta la sua esperienza di prigioniero dei tedeschi per aver partecipato alla resistenza slovena, offrendoci una fedele testimonianza delle atrocità dei campi nazisti, ma anche un documento sulla capacità di resistere, sulla tenacia e sulla generosità dell’individuo. Il tutto diventa evidente proprio attraverso il filtro della memoria attraverso una prosa poetica.
Si ricorda anche leggendo.
Con «Necropoli» tv e stampa italiane scoprono lo scrittore sloveno Boris Pahor
Dom.it
«Quarant’anni ci sono voluti perché un autore simile fosse conosciuto appieno nel suo Paese. Ci sono voluti decine di libri stampati all’estero, una Legion d’honneur, premi negli Stati Uniti, traduzioni in inglese, tedesco, francese, persino esperanto e finlandese. È il destino di Boris Pahor, triestino di lingua slovena, noto quasi ovunque tranne che in Italia. Per troppo tempo ha fatto comodo non si sapesse che nella città italianissima c’era un grande capace di scrivere in un’altra lingua — la stessa che il fascismo aveva negato a suon di manganello, sputi e olio di ricino — e mettere con i suoi capolavori il dito sulla piaga».
È questo l’incipit del lungo articolo col quale il noto giornalista e saggista triestino Paolo Rumiz presenta «Necropoli» l’opera dello scrittore sloveno Boris Pahor, più volte candidato al premio Nobel, pubblicata di recente da Fazi editore di Roma (pp. 281, 16 euro) nella traduzione di Ezio Martin e con la prefazione del germanista Claudio Magris.
Necropoli, continua Rumiz, «è dedicato alla prigionia nei Lager nazisti e salda il conto con molte cose: l’oppressione fascista che — si voglia o no — fu la premessa dei forni crematori; la scandalosa anticamera di questo autore ormai novantacinquenne (il libro è del 1967); con la sua umiltà, la sua onorata cittadinanza e la sua limpida passione civile. Ma soprattutto con la bellezza di un testo che si situa, a pieno titolo, accanto ai capolavori di Primo Levi e Imre Kertész sullo sterminio».
Il tamtam sull’opera, sull’esperienza dell’autore nel Lager, sul personaggio e la sua passione civile, l’orgoglio per sua identità dimenticata e calpestata, la caparbietà nel diffondere messaggi sul rispetto tra i popoli e i diritti degli sloveni in Italia, ha presto fatto il giro delle redazioni delle principali testate di stampa e tv. Il direttore Gianni Riotta ne ha parlato nel Tg 1 del 27 gennaio, il Corriere della sera ha pubblicato ampi stralci della prefazione a Necropoli di Claudio Magris; ne hanno scritto anche Liberazione, Il secolo XIX di Genova, La Sicilia, Il mattino di Napoli, La provincia di Como… Fahrenheit, la trasmissione di Radio 3, ha intervistato Pahor per oltre quarantacinque minuti. Nel corso di «Che tempo che fa», la fortunata trasmissione di Fabio Fazio su Rai 3, di Necropoli ha parlato Giovanna Zucconi e Pahor stesso sarà ospite di Fazio nelle prossime settimane.
Nella prefazione Claudio Magris scrive: «Con questo grande libro Pahor affronta il tortuoso incubo della colpa (quantomeno sentita come tale) del sopravvissuto, di chi è tornato; incubo che tanto sembra aver pesato sul grandissimo Primo Levi, quando diceva che chi è tornato non ha visto veramente a fondo la Gorgone e che chi l’ha vista non è tornato. (…) Necropoli è un ritratto a pieno campo e allo stesso tempo stringato — mai patetico — della vita (della non-vita, della morte) nel lager. Un possente afflato umano coesiste con una nitida e fredda precisione, in una perfetta struttura narrativa che intrinseca il racconto del passato — della prigionia, rivissuta nel perenne presente dell’orrore — e il resoconto del presente, della rivisitazione, molti anni dopo, di quegli inferni bonificati e divenuti museo e memento di se stessi, non senza le ambiguità implicite di questo sempre incerto superamento ufficiale del passato». |
Necropoli di Boris Pahor
Bibliogarlasco.blogspot.com
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“[…] Con questo grande libro
Boris Pahor affronta il tortuoso incubo della colpa (quantomeno sentita come tale) del sopravvissuto, di chi è tornato; incubo che tanto sembra aver pesato sul grandissimo Primo Levi, quando diceva che chi è tornato non ha visto veramente a fondo la Gorgone e chi l’ha vista non è tornato.
Necropoli è un ritratto a pieno campo e allo stesso tempo stringato – mai patetico – della vita (della non-vita, della morte) nel lager. Un possente afflato umano coesiste con una nitida e fredda precisione, in una perfetta struttura narrativa che interseca il racconto del passato – della prigionia, rivissuta nel perenne presente dell’orrore – e il resoconto del presente, della rivisitazione molti anni dopo di quegli inferni bonificati e divenuti museo e memento di se stessi, non senza le ambiguità implicite in questo sempre incerto superamento ufficiale del passato.
