Chuck Kinder
Silver Ghost
Traduzione di Giovanna Scocchera
Torna lo strampalato e irriverente Jim Stark, già protagonista del fortunato Lune di miele, in uno straordinario viaggio sulle strade di un’America intatta e selvaggia. Una storia assolutamente comica e dall’impatto duro e immediato.
Come la maggior parte dei suoi coetanei, il diciassettenne Jimbo è alle prese con la confusione, i turbamenti, la ribellione e le prime esperienze amorose dell’adolescenza. Come altri piccoli, grandi eroi più o meno della sua stessa età – il giovane Holden di Salinger e l’Huck Finn di Twain, il James Dean di Gioventù Bruciata e il Sal Paradise di Kerouac – Jimbo vive il suo amore adolescenziale con Judy. Per dimostrarle quanto la ama, Jimbo affronta tempeste di neve, scazzottate, persino l’esilio, dopo che il padre ha scoperto che è stato lui a rubare e rivendere la sua preziosissima collezione di soldatini in miniatura, il tutto per comprare a Judy un anello di fidanzamento. Ma quando Judy lo rifiuta, Jimbo, che pur atteggiandosi da duro ha un enorme bisogno di sentirsi amato, prova una delusione cocente.
È la scintilla che innesca il serbatoio della sua inquietudine adolescenziale e che gli fa decidere di mettersi in viaggio sulla strada, di cercare una nuova identità lontano da tutto e da tutti, di ricostruirsi una vita inseguendo il mito della West Coast.
Ma gli incontri che farà non saranno sempre felici, anche la strada lo deluderà, e quando alla fine sentirà il bisogno di tornare a casa e cercare di ricucire i rapporti con i suoi affetti più vicini si accorgerà che è “sempre troppo tardi per rimediare qualsiasi cosa con chiunque”. Dovrà fare i conti con la realtà, abbandonare la sua visione mitica, e capirà che per quanto si possa schiacciare l’acceleratore è impossibile fuggire dalla vita, neanche a bordo di una mitica Silver Ghost.
Sfrecciando per le strade di un’America fine anni Cinquanta, Kinder ripercorre con ironia, affetto e una punta di nostalgia, i turbamenti e gli entusiasmi dell’adolescenza. Il viaggio è divertente, ritmato, picaresco ma anche arrabbiato, in un susseguirsi di amori, risse, sbornie, depressioni e furti, in una girandola di gioia e tristezza che esprime i sogni e il disagio di un’intera generazione.
– 29/07/2003
Chuck Kinder In viaggio verso Ovest
Jim Stark, chi era costui? Facile: il protagonista di uno dei più amabili romanzi americani usciti in Italia lo scorso anno, “Lune di miele” di Chuck Kinder. Testo monstre, cui Kinder aveva ossessivamente lavorato per oltre vent’anni – alle forbici di Scott Turow, peraltro, il compito di riportare poi il tutto a dimensioni più commestibili. Questo “Lune di miele” raccontava la storia di una bella amicizia, lanciata nell’arco che va dai Sessanta agli Ottanta, fra l’alter ego del narratore, appunto Jim Stark, e Ralph Crawford, dietro il cui pseudonimo era impossibile non riconoscere i tratti del padre riconosciuto del minimalismo letterario americano, Raymond Carver.
E a proposito di pseudonimi: il buon lettore di narrativa americana contemporanea non ignorerà che lo stesso Kinder a sua volta compariva, celato sotto il “nom de plume” di Grady Tripp, fra le pagine di “Wonder boys” di Michael Chabon (da cui poi il film con Douglas jr.): chi la fa, l’aspetti.
Bene: come si sarà capito, Jim Stark torna nelle nostre librerie anche quest’anno. Il libro che ce lo ripropone si intitola “Silver Ghost”, è uscito negli Stati Uniti nel 1978 (da noi lo ha appena pubblicato Fazi), e, nella scacchiera dell’ autobiografia (ben poco immaginaria) che Kinder va scrivendo, occupa la fatidica, immancabile casella degli “anni di apprendistato”.
Ma attenzione: se “Lune di miele” giocava su un registro epico, o a suo modo eroicomico, il registro di questo “Silver Ghost” è lirico; d’altronde, si sa, l’adolescenza – benché tarda – è stagione devota al lirismo.
Così seguiamo la storia di Jim, che qui si fa chiamare ancora Jimbo, nella sua cittadina del West Virginia al passaggio fra anni Cinquanta e Sessanta – mentre tutt’intorno risuonano le note della “To know him is to love him” di Phil Spector, di “Scandalo al sole” e del rock’n’roll, e l’America è ancora “un lussureggiante giardino elettrico di canzoni per il vero amore degli adolescenti”.
La prima parte del romanzo è consacrata alla passione di Jimbo – che fa di tutto per assomigliare al James Dean “Ribelle senza Causa” di “Gioventù bruciata” e aggrotta la fronte e inarca le sopracciglia come lui – per la bionda sedicenne cattolicissima (bel casino, quanto al sesso) Judy. Storia d’amore tenera e commovente, che finirà molto male: perché la nostra santarellina, seppur probabilmente incinta dello stesso Jimbo, non si periterà di mettersi con l’odioso Bodine, e a nulla varranno i tentativi che Jimbo porrà in atto per riconquistarla – compresa l’intera liquidazione dell’infanzia, dei mitici giocattoli dell’infanzia, per regalare a Judy un mega-anello di fidanzamento.
