"La mia morte con ironia". Intervista a Cesarina Vighy

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A cinque anni dall’esordio in narrativa e a quattro dalla morte di Cesarina Vighy, pubblichiamo la sua prima intervista che le fece Daria Galateria, apparsa su la Repubblica il 23 aprile del 2009.

 

Il sole e la morte non si possono guardare fisso, scrive La Rochefoucauld nelle Massime. Sbagliava. Ha ragione Pascal: alla morte si può benissimo pensare, purché sia divertente. Il Novecento operoso, che occulta la morte per farci lavorare di lena, riserva infatti il tema allo spettacolo: il cinema d’ azione per esempio, dove aerei precipitano in mare in una colonna di fuoco e d’ acqua, le macchine si schiantano contro una vetrina in un tripudio di frammenti di vetro; e poi chiassose sventagliate di pallottole, e mille effetti di suoni e luci. Altre morti, quelle meditate, compaiono pure a volte – raramente. Cesarina Vighy, in un primo romanzo composto a settant’anni e allo stremo di una malattia degenerativa, la Sla, ha scelto una via piuttosto straordinaria; parla del suo addio alla vita con umorismo. Qui si racconta con risposte via mail. Nel suo L’ultima estate (candidato al premio Strega) inanella molti medici risibili, le divise degli ospedali (camice o casacca? il potere – portantini e caposala – va decifrato), e poi i ricordi – un’italietta scomparsa, tra le calli di Venezia e la Roma degli anni Cinquanta costellata di norcini: e una miriade di personaggi evocati e congedati con il brio della vita sana, e della buona letteratura. Amelia, detta Z. (l’ultima lettera) non ci risparmia, con la scusa dell’allegria della scrittura, nessuna atrocità terminale.

La morte, il grande tabù, dice Z. Ha avuto difficoltà a affrontarlo letterariamente?

«Rispondo, forse con un po’ di presunzione, “no”. Credo dipenda da una lunga frequentazione delle morti “letterarie” (per prima, naturalmente, quella di Ivan Ilic) che mi hanno, in certo modo, allenata. E poi, almeno per me che ho bisogno di un appiglio alla realtà, la morte è un oggetto sconosciuto, quindi inesistente, quanto i mondi paralleli o gli extraterrestri da cui peraltro alcuni scrittori hanno tratto dei buonissimi romanzi. Conosciamo la disperazione del distacco dai nostri cari, i sintomi delle malattie e dei veleni studiati sui manuali, la sequenza terribile del corpo che si disfà, le favole di un paradiso immaginato e immaginario, ma la morte, come esperienza, non possiamo conoscerla».

La protagonista del romanzo è stata bibliotecaria. Come lei. Nei due anni in cui la malattia era stata diagnosticata e ha continuato a lavorare, ha letto libri e romanzi sulla malattia’?

«Sì, sono stata una bibliotecaria felice di esserlo. Con l’apparire e il progredire della malattia, il mio interesse, prima rivolto ai saggi (Woolf, Sontag), si è spostato naturalmente su letture che ne trattassero soprattutto dal punto di vista dei medici o degli stessi malati. Questi ultimi, tranne le eccezioni della Lagorio (Capita) e di Bauby (Lo scafandro e la farfalla), scrivono generalmente senza alcuna ambizione e pratica letteraria, diventando presto, più che dei testimoni, dei testimonials. Quanto agli scritti dei medici, mi ha affascinata e aiutata il recentissimo Modi di morire di Iona Heath, la quale unisce a una vasta e appassionata conoscenza della letteratura l’ esperienza partecipe fatta coi malati di un quartiere povero di Londra come medico di base».

Di tutte le possibili citazioni sulla morte – a parte lo sconsolato Gattopardo (“Finché c’è morte c’è Speranza”) lei sceglie due non-sense (“Monsieur de La Palisse est mort / Mort devant Pavie / Un quart d’heure avant de mourir / II etait encore en vie” e “Son contento di morire / ma mi dispiace …” di Petrolini). Perché?

«Le due citazioni, apparentemente scherzose, le ho scelte in un primo tempo per introdurre una nota di leggerezza. Man mano che scrivevo, invece, mi si svelavano sempre più dissimili ma portatrici di una particolare pietas. La prima riflette, infatti, l’espressione di un sentimento da parte di semplici soldati che si stupiscono all’idea del loro valoroso capo, morto nonostante fosse ben vivo un quarto d’ora prima. Un po’ come quando noi davanti a una salma diciamo: “E pensare che mi ha telefonato l’altra sera!”. La seconda citazione, invece, nella forma ambigua del non-sense esaltato da una sublime idiozia alla Cretinetti, enuncia l’impossibilità di scindere i due aspetti della morte: dolore e sollievo».

In questo romanzo si incrociano tanti linguaggi: resoconti di sogni, parole in libertà quasi futuriste (“Papa, mamma, pappa, letto, pipì, compiti, esami, uscire sbattendo la porta, mangia, non mangiare, studia, non mi piace quel tipo … “), rievocazioni, decaloghi “portatili”, voce “fuori campo” del narratore onnisciente. L’umorismo, e una certa ferocia, sembrano però le chiavi dominanti. Ha sempre scritto così?

«L’umorismo “nero” è in me caratteriale e non può non essersi esteso alla scrittura di ogni tipo. L’incrocio di linguaggi, invece, ha potuto liberarsi soltanto ora in piena libertà, costretto com’era in saggi, saggetti, testi insoliti ma non troppo di divulgazione cinematografica e soprattutto soffocato dalla frustrante condizione di sia pur volontario “negro”».

Z. ha fatto il testamento biologico. Racconta del padre in fin di vita che mima a fatica il gesto di spararsi un colpo di rivoltella alla tempia. Pero Z. parla dell’infinita adattabilità del malato, e mette un punto interrogativo alla sua capacità di “tirar fuori da sotto il cuscino lo scritto in cui rifiut(a) le cure”. Cosa pensa delle leggi che l’Italia si sta dando? ‘

«Ho steso in tempi non sospetti un testamento biologico faida-te, profondamente convinta del diritto per ogni individuo di disporre liberamente del proprio corpo. Al momento di strutturare il romanzo, però, nel pieno della bufera suscitata dal caso Englaro, ho scelto di condensarne la materia proprio per non essere strumentalizzata o, peggio, strumentalizzare la fine di una ragazza martoriata, a fin di bene(?), per 17 anni. In questa scelta sono stata sostenuta dal mio editore, interessato quanta me a un’opera squisitamente letteraria in cui si possa anche fare l’ elogio del dubbio quando sorgano delle “idee che non condividiamo”, secondo la frase citata di Woody Allen».

Lei parla intenzionalmente dei personaggi minori della vita di Z., nomina gli oggetti scomparsi (“gli asciugapenne”), la vita quotidiana di Venezia e Roma in quello che si è perso per sempre. Pensa che sia la funzione della letteratura recuperare (resuscitare, direbbe un altro malato, Proust) gli aspetti più fuggitivi del tempo?

«Sì. Se non l’unica, è un’importante funzione della letteratura recuperare, tramandare, resuscitare (come faceva Proust remando sino all’ultimo sulla sua scialuppa) un passato altrimenti perduto per sempre, specialmente oggi quando alcuni rifiutano fatti accertati e incisi letteralmente sulla pelle del braccio sinistro di testimoni chela morte sta mettendo a tacere sempre più rapidamente. Dirò di più: se è un piacere tenere un diario in gioventù, dovrebbe diventare un obbligo, almeno morale, per chiunque abbia passa o “la linea d’ombra”, dire quello che ha visto o creduto di vedere».

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