Necropoli è un’opera magistrale (se è lecito usare giudizi estetici per una testimonianza del male assoluto) anche per la sua limpida sapienza strutturale, per l’intrecciarsi di tempi – verbali ed esistenziali – che intessono il racconto. In un libro in cui non c’è la minima sbavatura vi sono momenti particolarmente indimenticabili: le sequenze cinematografiche della collettiva (‘multicefala’) massa dei detenuti sotto il getto dell’acqua delle docce, la rasatura del pube che assimila i prigionieri a cani che si annusino a vicenda, le tenaglie che trascinano gli scheletri su cumuli di scheletri, i dettagli del lavoro o delle cure prestate dai detenuti-infermieri come lo stesso autore, le forche per le impiccagioni, gli stratagemmi per salvarsi applicando un cartellino con un altro nome all’alluce di un cadavere, i deliri dei morenti; la bocca sempre urlante dei tedeschi assurta a caratteristica antropologica, il ciarpame di fetida biancheria dei morti purtuttavia preziosa per i vivi, il silenzio del fumo che esce dai camini; l’esigenza di ordine che paradossalmente permane pur nell’esecuzione dell’infame lavoro forzato, il segreto egoismo nell’aiuto prestato a un condannato con il sollievo di non essere al suo posto, i miserabili e benvenuti baratti di cicche e croste di pane fra prigionieri; l’abiezione storica divenuta squallore cosmico, vuoto assoluto.
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Momenti sbalzati davanti all’eternità con possente poesia, come quelle due ragazze che incrociano casualmente per strada la fila dei dannati e nemmeno se ne accorgono, li eliminano dal loro sguardo, come se su quella strada ci fossero soltanto la neve e la bella giornata di sole. Oppure il sorriso di una bambino che si affaccia alla finestra mentre in strada passa quella fila di vittime e sorride; un sorriso innocente ma ‘anacronistico’ al pari del sole che splende alto nel cielo. O, ancora quel condannato che prima di essere impiccato sputa in faccia ai carnefici – talora basta uno sputo sul viso di qualcuno per lavare lo sporco dal volto del mondo. Boris Pahor è sopravvissuto. Non posso penetrare nel suo cuore, ma sembra essere uscito da quella necropoli veramente vivo, nel pieno senso del termine; irrimediabilmente segnato ma non umanamente mutilato né spento; integro, a differenza di altri grandi scrittori – passati attraverso quell’inferno. Forse deve in parte quest’integrità alla sua vitalità, alla sua confidenza – che egli fa risalire alle sue origini popolari – con la fisicità elementare della vita, che gli permette di non sentirsi a disagio ‘a contatto con il marciume, con le feci e con il sangue’. Questa forza, questa armonia con lo scorrere lutulento dell’esistenza e con la materia – fragile, talora repellente ma talora anche cristianamente gloriosa – di cui siamo fatti diventano fraterna assistenza a quei poveri sudici corpi accanto a lui, da lavare, pulire e seppellire.
Boris Pahor lo fa e lo narra con asciutta precisione fattuale, senz’altro pathos umanitario. Perfino in quella necropoli tale resistenza umana è una speranza. Per sé e per gli altri. Chissà se, come dice la Scrittura, le ossa umiliate – tutte le ossa umiliate – un giorno esulteranno.” (da
Claudio Magris,
Pahor, la colpa di essere sopravvissuto, “Corriere della Sera”, 03/02/’08)
NECROPOLI, BORIS PAHOR
Il valore della memoria
Stradanove.net
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NON SAPREI DIRE SE È UN BENE O UN MALE CHE UN LIBRO DELL’IMPORTANZA e del valore di “Necropoli” di Boris Pahor ci giunga finalmente nella traduzione, quarant’anni dopo essere stato scritto in sloveno. Un male perché sentiamo che mancava qualcosa alla nostra conoscenza di quanto è accaduto durante la seconda guerra mondiale, perché non abbiamo tributato tutto l’onore e il rispetto dovuto ad un sopravvissuto, un bene perché è un libro che risveglia la nostra memoria e le nostre coscienze, riproponendoci l’orrore di quanto dovremmo impegnarci con tutte le nostre forze affinché non accada mai più.
Boris Pahor è nato nel 1913 a Trieste, quando la città era ancora sotto il dominio austro-ungarico. Laureato in Lettere all’Università di Padova, fu arruolato nell’esercito e mandato a combattere in Libia nel 1940. Dopo l’armistizio dell’8 settembre si unì ai partigiani sloveni che operavano nella Venezia Giulia, fu arrestato e deportato nel campo di concentramento di Natzweiler-Struthof prima, a Dachau e Bergen Belsen poi. Riuscì a sopravvivere a questa tremenda esperienza perché fu impiegato come infermiere nel Revier dei campi.
Sopravvivere: un verbo che non è adeguato per nessuno come per chi era ancora vivo al momento della liberazione, che si aggrappava ad un filo di vita pur domandandosi se valeva la pena di continuare ad essere, in un mondo che aveva permesso che accadesse quanto era accaduto. E se era una colpa il fatto stesso di essere un sopravvissuto, se il respiro del vivente aveva significato che un altro morisse in sua vece. C’è un episodio che Boris Pahor ricorda con strazio- nei primi tempi del suo internato aveva scambiato delle sigarette con un pezzo di pane.
Ecco, se avesse regalato le sigarette all’altro prigioniero senza portargli via il pane, forse questi sarebbe vissuto. Almeno qualche giorno in più. Ad ogni pagina, ad ogni riga del libro di Pahor viene da chiedersi ‘se questo è un uomo’ e monta in noi la pena e la compassione per gli internati dei campi, l’orrore per le scene quotidiane, il tremendo lavoro nella cava, quel salire i gradoni con il carico di massi, rotolare giù, accasciarsi, subire le percosse. La fame divorante, il gelo da cui era impossibile trovare riparo. L’abbrutimento del dover defecare stando in piedi, perché manca la forza di accoccolarsi.