Niente da fare: Judy se ne va. E a Jimbo non resta altro che sottrarre quella sfavillante Porsche Silver Ghost che lo aveva fatto sgolosare, e progettare di mettersi in viaggio verso Ovest (“Vai all’Ovest, ragazzo?” – siam sempre lì…), per vedere di incarnare in qualche modo i suoi sogni. Parte col fido Pace, ma sulla Porsche non viaggeranno poi più di tanto: fortuna o sfortuna vuole difatti che incontrino un sedicente amico fraterno di Jack Kerouac, che li scorrazzerà fino ad Atlantic City coinvolgendoli in un mare di guai…
La prima parte di “Silver Ghost” è a dir poco incantevole: Kinder sa rendere come nessuno il profumo, il colore, il sapore di quell’epoca a cavallo fra “Sulla strada” ed “American Graffiti”: e ne restituisce con divertimento e rimpianto, e un retrogusto di sentimentale, precoce “modernariato” (tener presente che il libro è del ’78), le icone indimenticabili: quei drive in, quei televisori, le luci delle città o delle cittadine che fanno brillare “umanamente” quelle notti non ancora abbagliate a morte dall’elettronica, quei giocattoli, quella musica, quel cinema – e Coca-cola alla ciliegia, e feste in piscina: lunghe estati calde, a precedere nevi ed inverni del nostro scontento… Questa era l’America, bambina… Poi, il ritratto del padre di Jimbo – un fanatico “eroe di guerra” macho e rozzissimo tutto preso dall’educazione virile dell’erede – risulta in tutta franchezza esilarante. Nel complesso, la seconda parte del libro, vale a dire la parte “on the road”, suona viceversa assai più di maniera.
Ma quel che soprattutto colpisce, nel romanzo, è il rintocco elegiaco che si avverte sul fondo della pagina – o di molte pagine. La Silver Ghost, che Jimbo aveva bramato, è finita in mano a Bodine, il suo acerrimo rivale. Ecco. Quanto più Kinder scrive al presente, tanto più avvertiamo che tutto ciò di cui sta raccontando ora è dissolto. E’ un presente storico lancinante, che fa venire i lucciconi: ben diverso, per fare un esempio, da quello – capace veramente di restituire ai nostri occhi e al nostro cuore il passato – che troviamo nella “Camera da letto” di Attilio Bertolucci. Come in “Lune di miele”, il libro dedicato alla vita da adulto (da adulto?) di Jim ed al suo matrimonio, nulla sembra resistere all’opera distruttrice del tempo.
Certo, possiamo provare a salvarli fra le pagine dei nostri romanzi: ma quei momenti, quei volti, quel “giardino” di canzoni sono passati per sempre, sono per sempre alle spalle – dissolti, non torneranno più.
– 17/01/2004
Diventare uomo
“Silver Ghost” di Chuck Kinder: ritorna l’impetuoso personaggio di Jimbo Stark, anima affamata di esperienze, incline al fantasticare, ansiosa di verificare i miti dei propri tempi
DOPO il successo di Lune di miele, Fazi ha pubblicato nell’ottima traduzione di Giovanna Scocchera un altro romanzo dell’americano Chuck Kinder, Silver Ghost, che ripropone, pur se più giovane di qualche anno, l’impetuoso personaggio di Jimbo Stark, anima inquieta e affamata di esperienze, incline al fantasticare e dunque ansiosa di verificare in prima persona i miti dei propri tempi: letterari (Kerouac, Camus, la beat generation) ma soprattutto cinematografici, da Gioventù bruciata a Scandalo al sole a Bonnie and Clyde. Per Jimbo raccontare se stesso, la sua ragazza e i suoi amici significa parlarne nei termini di James Dean e Natalie Wood, di Sal Mineo e di Sandra Dee. Sono queste le sue coordinate eroiche di diciassettenne che tra il 1959 e il 1960 cerca di imparare a crescere e diventare uomo. Per lui Silver Ghost, la mitica Porsche con il numero 130 sulla portiera e bordo della quale James Dean si è schiantato nella su ultima folle corsa, è un autentico mostro cult, persino più amato, almeno all’inizio, della radiosa e stuzzicante Judy, il cui fratello maggiore ha comprato i rottami dell’auto rimettendola a nuovo ma lasciando bloccato il tachimetro sulla velocità segnata al momento dell’impatto mortale. La vita, per questo aspirante beat on the road che ha qualcosa dell’Huck Finn di Mark Twain e del giovane Holden di Salinger, deve imitare un certo tipo di film, rendere carne la celluloide, ripercorrere un itinerario dolceamaro che non consente alcun risparmio di energie e ai cui rischi non è lecito sottrarsi. Un flusso continuo che contempla morti e rinascite, trasformazioni e reincarnazioni, cadute e riscatti, drammi e lieti fini. Il quotidiano di Jimbo e Judy, scandito dalle tradizionali forche caudine imposte a ogni ribelle adolescente (la routine casalinga, la scuola e il college, l’esilio in provincia dalla nonna), può allora squarciarsi di colpo, trasformare un idillio mal tollerato in un’appassionata tempesta nella quale i due riescono a immedesimarsi di volta in volta in James Dean e Natalie Wood, Warren Beatty e Faye Dunaway, Troy Donahue e Sandra Dee. Ma che succede, se nel corso di questo magico sogno hollywoodiano il protagonista s’imbatte in un avventuriero più cresciuto, i cui miti sono quelli di una lost generation ormai cinica, amara e disillusa? Sarà in grado il nostro eroe di passare da Gioventù bruciata a Casablanca, da Scandalo al sole a Il viale del tramonto? Come reagirà. lui che si sente il Sal Paradise di Sulla Strada, quando si troverà di fronte un adulto che si riconosce nel Jake Barnes di Fiesta e il cui modello non è James Dean ma lo Humphrey Bogart di Una pallottola per Roy; magari inasprito da qualche allusione a La foresta pietrificata? E se per caso il finale non fosse l’abbraccio pacificatorio tra John Wayne e Montgomery Clift di Il fiume rosso, bensì il braccio della morte lucidamente descritto da Caryl Chessman o l’abisso di La fossa dei serpenti? Sarebbe ancora possibile un’ultima metamorfosi consolante, magari, chissà un contrito ritorno a casa con la coda tra le gambe? Per muoversi con disinvoltura in questo strampalato “mondo di mezzo”, tra il fittizio e l’autentico, tra il fantasticato e il vissuto, tra la sofferenza e la spavalderia, senza cedere maldestramente alle tentazioni del grottesco o, sul versante opposto, del moralismo, occorre una bravura che Kinder dimostra di possedere; anche perché non sceglie la strada scontata del diario o della confessione in prima persona, ma narra il suo piccolo eroe con quell’affascinata partecipazione che scaturisce solo dal distacco.
