Riabilitazioni, sperimentazioni, illusioni

•   Il blog di Fazi Editore
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In tempo di Ice Bucket Challenge, e di iniziative di sensibilizzazione per la Sla, vogliamo ricordare ai nostri lettori una testimonianza d’eccezione. Quella della scrittrice Cesarina Vighy, Premio Campiello Opera prima nel 2009 con il suo L’ultima estate, romanzo dai forti toni autobiografici, scritto durante il decorso di questa devastante malattia e a pochi mesi dalla morte.
Ecco i link delle due principali Onlus italiane che si occupano dei malati di Sla:
Aisla: http://www.aisla.it/
Viva la vita:  http://www.wlavita.org/

Un estratto da L’ultima estate:

Riabilitazioni, sperimentazioni, illusioni

All’inizio, la mia malattia non mi faceva molta paura. Forse per il nome, così scientifico e asettico da non risvegliare simbolismi radicati e da mal riassumersi in una sigla memorizzabile, forse per quei due aggettivi “cronica e inguaribile” che si adattavano a troppe condizioni: la vecchiaia, per esempio, non è anch’essa cronica e inguaribile?
Avrei dovuto fare più attenzione al termine “degenerativa” ma pensando ai degenerati che si divertono a farsi frustare mi veniva subito da ridere. Inoltre, il medico mi aveva assicurato che avrei mantenuto le mie facoltà mentali intatte sino alla fine: allora la scambiai per una promessa mentre ora capisco che si trattava di una minaccia.
Per far più peso, aggiungiamoci anche il pizzico di buffa vanità per un male che colpisce una persona su cinquantamila (cinquantamila: gli abitanti di una piccola città!). Ridete, ridete pure ma io conosco una persona che sostiene di avere un malanno condiviso solo da trenta abitanti del pianeta: lui ha conosciuto attraverso la rete gli altri ventinove, una specie di casta, di razza predestinata chissà a che, con cui corrisponde on line godendo moltissimo. E poi, in questa prima fase, in cui ti muovi ancora decentemente e parli male ma in modo comprensibile, ti prende un’eccitazione, un’esaltazione: è la fase trionfalistica, quella in cui ti sembra di aver guadagnato almeno quanto hai perso e di essere stato scelto per qualcosa di oscuro ma importante.
La sensazione, spesso giustificata, di capire meglio gli altri, di penetrarne quasi i pensieri, unita alla sicurezza del pieno possesso del proprio cervello, fa sopravvalutare quest’ultimo a scapito delle più umili espressioni corporali che si prenderanno alla fine la loro vendetta, devastandoti.
Così, quando qualcuno buttò lì la paroletta “riabilitazione”, e il professor Muso-di-topo fu lesto ad acchiapparla e ad agitarmela davanti come un lecca lecca premio, anche a me sembrò cosa buona e giusta. In verità, servì a entrambi per prendere e perdere tempo.
L’ospedale cui mi indirizzò (per intendersi, quello in cui si faceva il karaoke in carrozzella) era molto bello.
Attiguo a un castello medievale papalino, ne conservava incorporati gli imponenti muraglioni. Grande giardino, abitato da una miriade di uccelli furbi, sicuri che lì non sarebbe entrato nessuno con reti o fucile. Dentro, era tutto uno splendere di detersivi: un vero peccato, in fondo, che ospitasse solo dei malati.
Lì imparai a districarmi in quel piccolo mondo chiuso, dove sono in vigore altri usi, altre abitudini, altre leggi.
Cominciai a osservare le divise, cui di solito diamo un’occhiata talmente distratta da ricordare appena se si trattasse di camici o di casacche. Distinzione importantissima, invece, perché rivela gerarchie e ascese nella scala sociale: il camice bianco spetta solo ai medici e a chiunque abbia la qualifica di capo; l’azzurro-verde e le casacche sono per gli altri. Benché tutte le divise vengano accuratamente descritte e prescritte nei regolamenti interni (scollo a V, tre bottoni, tasche sovrapposte, pantaloni unisex), la vanità, l’individualismo e i troppo frequenti lavaggi antimacchia, che sbiadiscono colori e bordini, rendono inutile il fine per cui sono nate facendoci scambiare spesso un generale per un caporale. L’importante, in ogni caso, è capire dove sta il potere: nei portantini e nelle capo sala. I primi possono bloccare il meccanismo che fa funzionare l’intero ospedale; le seconde, fiduciarie e portavoce dei medici ma insieme provenienti dalla stessa classe sociale dei sottoposti, ne conoscono gli umori e quindi sanno dosare a perfezione bastone e carota.
Quanto ai terapisti, possono essere grosso modo divisi in due categorie: i semplici e i composti. I semplici badano a far bene il loro lavoro, hanno un equo rapporto col denaro e la loro aspirazione massima è la laurea triennale che, a parer loro, li innalzerebbe quasi all’altezza dei veri dottori.
I composti sono più inquieti, più spirituali, e svolgono spesso il loro compito come una missione salvifica per i malati e per se stessi, il che non è detto che sia sempre il meglio. La mia logopedista era così: simpatica, intelligente, amante della poesia e del teatro. Naturalmente, passavamo quasi tutta l’ora destinatami a chiacchierare dimenticando i palloncini da gonfiare e  le cannucce da succhiare. Veniva da molte esperienze dolorose, tra cui un tentato suicidio.
Aspiranti suicidi, attenzione! In questa fase iniziale, trionfalistica, per chi non abbia remore religiose sembra la soluzione ideale per evitare, alzando la mano su di sé, che altri (chi?) sia più svelto ad alzarla. Così, con uno scatto di dignità da antico romano, ce ne possiamo andare liberi, senza assistere e offrire spettacolo di troppa degradazione.