E le malattie di cui Boris Pahor è testimone e che cerca, con i miseri mezzi che ha a disposizione, di alleviare. Diarrea e tubercolosi, tifo e flemmoni. Ferite infette e chissà che altro. Già solo i corpi che Pahor descrive sono una malattia- gambe che sembrano ramoscelli che salgono verso la forcella del pube, piccoli crani rasati, occhi affossati nelle orbite. Quando questi corpi diventano cadaveri, c’è una lunga tenaglia che li afferra per il collo per trascinarli sul mucchio. Se questo è un uomo. E parimenti sentiamo salire in noi una rabbia impotente e un dolore a cui non c’è rimedio. Alleviato, ma solo in maniera infinitesimale, dagli sprazzi di calore umano di cui Pahor ci parla. Dai piccoli atti di generosità, dal sussistere di una qualche reazione affettiva in quell’inferno, perché sì, questo vuol essere un uomo.
Boris Pahor scrive le sue memorie-testimonianza dopo una visita al campo di Natzweiler-Struthof in cui era stato rinchiuso- difficile dire quale sia il trauma maggiore, se il rivedere lo scenario di tante sofferenze e umiliazioni, il riaffiorare di ricordi, quasi che fantasmi si aggirassero in quei luoghi (e non molto diversi dalle ombre spettrali degli uomini di allora), oppure il constatare quanto poco il filo spinato, le baracche, le torrette, dicano ai visitatori di oggi, turisti superficiali e distratti in luoghi in cui solo la parola ‘turismo’ è una profanazione.
Boris Pahor, Necropoli, Ed. Fazi, trad. Ezio Martin, pagg. 263, Euro 16,00
Marilia Piccone 01-03-2008
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“Necropoli, annoverato da decenni fra i capolavori della letteratura dello sterminio, è un libro eccezionale, che riesce a fondere l’assoluto dell’orrore – sempre qui e ora, presente e bruciante, eterno davanti a Dio – con la complessità della storia, la relatività delle situazioni e i limiti dell’intelligenza e della comprensione umana.”
Claudio Magris
Questo libro bellissimo e tragico accompagna Pahor nella visita che compie nel Lager in cui era stato prigioniero, quello di Natzweiler-Struhof, Lager Istituito nel settembre 1940 nella Francia occupata presso la foresta dell’Alsazia, nelle vicinanze di una cava di pietre. Era un Lager di terza categoria per lo sterminio totale dei prigionieri che dovevano trasformare vecchie miniere di gesso in fabbriche sotterranee. Esisteva anche una camera a gas e i corpi dei prigionieri gassati erano conservati in celle frigorifere a disposizione dell’Università tedesca installata a Strasburgo.
Pahor non accetta la dimensione turistica della visita a questo luogo dell’orrore anche se è il raccoglimento a caratterizzare i visitatori che possono entrare divisi in piccoli gruppi.
E poi l’insorgere dei ricordi, anzi qualcosa di più, un ripercorrere non solo fatti, ma sensazioni vissute in quell’universo altro e terribile. E con la chiarezza, la semplicità di chi ogni giorno ha davanti agli occhi quelle immagini, Pahor le racconta, ne descrive minuziosamente particolari osceni, da film dell’orrore: teste rasate, corpi scheletrici, fame, misere nudità, oltraggi, perdita di identità e di senso.
Ogni passo in quel campo è un assalto di ricordi. L’irrequietezza che prese quando, la sconfitta tedesca ormai prossima, si leggeva sul viso del vicino, la convinzione arresa dell’inevitabile eliminazione di tutti i prigionieri sopravvissuti. Il forno, mostro diventato familiare, e i medici, quelli che salvano con stratagemmi e quelli (tedeschi) che usano i corpi dei detenuti per i loro spietati esperimenti.
I prigionieri vengono portati altrove, ormai i vincitori sono nei pressi, e i tanti morti sono seppelliti o accumulati su camion, poveri corpi inconsistenti. Il trasporto è faticoso, pieno di paure e di incognite.
Pahor fa parte degli addetti all’infermeria e questo lo salva, ma forse proprio di questo privilegio non riuscirà mai a perdonarsi.
I visitatori guardano le singole parti del campo, una giovane coppia si abbraccia e l’autore sente come sia stridente quella realtà col ricordo. “Noi eravamo immersi in una totalità apocalittica nella dimensione del nulla; quei due invece galleggiano nella vastità dell’amore che è altrettanto infinito, e che altrettanto incomprensibilmente signoreggia sulle cose, le esplode o le esalta.”
Il metodo di difesa che aveva messo in atto trovandosi in quell’inferno era il diaframma posto tra sé e le immagini che gli si presentavano quotidianamente davanti: l’argine degli occhi doveva impedire che penetrassero più a fondo, che si trasformassero in pensieri.
C’era stato un momento in cui la morte aveva sfiorato anche lui, ne era certo, ed era stato salvato solo dalla calma che regnava nel blocco degli inabili e dal suo reclutamento nell’infermeria.
Alla memoria poi torna il barlume di un “prima” lontano, prima della guerra, quando gli sloveni di Trieste erano già stati colpiti da tante discriminazioni, quasi un’anticipazione di ben più tragiche esclusioni e punizioni, quelle a cui ogni passo nel campo ora ridà vita e provoca nuovo inguaribile dolore.
Un libro che, nel costante intrecciarsi di vita e di morte, nelle visioni terribili che le parole producono negli occhi del lettore, nella durezza dei ricordi impietosi e dell’angoscia che suscitano, ha una potenza difficilmente riscontrabile in altre opere di sopravvissuti.
Questo scrittore che ha raccontato l’abisso della crudeltà con parole lucide è uno degli esempi più alti di quella cultura slovena cresciuta e sviluppatasi a Trieste di cui Claudio Magris, a cui si deve l’Introduzione, rappresenta il versante italiano: una duplice lingua, diverse le esperienze di vita, ma pari la capacità di scavo nell’animo umano.