– 07/09/2003
“Coast to coast” col fantasma
Silver Ghost: un titolo solo apparentemente traducibile. Perché questo “fantasma argentato” in realtà è un modello di Rolls Royce, che insieme al protagonista attraversa gli States, naturalmente da est ad ovest, verso la California. Giusto un anno fa (sul Domenicale del 15 settembre 2002) segnalammo un altro libro di Chuck Kinder, Lune di Miele. Il protagonista è lo stesso, Jim “Jimbo” Stark, ma ha vent’anni in meno (l’autore infatti è famoso anche per aver fatto passare 23 anni tra l’uscita dei due libri): veniamo quindi catapultati negli anni Cinquanta, anziché nei Settanta. Jimbo è un diciassettenne come tanti, di allora e forse anche di oggi: vorrebbe fare – o almeno apparire – il duro, anche se ricorda più Fonzie del telefilm Happy Days che James Dean. Eppure resta senza parole e senza fiato quando Judy, la sua ragazza, rifiuta un anello di fidanzamento comprato vendendo di nascosto la collezione di soldatini del padre.
Deluso dall’amore, incerto su ogni altra cosa, compreso il suo futuro, naturalmente, Jimbo opta per una classica, piccola grande fuga. A bordo della Silver Ghost punta verso la California e la raggiunge. In mezzo molto asfalto, incontri, belli e brutti, risse e bevute. Inutile dire che non bastano i chilometri, le novità, il tempo per pensare e riflettere, a far tacere l’inquietudine del ragazzo. In questo senso, potremmo dire, “la fine è nota”: Jimbo torna a casa sapendo che la realtà, per quanto si cerchi di fuggirla “è paziente e ti aspetta sempre alzata”. L’originalità di Silver Ghost non sta quindi nella storia in sé, ma nel quadro che Chuck Kinder dipinge per noi. Mostrandoci l’America degli anni Cinquanta attraverso gli occhi di un adolescente e allo stesso tempo con quelli dell’autore e della sua duplice nostalgia: per l’adolescenza, periodo magico almeno nel ricordo, e per un Paese che non esiste più, un’America che in mezzo secolo ha cambiato pelle e in cui intere generazione faticano oggi a riconoscersi.
– 09/09/2003
Siver Ghost di Chuck Kinder
Come la maggior parte dei suoi coetanei, il diciassettenne Jimbo è alla prese con la confusione, i turbamenti, la ribellione e le prime esperienze amorose dell’adolescenza. All’ombra di altri piccoli grandi eroi più o meno dela sua stessa età – l’Huck Finn di Mark Twain e il James Dean di Gioventù bruciata– Jimbo vive il suo amore adolescenziale con Judy. Per dimostrarle quanto la ama, affronta tempeste di neve, scazzottate, persino l’esilio, dopo che il padre ha scoperto che è stato lui a rubare e rivendere la sua preziosissima collezione di soldatini in miniatura, il tutto per comprare a Judy un anello di fidanzamento. Ma quando Judy lo rifiuta, Jimbo che, pur atteggiandosi a duro, ha un enorme bisogno di sentirsi amato, prova una delusione cocente.
E’ la scintilla che innesca il motore della sua inquietudine e che gli fa decidere di mettersi in viaggio sulla strada, di cercare una nuova identità lontano da tutto e da tutti, di ricostruirsi una vita inseguendo il mito della West Coast in compagnia di un simpatico e ambiguo truffatore che dice di essere il miglior amico di Jack Kerouac. Sfrecciando per le strade di un’America fine anni Cinquanta, Kinder ripercorre con ironia, affetto e un pizzico di nostalgia, i turbamenti e gli entusiasmi dell’adolescenza.
– 30/08/2003
Alla maniera di James Dean
Il romanzo dell’ultimo secolo dovrebbe approntare un dizionario dei personaggi bistrattati, in particolare di quelli che, anche se in maniera involontaria, poi fanno da motore alle vicende narrate, caratteri perlopiù odiati nel tempo della lettura e poi dimenticati, “bruciati” dall’alone della luce avventurosa e romantica dei perdenti di successo. Il romanzo tutto sarebbe tenuto a questo omaggio ma in particolare quello nordamericano. E’ una considerazione che viene naturale leggendo Silver Ghost di Chuck Kinder, autore di cui non diciamo molto essendo al centro di un vero e proprio culto e di un flusso di libri in cui negli ultimi due anni tutti, prima o poi, si sono imbattuti; è l’amico di Carver, è lo scrittore al centro di Wonder Boys – libro e film – nonché l’autore del romanzo Luna di miele atteso per 23 anni e lanciato grazie all’editing svolto dall’amico Scott Turow, etc.
