A cinque anni dall’esordio in narrativa e a quattro dalla morte di Cesarina Vighy, pubblichiamo il testo, apparso su la Repubblica il 20 giugno del 2009, da lei scritto in occasione del 21 giugno, giornata mondiale per la lotta contro la Sla.
L’inizio è stato il solito. Inciampare su di un sanpietrino, cadere lunga distesa per la strada fra la gente che ti viene a tirar su strattonandoti malamente per le braccia nella fretta di soccorrerti, facendoti solo vergognare. Maledetti sanpietrini. Che però la seconda volta non ci sono, c’è un bell’asfalto liscio. E allora? Troppo liscio? Intanto, la lingua si inceppa un po’ su qualche consonante, senza dubbio per il nervoso.
Ero di quelli che quando vanno a portar fiori a un malato, all’ospedale, si sentono più sani per contrasto e, camminando per i corridoi odorosi di disinfettante, per istinto raddrizzano la schiena, come a negare l’appartenenza a quel mondo di larve in pigiama. Mi sentivo invincibile, al sicuro, tenendomi alla larga da malati, farmaci e medici. “Trovano le malattie”, dicevo, sottintendendo che poi non sanno curarle.
Passò l’angelo e disse amen. Ora sono io una larva in pigiama. Una larva un po’ grassoccia perché non so più camminare. Un nervoso continuo, perché non so più parlare.
Chi manda le malattie? Chi si diverte a lanciare sassi da un cavalcavia per cogliere sconosciuti? Non si pente mai?
Passò l’ angelo e disse amen. II Caso (voi chiamatelo come volete, persino Dio) per una volta si accorse di essere stato troppo malvagio. Tornare indietro non poteva, gli amici del cavalcavia l’avrebbero preso in giro per sempre. Andare avanti l’avrebbe reso simile agli umani, la peggior disgrazia possibile. Decise allora di dare una chance, una sola, a quella larva disperata. Aveva sempre desiderato scrivere un libro? Bene, che lo scrivesse se ne era capace. Conoscesse i dolori del parto, l’insoddisfazione, l’incontentabilità, le punture di spillo degli amici, le coltellate degli invidiosi, e poi non se ne parlasse più. La sua chance l’aveva avuta, i conti erano pareggiati, pensò il Caso che cominciava già a pentirsi di quella debolezza.
E la larva in pigiama si mise a scrivere, con furia, aggrappandosi al fio della salvezza, come aveva fatto la madre cattiva di San Pietro con la testa d’aglio donata alla vicina, unica buona azione della sua vita. Ma se lei, scalciando contro i compagni di sventura desiderosi di profittare della possibilità datale, si fece cacciare definitivamente dal Paradiso, la larva in pigiama il suo Paradiso se lo conquistò: strisciando con le gambe inutili aggrappata al deambulatore, raggiungeva anche di notte l’amico computer che fremeva al più lieve tocco della mano sui tasti (non come quella stupida della penna che, nel momento di toglierle il cappuccio, resisteva come una vergine allo stupro). Perché anche gli oggetti sono ostili a questi malati. La bottiglia il cui tappo non si svita: tu muori di sete e allora devi inventarti qualcosa, per esempio usare lo schiaccianoci. Riscopri il principio della leva e ti pare di essere Archimede, quello che prometteva di sollevarci il mondo. Invece, con il semplice giornale non c’è leva che tenga. Alzarlo, spiegarlo, ripiegarlo per leggere la pagina che interessa somiglia più a una fatica di Ercole.
Per pesare, pesa troppo; lasci dunque cadere a terra le prime pagine, che volteggiano un po’ per aria come le foglie esterne di una rosa, le prime ad appassire.
Ma io, la larva cocciuta, ho provato intanto l’estasi della scrittura e non mi importa più niente di bottiglie e di giornali. Scrivo e scrivo, con una facilità e una felicità mai provate prima: quasi ho dimenticato la sfida a resistere per riversare nel mio libro quello che mi è capitato nella vita di bello e di brutto, entro ed esco dalla malattia come un fantasma attraversa i muri, beffando chi si ferma davanti a una porta chiusa. La prima persona, la terza, il personaggio che dice “io”, il narratore onnisciente: li lascio tutti in omaggio ai critici che ci si divertono come bimbi coi trenini. Ho qualcosa di meglio da fare, io: recuperare la mia vita che sembrava ormai spezzata in due tronconi, prima della malattia e dopo la malattia. Solo ora ho scoperto che ci si può stare anche “dentro”, profittando di quel dono avvelenato che ci hanno fatto: mantenere la mente lucida, forse più lucida di prima, sino alla fine. Via il pigiama, lavarsi o farsi lavare, vestirsi o farsi vestire: è un viaggio che ci aspetta, lungo o corto che sia.
I miracoli li facciamo noi.