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Le prime pagine
Domenica pomeriggio. Il nastro d’asfalto liscio e sinuoso che sale verso le alture fitte di boschi non è deserto come vorrei. Alcune automobili mi superano, altre stanno facendo ritorno a valle, verso Schimek; così il traffico turistico trasforma questo momento in qualcosa di banale e non mi permette di mantenere il raccoglimento che cercavo. So bene che anch’io, con la mia macchina, faccio parte di questa processione motorizzata, eppure sono sicuro che, vista la mia passata intimità con questi luoghi, se sulla strada fossi solo, il fatto di viaggiare in automobile non scalfirebbe l’immagine onirica che dalla fine della guerra riposa intatta nell’ombra della mia coscienza.
Lo ammetto, non riesco ad accettare fino in fondo l’idea che questo posto di montagna, cardine del mio mondo interiore, sia visitabile da chiunque; e soffro anche un po’ di gelosia: non soltanto perché oggi occhi estranei percorrono uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi (ne sono assolutamente certo) non potrenno mai penetrare nell’abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana e nella libertà personale.
Ecco che però, giunta da chissà dove, inizia a insinuarsi nel mio animo anche una picciola soddisfazione per il fatto che questa altura dei Vosgi non sia più il terreno segreto di una lontana dannazione consumatasi tutta in se stessa, ma sia diventata un luogo verso cui si dirigono i passi di innumerevoli persone. E queste persone, anche se la loro immaginazione sarà insufficiente per la visita che le attende, riusciranno tuttavia a intuire, attraverso le vie del cuore, l’inconcepibile realtà del destino di quei loro figli perduti.
Uomini e donne di tutti i paesi d’Europa si radunano qui su questi alti terrazzamenti di montagna, dove il male aveva il sopravvento sul dolore e sembrava capace di imprimere alla consunzione il marchio dell’eternità. Si radunano qui per poggiare il piede su un luogo sacro dove le ceneri dei loro simili, con muta presenza, segnano nella coscienza dei popoli una tappa incancellabile della storia umana.
© Fazi Editore
Necropoli di Boris Pahor
Titolo originale: Nekropola
Traduzione di Ezio Martin
Introduzione di Claudio Magris
280 pag., 16,00 € – Fazi Editore (Le strade)
L’autore
Nato nel 1913 a Trieste dove vive tuttora, dopo la laurea a Padova ha insegnato Lettere italiane e slovene nella città giuliana. Durante la seconda guerra mondiale ha collaborato con la resistenza antifascista slovena ed è stato deportato nei campi di concentramento nazisti, esperienza che lo ha fortemente segnato e di cui si trova traccia in gran parte della sua ricchissima produzione letteraria. I suoi libri, scritti in sloveno, sono stati tradotti in francese, inglese, tedesco, catalano, finlandese e perfino in esperanto. Segnalato più volte all’Accademia di Svezia che assegna il Nobel per la letteratura, insignito nel 1992 del Premio Preseren, il massimo riconoscimento sloveno, per la sua attività letteraria, già nominato in Francia Officier de l’Ordre des Arts et des Lettres dal Ministero della Cultura, nel 2007 ha ricevuto la Legion d’Onore da parte del presidente della Repubblica francese.
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Boris Pahor questa sera da Fazio per raccontare la sua Necropoli
Boris Pahor ha portato il suo “Necropoli” nel salotto di Fazio
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Boris Pahor in tv parla di “Necropoli”
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IL RITORNO NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO
Roma, 16 feb. – (Adnkronos/Adnkronos Cultura) – Un uomo ritorna nel campo di concentramento di Natzweiler-Struthof. Molti anni prima vi ha trascorso una stagione delicata e dolorosa della sua esistenza. E’ stato rinchiuso in un lager insieme a centinaia di altri deportati. La sua vita e’ stata sempre in pericolo. Ha subito umiliazioni, violenze e ingiustizie. I tedeschi lo hanno punito in modo tragico. Responsabile di aver partecipato alla resistenza slovena, fu catturato ed internato in un campo di lavoro. Una domenica pomeriggio decide di ritornare a visitare i luoghi della sua giovinezza. Osserva, attonito, le baracche nelle quale ha cercato riparo nelle notti fredde. Si aggira negli ambienti desolanti in cui ha vissuto. Ambienti che sono stati riadattati per accogliere i locali di un museo della memoria. Nel libro ”Necropoli”, pubblicato dalla casa editrice Fazi, Boris Pahor ricostruisce, pertanto, le fasi piu’ tristi e difficili della sua detenzione.
Il libro si apre con il viaggio che Boris compie per raggiungere, con tanti altri turisti, il campo di Natzweiler-Struthof. ”Domenica pomeriggio. Il nastro d’asfalto liscio e sinuoso -scrive all’inizio del suo racconto – che sale verso le alture fitte di boschi non e’ deserto come vorrei. Alcune automobili mi superano, altre stanno facendo ritorno a valle, verso Schirmek, cosi’ il traffico turistico trasforma questo momento in qualcosa di banale e non mi permette di mantenere il raccoglimento che cercavo”.
Improvvisamente Pahor rivede le immagini, i volti e ascolta le voci di coloro che, con lui, hanno vissuto la sua tragica esperienza. I ricordi appaiono con forza. La fame, le privazioni, la mancanza completa di umanita’, costituiscono gli elementi principali della sua vicenda. Una vicenda che ruota intorno ai forni crematori, nodo cruciale di tutto l’orrore dei campi di concentramento. ”Necropoli’ – ha spiegato Claudio Magris – riesce a fondere l’assoluto dell’orrore con la complessita’ della storia”.