Silver Ghost è un romanzo scritto venticinque anni fa, nel 1978, quando l’autore era poco più che trentenne, ed è ambientato tra il 1959 e il 1960 nella provincia americana ancora intrappolata negli anni Cinquanta e in modelli tranquillizzanti alla Happy days mentre i suoi figli più impazienti, nutriti di cinema e letteratura contro, cercano d’intercettare le inquietudini beat: la ribellione e la fuga per vedere l’America ( ma leggi soprattutto la meta californiana), per cercare di vivere senza la crostata della mamma, gli hobbies del papà e i balli annuali della scuola. E così che nel seguire pagina dopo pagina la fuga del diciassettenne Jimbo Stark, cinemaniaco di James Dean si vede e si descrive nelle sue fantasie come il Capitano Ribelle Senza Causa ( alludendo al titolo originale di Gioventù bruciata, Rebel Without a Cause, ed anche il titolo del libro richiama la celebre Porsche argentata da cui James Dean spiccò il salto per la morte e il mito), subito notiamo la superficialità amorosa di Judy, l’amore adolescenziale di Jimbo, e le troppe rigidità paterne del capitano padre, ex eroe di guerra ed ora padre e marito fallimentare ma meticoloso collezionista di armate di soldatini di ogni epoca.
Senza queste due figure, senza il tradimento che Judy farà a Jimbo e al loro sogno d’amore, senza l’incapacità di comprendere del padre (“Come mai i padri sono tutti delle teste di cazzo?” si dicono due quasi coetanei ed alter ego di Jimbo Stark, in Big Jane di Michael Cimino, forse il miglior romanzo del genere “gioventù in fuga” di ,questi ultimi decenni), senza questi non-eroi facilmente dimenticabili, personaggi ordinari e saziati dall’essere localmente identificati con la reginetta di bellezza e il grande eroe di guerra, Jimbo non sarebbe uscito da quello spazio casalingo e opulento della provincia americana, insomma senza questi banali personaggi – ed altri consimili stipati e dimenticati in decine di romanzi e film – non avremmo tutta quella poesia dello spazio americano, della sopravvivenza quotidiana frutto di espedienti non sempre leciti, non avremmo neppure quel sentimento di nostalgia per il quieto inferno abbandonato che solo a distanza può a volte affiorare, e non avremmo il vento che entra in macchina dai finestrini abbassati nella lunga notte americana e neppure l’autostop con annesso e immancabile incontro con l’ “altro”, spesso un misto tra un ingenuo cialtrone contaballe e un pericoloso adulto inceppatosi nello stesso mito del vivere la strada (patologia che passati gli anni della sacrosanta ribellione diventa lotta per farla franca dal lavoro e dalle polizia).
In Silver Ghost, che è tutto questo con spesso la perfezione di un déjà vu , quel cialtrone che incrocia la fuga di Jimbo e del suo amico Pace ( che però chiude il cerchio in anticipo e torna casa molto prima) si chiama Jake Barnes (nome che arriva direttamente da Fiesta di Hemingway) e dice di essere un grande amico di Jack Kerouac; porterà Jimbo a fare molte esperienze, alcune per niente lecite, e una non proprio gradita al nostro giovane “svincente” (così si tatua ad un certo punto) di successo. Jimbo Stark gira l’America con delle sue poesie in una tasca e, in una delle sue più belle fantasie, spera che, quando lo prenderanno, qualche buon poliziotto, come in un film, leggendole le apprezzerà e ne divulgherà la dolcezza e il sentimento di un’esistenza un po’ fuori asse rispetto al mondo degli altri:”Forse sono solo confuso. Credo di sentirmi incompreso”. E’ il sogno più bello del cinemaniaco Jimbo, la realtà difetterà di poesia e prosaicamente solo col passare del tempo sarà bello ricordare, magari davanti a una birra, quella giusta e lontana ribellione.
– 29/07/2003
In viaggio verso ovest
Jim Stark, chi era costui? Facile: il protagonista di uno dei più amabili romanzi americani usciti in Italia lo scorso anno, Lune di miele di Chuck Kinder. Testo monstre, cui Kinder aveva ossessivamente lavorato per oltre vent’anni – alle forbici di Scott Turow, peraltro, il compito di riportare poi il tutto a dimensioni più commestibili. Questo Lune di miele raccontava la storia di una bella amicizia, lanciata nell’arco che va dai Sessanta agli Ottanta, fra l’alter ego del narratore, appunto Jim Stark, e Ralph Crawford, dietro il cui pseudonimo era impossibile non riconoscere i tratti del padre riconosciuto del minimalismo letterario americano, Raymond Carver.
E a proposito di pseudonimi: il buon lettore di narrativa americana contemporanea non ignorerà che lo stesso Kinder a sua volta compariva, celato sotto il “nom de plume” di Grady Tripp, fra le pagine di Wonder boys di Michael Chabon (da cui poi il film con Douglas jr.): chi la fa, l’aspetti.
Bene: come si sarà capito, Jim Stark torna nelle nostre librerie anche quest’anno. Il libro che ce lo ripropone si intitola Silver Ghost, è uscito negli Stati Uniti nel 1978 (da noi lo ha appena pubblicato Fazi), e, nella scacchiera dell’ autobiografia (ben poco immaginaria) che Kinder va scrivendo, occupa la fatidica, immancabile casella degli “anni di apprendistato”.
Ma attenzione: se Lune di miele giocava su un registro epico, o a suo modo eroicomico, il registro di questo Silver Ghost è lirico; d’altronde, si sa, l’adolescenza – benché tarda – è stagione devota al lirismo.
Così seguiamo la storia di Jim, che qui si fa chiamare ancora Jimbo, nella sua cittadina del West Virginia al passaggio fra anni Cinquanta e Sessanta – mentre tutt’intorno risuonano le note della “To know him is to love him” di Phil Spector, di “Scandalo al sole” e del rock’n’roll, e l’America è ancora “un lussureggiante giardino elettrico di canzoni per il vero amore degli adolescenti”.
