In occasione della ricorrenza del compleanno di Cesarina Vighy, a cinque anni dall’esordio in narrativa e a quattro dalla morte, pubblichiamo un suo testo, apparso su Il Corriere della sera l’8 giugno del 2009.
«La mia vita è un romanzo», attaccavano i seduttori da strapazzo di un tempo, alludendo magari ai feuilleton, ricchi di infanti scambiati, fughe incredibili, passioni violente, viaggi in terre lontane, agnizioni con lieto fine annesso. In verità, ogni vita è un romanzo, anche se la si passa a osservare il brulichio di un formicaio; nel frattempo, i romanzi si sono fatti minimali, riflettendo spesso una vita che è piuttosto «scialo di triti fatti».
La mia, di vita, è stata media, tra il feuilleton e l’osservazione delle formiche, però con grandi cambiamenti storici alle spalle (guerra, dopoguerra, ’68, liberazione dei costumi, dietrofront ecc) che si srotolavano come un film. Film, è vero, da cui ero intellettualmente toccata, eccome, ma non emotivamente coinvolta. Mi sono sempre sentita esclusa, diversa, incapace di adattarmi agli usi del clan, alle leggi della tribù: mi era perciò impossibile entrare a pieno titolo in una comunità, mortificazione da cui mi difendevo con l’ironia – la mia specialità – la lingua appuntita, il sarcasmo.
Ho fatto il mio nido tra i libri, gli unici che mi capissero e che capissi: diventare bibliotecaria ne è stata solo la conseguenza, non la causa, perché, come dicono i manuali, il buon bibliotecario deve controllare l’oggetto delle sue cure, registrarlo, timbrarlo, soggettarlo, ma non leggerlo che sarebbe solo una dannosa perdita di tempo. Naturalmente, desideravo con tutta l’anima scriverne uno ma la timidezza, l’orgoglio, la mancanza di legami che io stessa avevo scelto l’avrebbero destinato a non veder mai la luce. Né mi aiutava la scarsa conoscenza del mondo editoriale vero, con le sue vane piccinerie e i suoi legittimi calcoli, a distogliermi dalla venerazione di quella chiesa cui sentivo confusamente di appartenere: quella del Santo Eremita Flaubert e del Santo Martire Proust…
Poi, la malattia. Devastante ma che può anche portare i suoi doni per farsi perdonare. A me li ha portati, sotto la forma di una maggiore sensibilità e soprattutto libertà, con l’aiuto insospettabile di un’altra brutta bestia, la vecchiaia, che non a caso Svevo definisce «uno stato selvaggio». Una porta si chiude, un’altra se ne apre. Quello che diventerà il mio editore, legge casualmente un mio racconto, se ne innamora e mi spinge a svilupparne un libro. Accetto la sfida col mio corpo stanco e parto; lui e la mia editor si prenderanno cura di stimolarmi durante il viaggio, un po’ di bastone e molta carota, per rianimare l’asino stremato. Pur non essendo digiuna di narratologia, devo ingenuamente confessare che le soluzioni stilistiche non sono cercate, vengono giù facili: forse ho metabolizzato il mio pasto fino a scordarmene.
Ricordare, dimenticare. Un altro tema che si impone: persone scomparse che vogliono tornare a rivivere almeno per un attimo, suoni voci profumi del mondo di ieri che meritano di essere tramandati per non svanire per sempre.
Intanto, il film della storia dei molti continua a scorrere: nel periodo meno etico di quelli che ci sono toccati in sorte, avanzano timidamente proprio i temi etici: libertà di disporre del proprio corpo, testamento biologico, diritto di morire in pace. Laicamente, faccio quel che posso per difenderli, poco. Il caso dell’infelice: Eluana Englaro e del suo infelicissimo padre, ammirevole nella sua testarda fiducia nella legge e nel·suo offrirsi alla campagna di insulti e di accuse da parte dei difensori di una cosiddetta vita, invece di riunire tutti in una silenziosa pietas ha approfondito le differenze di opinioni fino a distruggere quello che si stava costruendo piano piano insieme.
L’individuo, sul cui destino mi viene chiesto un parere, resta sempre più solo, desideroso di chiudere il discorso senza consigli e senza divieti, libero di cambiare idea o non averne nessuna, ma insieme consapevole che i superstiti dovranno pagare le sue scelte.
Argomenti delicatissimi, in cui nessuno può decidere per un altro: infatti, mai, per un solo momento, ho desiderato essere un giudice e meno che mai un legislatore o, ai piani più bassi, un preside o un poliziotto, persino un professore, insomma nessuno che eserciti un’autorità qualsiasi su un essere umano: viltà o anarchia? Parliamo dei premi letterari che è meglio.
Vivo chiusa in casa, è vero, senza vedere né parlare con nessuno perché la mia bella voce è svanita come quella della Sirenetta (senza nemmeno avere in cambio un paio di gambe buone), ma non sono poi tanto isolata dal mondo. Corrispondo con più persone di quanto abbia mai fatto, leggo i giornali e anche internet che, prendendolo con vari grani di sale, è una grande fonte di informazione.
Per natura, mi terrei lontana dai premi, che ti sottraggono sempre un po’ di innocenza; ciò non toglie che il Campiello Opera Prima mi abbia intenerita e commossa, intenerita per via dell’esordio alla mia eta, commossa perché è un riconoscimento da parte della mia città che continuo ad amare anche se tanto degradata.
Confesso, nonostante il mio atteggiamento zen, di essere invece inquieta per la cinquina dello Strega: ho perso evidentemente più innocenza di quanto immaginassi. Per una testa illustre che si è messa volontariamente sul ceppo della ghigliottina, un’altra si è autocandidata impavida, incoraggiando la nascita di una fungaia imprevista. Il mio editore, che peraltro non ho mai conosciuto personalmente, credo sia un vero self-made man che cela, ma non troppo, sotto un aspetto talora mondano talora irruento, un’autentica lealtà e un po’ dell’ingenuità originarie.
Non sarà certo stato lui, nel caso, a nuocermi, constatando insieme a molti altri la nudità del re.
In ogni caso, io me ne sto qui in compagnia dei poeti preferiti Shakespeare ,Dickinson, Montale) e dei moralisti o immoralisti che mi hanno nutrita (La Rochefoucauld, Choderlos de Laclos, Celine ), non immune da curiosità peri nuovi talenti, ivi compresi alcuni candidati «rivali» di cui uno almeno mi piace molto (non rivelerei il suo nome neanche sotto tortura), ma sempre in fondo fedele, non appaia per carità iettatorio, a quel che dicevo un tempo, quando ero davvero snob: «Preferisco leggere libri di autori già morti».
Cesarina Vighy