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«Già adesso quello italo-sloveno è un confine semiaperto: senza le sbarre, però, sarà un’altra cosa». Il professor Boris Pahor, scrittore sloveno triestino, ripone molte speranze nello smantellamento del confine fisico tra l’Italia e la Slovenia, oramai prossimo. E anche qualche timore. Convinto sostenitore del dialogo tra le culture, è da sempre anche un fermo difensore dell’identità dei popoli e della tutela delle lingue. E un testimone attento e sensibile della peculiarità del rapporto tra le etnie in queste terre di confine. Nel libro “Necropoli” Pahor racconta l’incontro nel campo di concentramento di Dachau con il politico triestino Gabriele Foschiatti. La sua considerazione è amara: era stato necessario incontrarsi in un luogo nel quale «ciò che è umano veniva rinnegato» perché, per la prima volta, un concittadino italiano gli parlasse con un tono d’umanità.
Ora, professore, ci auguriamo che molto sia cambiato. Come interpreta il prossimo abbattimento della frontiera in una terra ancora di confine, come Trieste o Gorizia?
Si tratta di un cambiamento importante e certamente positivo. Due comunità etniche e linguistiche meno divise avranno maggiori opportunità di unirsi e di dialogare. La definitiva caduta del confine dovrebbe, in teoria, essere utile soprattutto per gli sloveni che attualmente sono staccati dalla Slovenia e vivono in Italia. Migliorerà lo scambio commerciale, culturale ed anche quello personale. Purtroppo gli italiani in Istria dovranno attendere che la Croazia entri nell’Unione Europea.
Ci sarà una maggior possibilità di travaso tra le culture?
Credo che più di travasi di culture si tratti di incontri di coscienze, di movimenti di persone. Una maggiore possibilità di confronto. Già adesso i licei di Lubiana e di Postumia vengono a far visita alle scuole italiane e viceversa. Il semplice fatto di non dover fare più i conti con il confine fisico rappresenta qualcosa di positivo. Inoltre il rapporto italo-sloveno qui a Trieste negli ultimi quattro o cinque anni è decisamente cambiato. Ha un altro tono, di vicendevole arricchimento. Siamo in una situazione senz’altro migliore.
E devo dire che un grande merito va attribuito, in primo luogo, alla Chiesa.
Veniamo al tema della cultura. Quella slovena è poco conosciuta a Trieste. Perché?
Della cultura slovena a Trieste non si conosce quasi nulla. Questo è vero. E non è certamente un fatto di oggi. Volevo, però, sottolineare — come già anticipato — che qualcosa sta cambiando. Già l’ex sindaco di Trieste, Manlio Cecovini, si era accorto che le due culture dovevano conoscersi di più. Qualcuno gli ha anche rimproverato questo suo atteggiamento. Lui, ad esempio, ha parlato della mia “Necropoli” alla sala Minerva. In una bella antologia pubblicata a Trieste sugli autori italiani nel post scriptum aveva indicato che era necessario pubblicare pure una raccolta simile dedicata agli autori sloveni. Anche il giornale cittadino, “Il Piccolo”, è cambiato in questo senso. Gli autori triestini sloveni hanno più spazio.
E gli autori sloveni “della Slovenia” sono conosciuti?
A Trieste gli autori della Slovenia avrebbero più possibilità di essere conosciuti rispetto a noi, “autori della minoranza”. Noi siamo un territorio “pericoloso”. Claudio Magris ha scritto recentemente un articolo molto interessante sul Corriere della Sera dedicato a Drago Jancar, autore sloveno molto conosciuto soprattutto in Germania. Da poco sono stati tradotti due suoi volumi in italiano. Ma di noi sloveni triestini non ha mai parlato. Siamo stati solo menzionati, Alojz Rebula ed io, nella seconda edizione di “Trieste un’identità di frontiera”. Pare che adesso abbia accettato di scrivere la prefazione alla mia nuova edizione di “Necropoli”, che sarà pubblicata a Roma agli inizi del prossimo anno. Lo ringrazio di cuore. Anche questo lo interpreto come un segno del cambiamento.
Come presenterebbe la cultura letteraria slovena ad un osservatore curioso?
Nel 2004 ho pubblicato un vademecum: “Letteratura slovena del Litorale”. Si dovrebbe trovare ancora in libreria. Il testo era apparso a puntate sulla rivista “Trieste & oltre”, diretta da Guido Botteri. Una storia da Primoz Trubar, nel 1550, ai giorni nostri. Ho inserito solo gli autori sloveni della nostra zona. C’è poi un bellissimo testo di Tatiana Rojc sulla letteratura slovena, “Le lettere slovene”. Un libro che con la professoressa Cristina Benussi abbiamo presentato nella ex Narodni dom. È un testo snello che prende in esame le epoche e gli autori essenziali, spesso facendo riferimento anche alla letteratura italiana. Sarebbe un testo ideale da raccomandare nelle scuole italiane, qualora volessero introdurre lezioni di sloveno.
A proposito di lingue, esse rappresentano uno degli elementi qualificanti di un’etnia, ma non solo.
Rappresentano il ponte per agevolare i rapporti tra popoli e nazioni. Quale significato dobbiamo dare al fatto che lo sloveno è praticamente sconosciuto a Trieste, a dieci chilometri dal confine?