La prima parte del romanzo è consacrata alla passione di Jimbo – che fa di tutto per assomigliare al James Dean “Ribelle senza Causa” di Gioventù bruciata e aggrotta la fronte e inarca le sopracciglia come lui – per la bionda sedicenne cattolicissima (bel casino, quanto al sesso) Judy. Storia d’amore tenera e commovente, che finirà molto male: perché la nostra santarellina, seppur probabilmente incinta dello stesso Jimbo, non si periterà di mettersi con l’odioso Bodine, e a nulla varranno i tentativi che Jimbo porrà in atto per riconquistarla – compresa l’intera liquidazione dell’infanzia, dei mitici giocattoli dell’infanzia, per regalare a Judy un mega-anello di fidanzamento.
Niente da fare: Judy se ne va. E a Jimbo non resta altro che sottrarre quella sfavillante Porsche Silver Ghost che lo aveva fatto sgolosare, e progettare di mettersi in viaggio verso Ovest (“Vai all’Ovest, ragazzo?” – siam sempre lì…), per vedere di incarnare in qualche modo i suoi sogni. Parte col fido Pace, ma sulla Porsche non viaggeranno poi più di tanto: fortuna o sfortuna vuole difatti che incontrino un sedicente amico fraterno di Jack Kerouac, che li scorrazzerà fino ad Atlantic City coinvolgendoli in un mare di guai…
La prima parte di Silver Ghost è a dir poco incantevole: Kinder sa rendere come nessuno il profumo, il colore, il sapore di quell’epoca a cavallo fra Sulla strada ed American Graffiti: e ne restituisce con divertimento e rimpianto, e un retrogusto di sentimentale, precoce “modernariato” (tener presente che il libro è del ’78), le icone indimenticabili: quei drive in, quei televisori, le luci delle città o delle cittadine che fanno brillare “umanamente” quelle notti non ancora abbagliate a morte dall’elettronica, quei giocattoli, quella musica, quel cinema – e Coca-cola alla ciliegia, e feste in piscina: lunghe estati calde, a precedere nevi ed inverni del nostro scontento… Questa era l’America, bambina… Poi, il ritratto del padre di Jimbo – un fanatico “eroe di guerra” macho e rozzissimo tutto preso dall’educazione virile dell’erede – risulta in tutta franchezza esilarante. Nel complesso, la seconda parte del libro, vale a dire la parte “on the road”, suona viceversa assai più di maniera.
Ma quel che soprattutto colpisce, nel romanzo, è il rintocco elegiaco che si avverte sul fondo della pagina – o di molte pagine. La Silver Ghost, che Jimbo aveva bramato, è finita in mano a Bodine, il suo acerrimo rivale. Ecco. Quanto più Kinder scrive al presente, tanto più avvertiamo che tutto ciò di cui sta raccontando ora è dissolto. E’ un presente storico lancinante, che fa venire i lucciconi: ben diverso, per fare un esempio, da quello – capace veramente di restituire ai nostri occhi e al nostro cuore il passato – che troviamo nella Camera da letto di Attilio Bertolucci. Come in Lune di miele, il libro dedicato alla vita da adulto (da adulto?) di Jim ed al suo matrimonio, nulla sembra resistere all’opera distruttrice del tempo.
Certo, possiamo provare a salvarli fra le pagine dei nostri romanzi: ma quei momenti, quei volti, quel “giardino” di canzoni sono passati per sempre, sono per sempre alle spalle – dissolti, non torneranno più.
Jim Stark, chi era costui? Facile: il protagonista di uno dei più amabili romanzi americani usciti in Italia lo scorso anno, Lune di miele di Chuck Kinder. Testo monstre, cui Kinder aveva ossessivamente lavorato per oltre vent’anni – alle forbici di Scott Turow, peraltro, il compito di riportare poi il tutto a dimensioni più commestibili. Questo Lune di miele raccontava la storia di una bella amicizia, lanciata nell’arco che va dai Sessanta agli Ottanta, fra l’alter ego del narratore, appunto Jim Stark, e Ralph Crawford, dietro il cui pseudonimo era impossibile non riconoscere i tratti del padre riconosciuto del minimalismo letterario americano, Raymond Carver.
E a proposito di pseudonimi: il buon lettore di narrativa americana contemporanea non ignorerà che lo stesso Kinder a sua volta compariva, celato sotto il “nom de plume” di Grady Tripp, fra le pagine di Wonder boys di Michael Chabon (da cui poi il film con Douglas jr.): chi la fa, l’aspetti.
Bene: come si sarà capito, Jim Stark torna nelle nostre librerie anche quest’anno. Il libro che ce lo ripropone si intitola Silver Ghost, è uscito negli Stati Uniti nel 1978 (da noi lo ha appena pubblicato Fazi), e, nella scacchiera dell’ autobiografia (ben poco immaginaria) che Kinder va scrivendo, occupa la fatidica, immancabile casella degli “anni di apprendistato”.
Ma attenzione: se Lune di miele giocava su un registro epico, o a suo modo eroicomico, il registro di questo Silver Ghost è lirico; d’altronde, si sa, l’adolescenza – benché tarda – è stagione devota al lirismo.
Così seguiamo la storia di Jim, che qui si fa chiamare ancora Jimbo, nella sua cittadina del West Virginia al passaggio fra anni Cinquanta e Sessanta – mentre tutt’intorno risuonano le note della “To know him is to love him” di Phil Spector, di “Scandalo al sole” e del rock’n’roll, e l’America è ancora “un lussureggiante giardino elettrico di canzoni per il vero amore degli adolescenti”.