Quando eravamo molto giovani (e solo questo ci scusa), mio marito e io avevamo progettato questa uscita di sicurezza, sull’esempio di molte coppie socialiste dell’Ottocento. Non ci mettemmo d’accordo solo perché, data la differenza di età tra noi, non ci sapevamo decidere a quale anno della vita avremmo dovuto mettere fine. Brigitte Bardot, nell’era del musetto imbronciato e della coda di cavallo, aveva detto una bestialità più grossa ancora: che si sarebbe suicidata a trent’anni. Oggi è una gattara spettinata quanto me.
Attenti, compagni di sventura che ormai siete i destinatari di questo piccolo vademecum che si va componendo quasi da solo. L’homo sapiens è l’animale più adattabile che sia mai comparso, senza scomparire, sulla faccia della terra. Via i dinosauri, via i mammuth ma l’essere umano è sempre qui. Perché si è piegato, senza pregiudizi ma non senza disgusto, a mangiar carne o erba, secondo le carestie. Quando credeva di essere civilizzato perché parlava, camminava dritto e si vestiva, magari di una giacchetta a strisce con una stella gialla cucita sopra, ha mangiato bucce di patate, spazzatura, cuoio bollito. Altri, diversi, hanno tradito, venduto i figli, prostituito le figlie, per sopravvivere. Alla fine si accetta tutto, credete a me che odio la bruttezza, la sporcizia, la dipendenza dagli altri, la malattia e, sì, anche i malati: l’umiliante istinto di sopravvivenza ha la meglio.
Alto, attraente senza la consapevolezza di esserlo, attratto anche lui dall’idea dell’autodistruzione in un periodo penoso del suo passato, era invece fortunatamente ancora vivo il mio psicoterapeuta dagli eleganti stivaletti (un regalo della moglie molto amata): passammo insieme ore piacevoli discutendo molto seriamente della rava e della fava. Cominciò a calare nella mia stima quando mi restituì un libro, a mio parere bellissimo, confessandomi candidamente di non averlo letto perché le sue preferenze andavano alle opere che attenevano alla sua materia. Crollò addirittura consigliandomi un film pieno di buone intenzioni andate a male. Il suo idolo era Nelson Mandela.
Lasciai l’ospedale avendo fatto molte osservazioni interessanti ma nessuna riabilitazione.
Da allora sono passati quasi due anni durante i quali ho visto regolarmente, a scadenze trimestrali, Musodi-topo. Io gli portavo spiritosi resoconti dei progressi fatti dalla mia malattia che ormai aveva imparato a camminare al posto mio; lui scriveva e scriveva su dei grandi fogli che sarebbero andati a ingrossare, ne ero sicura, il suo personale Libro dei Morti.
Un giorno, facendola cadere un po’ dall’alto, mi ha fatto una proposta: volevo partecipare, diciamo così da “privatista”, a una sperimentazione da cui ero ufficialmente esclusa in quanto un po’ più avanti degli altri nella parabola discendente? Naturalmente ero liberissima di accettare o no, di smettere quando volessi ecc. ecc. ecc.
È inutile: questi dottori ne sanno una più del diavolo su come indurre i condannati a infilare la testa nel cappio di propria volontà, contenti e anche riconoscenti.
Ho accettato incuriosita: in fondo si trattava solo di assumere piccole quantità quotidiane di una sostanza che aveva avuto il suo quarto d’ora di celebrità quando si era diffusa la voce che servisse a tenere a posto i nervi di un uomo politico particolarmente decisionista e la lingua troppo sciolta di un presidente emerito della Repubblica.
Ho cominciato piena di buona volontà, sopportando i buchi sulle braccia e sulle mani provocati dai frequentissimi prelievi di sangue per il controllo (Musodi-topo era anche scrupoloso) ma, quando mi sono accorta che la pipì diventava troppo frequente e abbondante, sono stata presa da quel terrore di sporcarmi che è appannaggio delle creature civilizzate. E così una notte, correndo, si fa per dire, verso il bagno, mi sono rovesciata col carrellino e tutto, aggiungendo ai miei trofei di guerra (ematomi a non finire, due costole incrinate, tre vertebre rotte) la frattura dell’osso sacro.
Ero la prima vittima della sperimentazione che aveva già visto il sacrificio di centinaia di topolini, loro sì veramente innocenti.
Quando, facendomi coraggio, ho riferito al professore le previsioni nefaste, avveratesi puntualmente, già contenute nel foglietto di avvertenze accluso al farmaco, lui mi ha risposto serafico che, essendo la sostanza nata per curare i “matti”, tali avvertenze erano dirette a loro, tendenti per natura ad assumerne doppie, triple, quadruple dosi.
Da quel momento, mi sono persuasa che le malattie rare sono il vero brodo di coltura delle illusioni. Che cuociano in quel brodo allora e i curanti che non curano ci lascino in pace: non abbiamo nessuna voglia di strappare il velo di Maya o di vedere in faccia Medusa coi suoi capelli-serpenti che si muovono piano piano.
Oltre tutto, ci pietrificherebbe, dopo.
Ho letto, meravigliandomene scioccamente, che le persone curate nel modo a noi consueto (dottori, esami, ricette, raggi, medicinali) sono un’assoluta minoranza sul pianeta, raggruppata tutta nei paesi tecnologicamente civilizzati. Il resto dell’umanità usa la preghiera, le erbe, i maghi, i pianti, le danze, gli scongiuri.
Tra quelle pagine ho trovato la cura che vorrei: lo sciamano viene nella tua tenda, guarda il tuo corpo, per molto tempo ti tiene una mano fra le sue; poi, ti mette una cacca di cervo sulla fronte promettendoti di tornare l’indomani. E ritorna.

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