Noi siano fortunati perché finalmente a Trieste ci chiamano sloveni. Fino a qualche anno fa non si parlava di sloveni, ma di slavi. Ancora oggi qualcuno dice: “voi slavi”. Ma slavi non sono anche i croati? L’espressione qui da noi veniva poi modificata in “schiavo” e quindi “s’ciavo”, che è entrato nell’uso corrente del dialetto. Ancora oggi non viene data importanza a questa distinzione. Racconto un episodio. Nel 1986 c’è stata una mostra a Parigi su Trieste al Centro Pompidou: “Trouver Trieste”. In quella occasione il Comune di Trieste ci ha completamente rinnegati. In una bacheca c’era scritto che a Trieste vivono molti popoli: serbi, cechi, dalmati e slavi. Ho fatto notare: «Allora i serbi, i cechi ed i dalmati non sono slavi?». Quando il Presidente Napolitano ha affrontato la questione delle foibe, ha parlato dei “sanguinari slavi”. Il presidente croato Stipe Mesic si è fatto subito sentire. Il Ministro D’Alema ha telefonato dicendo che nessuno aveva pensato ai croati. Chi resta allora? Questa è una interpretazione dei fatti che è partita da Trieste. L’idea di voler disconoscere il “popolino sloveno” viene, quindi, da lontano. Sarebbe un discorso lungo. La politica ha rinnegato gli sloveni e da questo ne consegue la negazione della lingua. Appena la politica comincia ad essere più “onesta”, anche il resto cambia.
Il giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz, in occasione dell’ingresso della Slovenia in Europa, disse che si trattava di un evento che ripristinava in queste terre una situazione storica di cent’anni prima. Anche la fine del confine non è dunque una novità?
La novità è che la Slovenia ha finalmente un’identità che in Europa non si può più negare. Poteva essere messa in discussione nella prima Jugoslavia, molto meno nella seconda, quando è diventata una repubblica, anche se la dipendenza da Belgrado era sentita. Adesso la Slovenia è un’entità europea, giuridicamente equivalente alle altre nazioni. Secondo me, il futuro di questa nazione dipenderà da come saprà essere attiva nel settore economico (cosa che mi interessa di meno) e soprattutto in quello culturale. In questo senso c’è una grande apertura nei confronti dell’Europa. Gli studenti sloveni sono presenti nelle Università di tutta l’Unione Europea. È importante, però, migliorare ancora i rapporti con il territorio di Trieste e di Gorizia. È un retaggio dell’impreparazione nata durante i vent’anni di fascismo e i quaranta del governo di Tito, quando la propaganda interna mirava esclusivamente a cercare legami con la sinistra comunista e socialista italiana, lasciando in disparte la questione culturale.
Ritorniamo alla questione della lingua. In nessuna scuola media o secondaria italiana si studia lo sloveno. Questo è un segnale inequivocabile di un rapporto ancora non normalizzato.
È quello che ho ripetuto tantissime volte. Vogliamo l’apertura? Questa è una delle strade principali. Le scuole italiane dovrebbero prevedere un’ora settimanale di sloveno (almeno facoltativo). Purtroppo parte della politica triestina — quella di destra — sostiene che studierà prima un dialetto africano che lo sloveno.
È, quindi, solo una questione di volontà?
Le faccio un esempio. Io ho imparato il croato perché in seminario a Capodistria avevamo un’ora di lingua croata. Agli studenti italiani non interessava molto. Io invece ho imparato qualcosa. Poi in Africa, durante la guerra, nella mia batteria c’erano molti croati. E così ho finito per conoscere anche il croato. Le lingue sono un punto di collegamento essenziale tra le culture. Se vivi a Trieste conoscere lo sloveno diventa importante. Come diceva Slataper, le due popolazioni, le due anime della città sono quella italiana e quella slovena. C’erano, e ci sono, certamente anche i serbi ed i croati, ma le due etnie storiche sono le nostre due, dall’epoca di Carlo Magno.
Nel suo libro di racconti “Il rogo nel golfo” lei descrive una situazione che fa risalire addirittura agli inizi del secolo scorso il problema della lingua slovena a Trieste.
In quel libro racconto come durante il fascismo vennero chiuse tutte le scuole slovene e fu vietato a tutti di parlare la nostra lingua. Non si poteva nemmeno parlarla in strada. Io ero piccolo, andavo alle scuole elementari. Fu per me un avvenimento traumatico. Prima avevano anche incendiato la nostra Casa del Popolo (la Narodni dom). Ero lì presente, assieme alla mia sorellina. Sono stati avvenimenti sconvolgenti per la comunità slovena. Quando questo libro è stato tradotto in Francia, i francesi non riuscivano a comprendere come questi fatti fossero potuti succedere.
Come ritiene sarebbe stato l’esito di una ipotetica consultazione se, al posto dei vertici nazionali ed europei, fosse stata la cittadinanza triestina a dover decidere con un referendum l’ingresso della Slovenia in Europa e l’abbattimento dei confini?
Io credo che la maggioranza della popolazione sia favorevole all’eliminazione del confine. La destra, probabilmente, farebbe propaganda contraria, ma si troverebbe in minoranza.
E in Slovenia?
La stessa cosa.
Quindi la caduta del confine sarà una cosa apprezzata da tutti?
Ritengo di sì. L’atmosfera che negli ultimi anni si respira a Trieste mi fa essere ottimista. L’Italia in fondo ha un interesse dal punto di vista commerciale e culturale che la frontiera non ci sia. L’unica cosa che può essere ancora sostenuta è la propaganda del pericolo che gli sloveni colonizzino Trieste. È una vecchia teoria creata ad hoc dall’irredentismo, quella della paura degli sloveni. Ciò che è importante ora è che questa apertura possa svilupparsi e crescere. Non servono a nulla tutti i discorsi che si stanno facendo. È l’opinione pubblica che cambia realmente i sentimenti e le posizioni. Io sono molto fiducioso.
Posso chiederle di inviare un saluto ai lettori di Vita Nuova in lingua slovena?
Mislim, da je dobro znamenje to, da prihaja do odprave mej ob bozicu. Gre namrec v obeh primerih za rojstvo, eno v svetu duha, drugo v razmerju do cloveskega sozitja. Bralkam in bralcem casnika “Vita Nuova“ zelim, da bi v bozicno praznovanje novega rojstva vkljucili tudi praznovanje prijateljskega zblizania. (Credo sia di buon auspicio che si tolgano le frontiere a Natale. Si festeggiano così due nascite: una nel mondo dello spirito, l’altra in quello dell’umana convivenza. Alle lettrici e ai lettori del giornale Vita Nuova auguro di includere nella nascita che si celebra a Natale anche il festeggiamento di una amicizia arricchita – traduzione di Boris Pahor, ndr).