La prima parte del romanzo è consacrata alla passione di Jimbo – che fa di tutto per assomigliare al James Dean “Ribelle senza Causa” di Gioventù bruciata e aggrotta la fronte e inarca le sopracciglia come lui – per la bionda sedicenne cattolicissima (bel casino, quanto al sesso) Judy. Storia d’amore tenera e commovente, che finirà molto male: perché la nostra santarellina, seppur probabilmente incinta dello stesso Jimbo, non si periterà di mettersi con l’odioso Bodine, e a nulla varranno i tentativi che Jimbo porrà in atto per riconquistarla – compresa l’intera liquidazione dell’infanzia, dei mitici giocattoli dell’infanzia, per regalare a Judy un mega-anello di fidanzamento.
Niente da fare: Judy se ne va. E a Jimbo non resta altro che sottrarre quella sfavillante Porsche Silver Ghost che lo aveva fatto sgolosare, e progettare di mettersi in viaggio verso Ovest (“Vai all’Ovest, ragazzo?” – siam sempre lì…), per vedere di incarnare in qualche modo i suoi sogni. Parte col fido Pace, ma sulla Porsche non viaggeranno poi più di tanto: fortuna o sfortuna vuole difatti che incontrino un sedicente amico fraterno di Jack Kerouac, che li scorrazzerà fino ad Atlantic City coinvolgendoli in un mare di guai…
La prima parte di Silver Ghost è a dir poco incantevole: Kinder sa rendere come nessuno il profumo, il colore, il sapore di quell’epoca a cavallo fra Sulla strada ed American Graffiti: e ne restituisce con divertimento e rimpianto, e un retrogusto di sentimentale, precoce “modernariato” (tener presente che il libro è del ’78), le icone indimenticabili: quei drive in, quei televisori, le luci delle città o delle cittadine che fanno brillare “umanamente” quelle notti non ancora abbagliate a morte dall’elettronica, quei giocattoli, quella musica, quel cinema – e Coca-cola alla ciliegia, e feste in piscina: lunghe estati calde, a precedere nevi ed inverni del nostro scontento… Questa era l’America, bambina… Poi, il ritratto del padre di Jimbo – un fanatico “eroe di guerra” macho e rozzissimo tutto preso dall’educazione virile dell’erede – risulta in tutta franchezza esilarante. Nel complesso, la seconda parte del libro, vale a dire la parte “on the road”, suona viceversa assai più di maniera.
Ma quel che soprattutto colpisce, nel romanzo, è il rintocco elegiaco che si avverte sul fondo della pagina – o di molte pagine. La Silver Ghost, che Jimbo aveva bramato, è finita in mano a Bodine, il suo acerrimo rivale. Ecco. Quanto più Kinder scrive al presente, tanto più avvertiamo che tutto ciò di cui sta raccontando ora è dissolto. E’ un presente storico lancinante, che fa venire i lucciconi: ben diverso, per fare un esempio, da quello – capace veramente di restituire ai nostri occhi e al nostro cuore il passato – che troviamo nella Camera da letto di Attilio Bertolucci. Come in Lune di miele, il libro dedicato alla vita da adulto (da adulto?) di Jim ed al suo matrimonio, nulla sembra resistere all’opera distruttrice del tempo.
Certo, possiamo provare a salvarli fra le pagine dei nostri romanzi: ma quei momenti, quei volti, quel “giardino” di canzoni sono passati per sempre, sono per sempre alle spalle – dissolti, non torneranno più.
Jim Stark, chi era costui? Facile: il protagonista di uno dei più amabili romanzi americani usciti in Italia lo scorso anno, Lune di miele di Chuck Kinder. Testo monstre, cui Kinder aveva ossessivamente lavorato per oltre vent’anni – alle forbici di Scott Turow, peraltro, il compito di riportare poi il tutto a dimensioni più commestibili. Questo Lune di miele raccontava la storia di una bella amicizia, lanciata nell’arco che va dai Sessanta agli Ottanta, fra l’alter ego del narratore, appunto Jim Stark, e Ralph Crawford, dietro il cui pseudonimo era impossibile non riconoscere i tratti del padre riconosciuto del minimalismo letterario americano, Raymond Carver.
E a proposito di pseudonimi: il buon lettore di narrativa americana contemporanea non ignorerà che lo stesso Kinder a sua volta compariva, celato sotto il “nom de plume” di Grady Tripp, fra le pagine di Wonder boys di Michael Chabon (da cui poi il film con Douglas jr.): chi la fa, l’aspetti.
Bene: come si sarà capito, Jim Stark torna nelle nostre librerie anche quest’anno. Il libro che ce lo ripropone si intitola Silver Ghost, è uscito negli Stati Uniti nel 1978 (da noi lo ha appena pubblicato Fazi), e, nella scacchiera dell’ autobiografia (ben poco immaginaria) che Kinder va scrivendo, occupa la fatidica, immancabile casella degli “anni di apprendistato”.
Ma attenzione: se Lune di miele giocava su un registro epico, o a suo modo eroicomico, il registro di questo Silver Ghost è lirico; d’altronde, si sa, l’adolescenza – benché tarda – è stagione devota al lirismo.
Così seguiamo la storia di Jim, che qui si fa chiamare ancora Jimbo, nella sua cittadina del West Virginia al passaggio fra anni Cinquanta e Sessanta – mentre tutt’intorno risuonano le note della “To know him is to love him” di Phil Spector, di “Scandalo al sole” e del rock’n’roll, e l’America è ancora “un lussureggiante giardino elettrico di canzoni per il vero amore degli adolescenti”.
La prima parte del romanzo è consacrata alla passione di Jimbo – che fa di tutto per assomigliare al James Dean “Ribelle senza Causa” di Gioventù bruciata e aggrotta la fronte e inarca le sopracciglia come lui – per la bionda sedicenne cattolicissima (bel casino, quanto al sesso) Judy. Storia d’amore tenera e commovente, che finirà molto male: perché la nostra santarellina, seppur probabilmente incinta dello stesso Jimbo, non si periterà di mettersi con l’odioso Bodine, e a nulla varranno i tentativi che Jimbo porrà in atto per riconquistarla – compresa l’intera liquidazione dell’infanzia, dei mitici giocattoli dell’infanzia, per regalare a Judy un mega-anello di fidanzamento.
Niente da fare: Judy se ne va. E a Jimbo non resta altro che sottrarre quella sfavillante Porsche Silver Ghost che lo aveva fatto sgolosare, e progettare di mettersi in viaggio verso Ovest (“Vai all’Ovest, ragazzo?” – siam sempre lì…), per vedere di incarnare in qualche modo i suoi sogni. Parte col fido Pace, ma sulla Porsche non viaggeranno poi più di tanto: fortuna o sfortuna vuole difatti che incontrino un sedicente amico fraterno di Jack Kerouac, che li scorrazzerà fino ad Atlantic City coinvolgendoli in un mare di guai…
La prima parte di Silver Ghost è a dir poco incantevole: Kinder sa rendere come nessuno il profumo, il colore, il sapore di quell’epoca a cavallo fra Sulla strada ed American Graffiti: e ne restituisce con divertimento e rimpianto, e un retrogusto di sentimentale, precoce “modernariato” (tener presente che il libro è del ’78), le icone indimenticabili: quei drive in, quei televisori, le luci delle città o delle cittadine che fanno brillare “umanamente” quelle notti non ancora abbagliate a morte dall’elettronica, quei giocattoli, quella musica, quel cinema – e Coca-cola alla ciliegia, e feste in piscina: lunghe estati calde, a precedere nevi ed inverni del nostro scontento… Questa era l’America, bambina… Poi, il ritratto del padre di Jimbo – un fanatico “eroe di guerra” macho e rozzissimo tutto preso dall’educazione virile dell’erede – risulta in tutta franchezza esilarante. Nel complesso, la seconda parte del libro, vale a dire la parte “on the road”, suona viceversa assai più di maniera.
Ma quel che soprattutto colpisce, nel romanzo, è il rintocco elegiaco che si avverte sul fondo della pagina – o di molte pagine. La Silver Ghost, che Jimbo aveva bramato, è finita in mano a Bodine, il suo acerrimo rivale. Ecco. Quanto più Kinder scrive al presente, tanto più avvertiamo che tutto ciò di cui sta raccontando ora è dissolto. E’ un presente storico lancinante, che fa venire i lucciconi: ben diverso, per fare un esempio, da quello – capace veramente di restituire ai nostri occhi e al nostro cuore il passato – che troviamo nella Camera da letto di Attilio Bertolucci. Come in Lune di miele, il libro dedicato alla vita da adulto (da adulto?) di Jim ed al suo matrimonio, nulla sembra resistere all’opera distruttrice del tempo.
Certo, possiamo provare a salvarli fra le pagine dei nostri romanzi: ma quei momenti, quei volti, quel “giardino” di canzoni sono passati per sempre, sono per sempre alle spalle – dissolti, non torneranno più.
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– 22/07/2003
Silver Ghost di Chuck Kinder
Ho scoperto Kinder l’anno scorso con Lune di miele,
Silver Ghost invece è il suo primo romanzo, scritto nel 1978,
e di quell’epoca ha tutto il sapore, il ritmo, il linguaggio,
nonostante la storia sia ambientata nel Sessanta.
E il “fantasma” del titolo? Un Porsche del’55 argento metallizzato, come quella di James Dean,
mitizzata dai giovani personaggi del titolo, personaggio essa stessa delle loro scorribande.
– 25/07/2003
Kinder, il riscatto della gioventù ribelle
“Tu non sei mica i tuoi personaggi, sono i tuoi personaggi ad essere te” : in questa frase c’è tutta la poetica di Chuck kinder, e la chiave per godere fino in fondo della bellezza dei suoi romanzi. Che ora sono due, qui in Italia, poiché dopo Lune di miele, dello scorso autunno, Fazi ha appena pubblicato anche Silver Ghost, scritto nel 1978. Dunque vediamo di venire a capo di questa frase: si trova a pagina 66 di Lune di miele, nel bel mezzo di un lungo esilarante capitolo nel quale Ralph Crawford e Jim Stark, i due protagonisti, e le loro mogli, consumano in un ristorante greco una ricca cenetta che non potranno pagare. Ma si dà il caso che a quei due nomi Chuck Kinder abbia assegnato il compito di immortalare la versione letteraria di due personaggi reali, cioè Raymond Carver e lui stesso, della cui tumultuosa amicizia dà conto in maniera leggendaria. La frase la pronuncia Ralph, cioè Carver, ma gli è stata detta anni addietro da John Cheever (il vero John Cheever), che nella realtà e notoriamente stato uno dei maestri di Carver, e così pure di Ralph Crawford nel romanzo. Se non fosse che, a complicare le cose, sopraggiunge una dichiarazione fatta da Chuck Kinder stesso, l’anno scorso, in mia presenza, proprio durante la presentazione di Lune di miele a Milano, secondo la quale quella frase nella realtà non è stata pronunciata da John Cheever ma da John Gardner, che di Carver è stato insegnante di scrittura. Rileggiamola: “Tu non sei mica i tuoi personaggi, sono i tuoi personaggi ad essere te”. E riflettiamoci alla luce di questo corto circuito Carver-Cheever-Gardner messo su da Chuck Kinder a pagina 66 di un suo romanzo autobiografico che di pagine ne conta quasi quattrocento.