‘NECROPOLI’ DI BORIS PAHOR
Canottaggio.org
”In questo momento vorrei dire qualcosa ai miei compagni, ma ho la sensazione che tutto ciò che riuscirei a dire sarebbe insincero. Io sono vivo, perciò anche i miei sentimenti più schietti sono in una certa misura impuri” scrive Boris Pahor, scrittore sloveno oggi 93enne e autore di questo libro che Claudio Magris definisce ”magistrale (se e’ lecito usare criteri estetici per una testimonianza del male assoluto), che riesce a fondere l’assoluto dell’orrore con la complessità della storia”. E’ il suo primo libro che viene tradotto in italiano da un editore di rilevanza nazionale, come spesso accade, dopo il successo ottenuto in Francia, dove Pahor ha avuto al Legion d’onore ed e’ stato candidato al Nobel, ed esce in concomitanza con la Giornata della memoria. E’ un libro ancora sull’esperienza in un lager nazista: l’autore fu chiuso a Natzweiler, poi a Dachau e a Bergen-Belsen come partigiano. E forse la frase riportata può spigarci come leggere questo tipo di libri, appunto consci della loro impurità, che non lede comunque il loro valore di testimonianza per non dimenticare.
Non a caso Pahor parte da un suo ritorno su quei luoghi, a distanza di anni. Attento ai dettagli, davanti a due innamorati che si baciano vicino al reticolato, disturbato fortemente da un operaio che restaura le baracche, con assi sane e di legno nuovo innestate in ”un putridume morto” (”Ero per l’intangibilità’ della dannazione”, commenta), Pahor si rende conto che nessuno dei visitatori d’oggi potrà mai penetrare davvero nella realtà, nell’orrore che fu. Allo stesso modo capisce e indaga il senso di colpa del sopravvissuto (quello che ha schiacciato all fine anche Primo Levi?) e cerca con lucidità un rapporto ‘possibile’ col presente e chi e’ venuto dopo. Realisticamente rievoca la propria discesa agli inferi, ma assieme cerca di capire cosa si può, se si può, trasmettere a un visitatore, ”assumendo su di sé tale lacerazione”, come annota sempre Magris.
Nel giorno della Memoria esce in Italia ‘Necropoli’ di Pahor
Trieste.rvnet.eu
Esce in Italia il 27 gennaio, in concomitanza con il Giorno della Memoria, ‘Necropoli’, considerato il capolavoro dello scrittore Boris Pahor.
Si tratta di un libro autobiografico in cui l’autore racconta la sua esperienza di prigioniero dei tedeschi per aver partecipato alla resistenza slovena, offrendoci una fedele testimonianza delle atrocità dei campi nazisti, ma anche un documento sulla capacità di resistere, sulla tenacia e sulla generosità dell’individuo.
Campo di concentramento di Natzweiler-Struhof sui Vosgi. L’uomo che vi arriva una domenica pomeriggio, insieme a un gruppo di turisti, è un ex deportato che a distanza di anni è voluto tornare nei luoghi dove era stato internato. Subito, di fronte alle baracche e al filo spinato trasformati in museo, riaffiorano i ricordi insieme alla sofferenza per la fame e il freddo, l’umiliazione per le percosse e gli insulti e , soprattutto, la pena per quanti non ce l’hanno fatta. E come fotogrammi di una pellicola si snodano le vicende su quell’orrore inspiegabile, ma anche i tanti episodi di solidarietà tra prigionieri, di un desiderio di vivere che neanche in circostanze così drammatiche si è mai perso completamente.
Boris Pahor, nato nel 1913 a Trieste dove vive tuttora. Nel settembre 2007 è stato insignito della Legione d’Onore, uno dei massimi riconoscimenti della Repubblica francese.
RITORNO ALL’INFERNO
PUBBLICATA LA TRADUZIONE ITALIANA DI “NECROPOLI”, IL CAPOLAVORO DI BORIS PAHOR
Konradblog
Finalmente, a oltre quarant’anni dalla sua stesura, un editore italiano ha pubblicato il libro più intenso e travolgente del triestino Boris Pahor, colmando una lacuna tanto vistosa da risultare offensiva per l’editoria e vergognosa per la cultura del nostro Paese.
Ci ha pensato l’editore Fazi, proponendo Necropoli in una nuova edizione (con traduzione di Ezio Martin, revisione del testo di Valerio Aiolli e prefazione di Claudio Magris, in libreria da venerdì scorso, al prezzo di 16 Euro).
Necropoli, scritto in sloveno alla metà degli anni Sessanta, è stato tradotto in francese, inglese, tedesco, ungherese, spagnolo, serbo-croato, finlandese, catalano e persino in esperanto, valendo al suo autore un generale riconoscimento che si è concretato in numerosi premi e onorificenze a livello internazionale, oltre alla reiterata candidatura al Premio Nobel per la Letteratura, mentre in Italia Pahor rimane un autore sostanzialmente sconosciuto, al di fuori dell’ambito locale.
Vi è infatti un solo tardivo, per quanto generoso, precedente editoriale della traduzione italiana di Necropoli, operato dal Consorzio Culturale del Monfalconese, che alcuni anni fa ha pubblicato il volume, consentendo così a qualche lettore italiano di prendere conoscenza di questo grande libro (l’aggettivo è usato da Claudio Magris che ha scritto la prefazione dell’edizione Fazi in uscita in questi giorni).