Stacco. Ora leggiamo Silver Ghost, pubblicato in America 23 anni prima di – anni nei quali Kinder è diventato un mito, per la sua misteriosa biografia, per le sue sembianze da camionista, per il romanzo su Carver che stava scrivendo e non pubblicava mai, e per essere stato a sua volta trasformato in personaggio letterario da Michael Chabon, nel suo bestseller Wonderboys. Leggiamo l’opera seconda di uno scrittore poco più che trentenne, ma la leggiamo dopo aver letto e saputo tutto questo. Il protagonista diciassettenne del romanzo si chiama di nuovo Jim (Jimbo) Stark: cioè, poiché è venuto dopo, è l’alter-ego di Kinder in Lune di miele a chiamarsi come lui. E ci imbattiamo in un magistrale romanzo di formazione americano basato sullo schema del baseball: l’eroe che lascia la casa base, affronta gli avversari schierati, rimane solo e da solo ritorna alla casa base. Vittorioso ma anche sconfitto: “svincente”, come sta scritto nel tatuaggio che alla fine Jimbo cerca di cancellarsi dall’avambraccio fino a scorticarsi. Le fonti mitologiche che zampillano nella testa confusa del giovane Jimbo Stark sono tutte dichiarate, sono tutte parte del romanzo: da James Dean di Gioventù bruciata a Sal Paradise di Sulla strada, a Kerouac stesso, fino a Hemingway, Bogart, Natalie Wood, Sal Mineo, Nicholas Ray, tutti non solo menzionati ma messi in scena da Kinder. La storia è ambientata nei tardi anni ’50, e nella sua dinamica (amore tradito-ribellione al padre-fuga nel nulla), ricorda altre storie ancora, oltre a quelle citate, come Splendore nell’erba di Elia Kazan, L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovic o i romanzi di John Fante. E lo stile è mimetico, tosto ed esilarante come in Lune di miele, il che fa di Silver Ghost un romanzo molto divertente.
Ma nel rompicapo del “chi è chi” che questa volta si complica parecchio (chi è Jake Barnes, il favoloso personaggio che compare a metà del romanzo, e accompagna Jimbo Stark fino al disincanto?), si accende il faro di un finale straordinario, realistico come un dipinto di David Hockey e allo stesso tempo simbolico e arcano come una scena di David Lynch: tutta la ridda di personaggi veri e finti che si affollano nella testa e nell’essenza di Jimbo Stark viene prima seminata nel paesaggio della pubblicità della birra Hamm’s dietro al bancone di un bar, e poi lasciata precipitare nel vuoto dall’”altra parte” di quel paesaggio, l’altra metà del mondo, quella invisibile, e indicibile, dove è tutto buio e mistero e tentativo.
Lì, io credo, in quell’altrove, si chiude lo straordinario cerchio vitale di Chuck Kinder, scrittore, amico di Carver, grande outsider, personaggio letterario proprio e altrui, maestro, coltivatore di miti e mito lui stesso, leggenda umana in sembianze da camionista. Lì dove il giovane Jim Stark si perde e si ritrova, alla fine di , in quella “dark side” dell’America più stereotipata e qualsiasi, sta il buco nero che implode l’immenso talento e il pazzesco abbraccio al mondo di questo invidiabile scrittore, che non è nessuno dei suoi personaggi per la semplice ragione che sono i suoi personaggi a essere lui.
– 10/07/2003
Un guru letterario dalla prosa spericolata
Unica avvertenza; reggetevi forte e preparatevi ad affrontare le curve di un prosa spericolata, straripante. Ma non perdete l’occasione di salire a bordo di quella Porsche argento metallizzata, della rombante Silver Ghost che fa finalmente tappa in libreria. Al volante troverete un pilota d’eccezione, Chuck Kinder, un vero guru della letteratura americana, lo scrittore la cui vita ha ispirato Wonder boys, il film tratto dal libro di Michael Chabon e interpretato sul grande schermo da Michael Douglas. Ricorderete la storia del romanziere che non è mai convinto che le sue opere siano pronte per la pubblicazione. Ebbene, Kinder ha impiegato qualcosa come 23 anni per far uscire Lune di miele, la storia di una straordinaria amicizia tra due giovani aspiranti scrittori: un’opera apparsa solo nel 2001, ma già discussa, acclamata e trasformata in caso letterario ancor prima della sua pubblicazione. I temi di Lune di miele – quegli stessi autodafé esistenziali, quella stessa ricerca comica, amara, disperata di autenticità – sono tuttavia anticipati da Kinder in un altro romanzo, uscito nel 1978, prima che lo scrittore si rinchiudesse nel suo ventennale e disciplinato silenzio: è Silver Ghost, il libro che viene domani pubblicato da Fazi e di cui anticipiamo il prologo (263 pagg., 16 euro, nella bella traduzione di Giovanna Scocchera). A sfrecciare tra i capitoli del romanzo è un Porsche metallizzata, la leggendaria Silver Ghost, che attraversa le strade di un’America fine anni Cinquanta. E che permette a Kinder di ripercorrere con la sua verve grottesca e amara le speranze e il disagio nevrotico dell’adolescenza. Protagonista del racconto è infatti un ragazzo diciassettenne, Jimbo Stark (lo ritroveremo in Lune di miele), che ferito da una delusione d’amore decide di partire, di cercare una nuova identità lontano da tutto e da tutti, inseguendo il mito della West Coast. Inizia così in viaggio strampalato e picaresco, ma anche arrabbiato, condito di risse, sbornie e depressioni. Come per Kerouac, anche per Kinder ciò che importa non è arrivare, ma andare, muoversi indefinitamente per esorcizzare un’ansia e un male di vivere. Ma a differenza di Kerouac, l’autore di Silver Ghost offre sempre un divertimento scanzonato, ribelle: un senso comico che non è mai in contrasto con la volontà sincera di fondare un nuovo stile di vita e di pensiero.