Il medesimo aggettivo, grande, è stato usato anche a definire Necropoli in una lunga intervista a Boris Pahor che Konrad ha pubblicato in due puntate nei numeri 114 e 115, rispettivamente del marzo e dell’aprile del 2006, rintracciabili nel nostro sito web www.konradnews.it.
In effetti, il libro di Pahor si colloca in una dimensione tutta particolare, essendo una testimonianza palpitante e inorridita della detenzione del suo autore nei campi di sterminio nazisti, principalmente in quello di Natzweiler- Strudhof dove si svolge gran parte della narrazione di Necropoli e dove Pahor era finito a causa della sua attività di antifascista. A differenza di altre grandi o piccole opere che si ambientano nei medesimi o analoghi inferni, Necropoli narra solo indirettamente dell’orrore vissuto, in quanto è la storia della visita al lager effettuata dal reduce anni dopo avervi vissuto le sue terribili esperienze. Esperienze che, ovviamente, rivivono acuminate nella memoria e costituiscono il nocciolo duro, durissimo, della narrazione, condotta a ritmo incalzante in un inarrestabile sprofondare della mente nell’abiezione di quel luogo, ma anche nell’implicita grandezza della povera carne che in esso trovò la propria dissoluzione.
Una grandezza di dimensioni epiche, in quell’inferno dantesco a gradoni dove, al posto di Lucifero, era assegnato al livello più basso il forno per le cremazioni.
Lo spazio che qui ci è concesso impedisce una vera e propria recensione, che probabilmente costituirà il contenuto della rubrica “Lettere triestine” sul prossimo numero di marzo del Konrad cartaceo. Qui, oltre alla segnalazione dell’evento editoriale, vorremmo soltanto impostare una riflessione che non può non avere un risvolto amaro su come, per decenni, la cultura triestina abbia colpevolmente ignorato la figura e l’opera di questo autore sloveno che è anche un triestino artefice, con questo suo Necropoli, del più importante libro che sia stato scritto a Trieste nella seconda metà del secolo appena passato.
Conforta il fatto che da qualche tempo qualcosa si stia muovendo nella nostra società in direzione di un reciproco riconoscimento delle diverse anime e delle diverse nazionalità che coesitono da secoli su questo nostro territorio. Dall’ambito culturale e accademico di più alto livello, da Claudio Magris a Elvio Guagnini, a quello giornalistico dove molto ha contato l’opera del responsabile delle pagine culturali de Il Piccolo. Alessandro Mezzena Lona (ricordato dall’editore come ispiratore della felice scelta operata dalla casa editrice Fazi con la pubblicazione di Necropoli) la cultura triestina di lingua italiana ha rotto da tempo, fortunatamente, con una visione angustamente relegata alla contemplazione di se stessa.
Nella necropoli dove la vita è sfigurata
La memoria presente della Shoà
Pahor – La colpa di essere sopravvisuto
Nel lager-museo la memoria di un deportato
“Necropoli” di Boris Pahor
Ansa.it
‘NECROPOLI’
DI
BORIS PAHOR
(FAZI, pp. 288 – 16,00 euro)
”In questo momento vorrei dire qualcosa ai miei compagni, ma ho la sensazione che tutto cio’ che riuscirei a dire sarebbe insincero. Io sono vivo, percio’ anche i miei sentimenti piu’ schietti sono in una certa misura impuri” scrive Boris Pahor, scrittore sloveno oggi 93enne e autore di questo libro che Claudio Magris definisce ”magistrale (se e’ lecito usare criteri estetici per una testimonianza del male assoluto), che riesce a fondere l’assoluto dell’orrore con la complessita’ della storia”. E’ il suo primo libro che viene tradotto in italiano da un editore di rilevanza nazionale, come spesso accade, dopo il successo ottenuto in Francia, dove Pahor ha avuto al Legion d’onore ed e’ stato candidato al Nobel, ed esce in concomitanza con la Giornata della memoria. E’ un libro ancora sull’esperienza in un lager nazista: l’autore fu chiuso a Natzweiler, poi a Dachau e a Bergen-Belsen come partigiano. E forse la frase riportata puo’ spigarci come leggere questo tipo di libri, appunto consci della loro impurita’, che non lede comunque il loro valore di testimonianza per non dimenticare.Non a caso Pahor parte da un suo ritorno su quei luoghi, a distanza di anni. Attento ai dettagli, davanti a due innamorati che si baciano vicino al reticolato, disturbato fortemente da un operaio che restaura le baracche, con assi sane e di legno nuovo innestate in ”un putridume morto” (”Ero per l’intangibilita’ della dannazione”, commenta), Pahor si rende conto che nessuno dei visitatori d’oggi potra’ mai penetrare davvero nella realta’, nell’orrore che fu. Allo stesso modo capisce e indaga il senso di colpa del sopravvissuto (quello che ha schiacciato all fine anche Primo Levi?) e cerca con lucidita’ un rapporto ‘possibile’ col presente e chi e’ venuto dopo. Realisticamente rievoca la propria discesa agli inferi, ma assieme cerca di capire cosa si puo’, se si puo’, trasmettere a un visitatore, ”assumendo su di se’ tale lacerazione”, come annota sempre Magris.
Il caso Pahor
Il lager visto dal bosco
Nella necropoli dei nazisti
Ritorno al luogo di dannazione sulle alture dei Vosgi
Lo sterminio, un trend dell’editoria. Ma l’Italia rimane razzista
27 gennaio: ricordando la Shoah
“Necropoli” di Pahor in italiano, dopo 41 anni
Jack il grande, Carolina la sognatrice
Fazi pubblica “Necropoli” di Boris Pahor
In un film il calvario nei campi nazisti raccontato da Pahor