In tempo di Ice Bucket Challenge, e di iniziative di sensibilizzazione per la Sla, vogliamo ricordare ai nostri lettori una testimonianza d’eccezione. Quella della scrittrice Cesarina Vighy, Premio Campiello Opera prima nel 2009 con il suo L’ultima estate, romanzo dai forti toni autobiografici, scritto durante il decorso di questa devastante malattia e a pochi mesi dalla morte.
Ecco i link delle due principali Onlus italiane che si occupano dei malati di Sla:
Aisla: http://www.aisla.it/
Viva la vita: http://www.wlavita.org/
Un estratto da L’ultima estate:
La notte bianca
La cosa più stupida da dire a un malato è che lo si trova molto bene, che è una fissazione, che tutti stanno un po’ giù ecc.
La cosa più triste, invece, è quando non te lo dicono più, anzi non sanno bene che dire.
Solo i dottori trovano le parole per ingannarti, è questo che imparano all’università, e tu esci dallo studio sollevato ma appena arrivi all’ascensore ti rendi conto che sono balle a pagamento e fai la faccia di Bob Hope quando scopre uno scheletro nell’armadio: lo richiude subito come se niente fosse ma dopo due minuti urla per lo spavento.
Bene, Z. è al secondo stadio, quello triste. Piange spesso, irrefrenabilmente, con grande vergogna sua e imbarazzo dei presenti, soprattutto dell’angelo incazzoso che vive con lei.
Perché mi è toccata questa umiliazione?
Sono stata sempre bene e così orgogliosa della mia salute: non ho la febbre da decenni, l’influenza non mi si attacca, porto bene gli anni. Già, gli anni. Ne dimostravo dieci di meno e la malattia me ne ha regalati una dozzina più di quelli giusti.
Sono in quell’età in cui la pubblicità ti si rivolge ancora offrendoti creme “per pelli mature” in attesa di propinarti polvere per dentiere e assorbenti invisibili. Tutto per continuare un gioco che non ti dice più niente con signori cui antiossidanti e pillole azzurre dovrebbero donare il turgore di un attimo, fuggente più del solito.
E poi fa caldo, troppo caldo, e l’Estate Romana sta per cominciare col suo fracasso notturno così sgradito ai nevrastenici e agli invidiosi.
Il quinto Vangelo, la televisione, dice che questa è l’estate più calda da cinquanta, cento, centocinquanta anni. Lo dice con un’ansia quasi gioiosa, come se ci fosse una gara fra le città e Roma, coi suoi trentotto gradi che “vengono percepiti” come quaranta, fosse in buona posizione per vincere il campionato.
Tanto, io non esco. Abbiamo provato a fare il giro, in automobile, dei posti dove ho sgambettato con delizia per anni ma in centro non si può entrare, là ci sono troppi gradini, lì il divieto di sosta… Al diavolo! Fortuna che Roma la conosco come le mie tasche.
Invece non conoscevo affatto gli ospedali tutti bianchi, immensi, che sorgono vicino al Raccordo Anulare, in mezzo a piccoli deserti fatti sbancando più spazio del previsto, dove forse doveva essere piantato un boschetto, poi dimenticato. Cittadelle il cui unico lasciapassare è il dolore; il sole, stranamente, vi batte sempre allo zenit, e devi rifugiarti per forza dentro, nei bar se sono aperti, negli spazi di attesa dove gente con gli occhi spalancati, più per paura della sentenza che per fascinazione degli schermi televisivi sparsi, aspetta. E preferisce aspettare, a lungo.
C’è anche qualche posto più amabile dove ti mandano, poi. Giardini con chioschetti, alberi pieni di uccelli, prati con gatti pasciuti. E una grande struttura in plastica, dove tutti fanno, a giorni fissi, il karaoke. In carrozzella.
Una volta capito che la “riabilitazione” è un alibi per i parenti, un inganno per i pazienti, è rotto l’incanto. Sparito il giardino di Armida, vedi solo dei vecchi avidi che si attaccano insensatamente alla vita o dei ragazzi dagli occhi nuvolosi che si chiedono se quella vita, la loro, si è davvero fermata.
Presa dall’amore forsennato per questa città che possono provare soltanto i romani in seconda battuta, i “cispadani” in particolare, Z. aveva sempre vissuto più all’esterno che all’interno. Tornare a casa le aveva sempre fatto un po’ malinconia, come rientrare a un domicilio coatto. Ora che non esce più e il suo orizzonte si è incredibilmente ristretto, scopre che la casa, la sua, è molto bella. Grandi stanze in disordine, libri gingilli giornali vecchi ammucchiati dappertutto che le hanno sempre rimproverato, ma finestre che fanno entrare gli alberi del Gianicolo e una terrazzetta da cui, sporgendosi, si vede il fastigio del Vittoriano. La cosa migliore, però, è il corridoio, lungo, scuro, tipico degli anni Trenta, diventato una preziosa palestra per passeggiare traballando.
Pensa a quel cavaliere che, fatto voto di andare a Gerusalemme ma non potendo assentarsi così a lungo, compì il pellegrinaggio in giardino coprendo, passo dopo passo, scudiero al seguito, la distanza che lo separava dalla santa meta.
Camminare eretti e parlare, due facoltà che hanno fatto della scimmia un uomo: io le sto perdendo entrambe. Restano l’inutile pollice sovrapponibile e l’insopportabile coscienza di me.
Il quinto Vangelo ha detto che farà ancora più caldo. Per riparare, si è messo a snocciolare una per una le “Notti sotto le stelle”, le delizie dell’Estate Romana. Z. fa spallucce: ne ha avute anche troppe di quelle delizie. Solo una cosa le dà una breve stretta al cuore: quando uno spettacolo, una festa, un nuovo itinerario vengono definiti «imperdibili» anche se sa che ormai è un aggettivo di moda e basta. Malvolentieri, deve riconoscere che almeno non si sente nessun rumore quest’anno. È diventata anche sorda? O sono state accolte finalmente le proteste dei nevrastenici e degli invidiosi?
Una risorsa inattesa: la finestra della cucina. Finora mi era servita soltanto per fumarci una sigaretta aspettando che bollisse l’acqua della pasta, vedere se era uscito o rientrava qualcuno della famiglia, salutarlo con uno scherzoso cenno militaresco.
Adesso ho pianto (mi ci vuole poco) quando sono arrivati, in gran ritardo, i potatori. Hanno decapitato i bei platani: i rami, che già avevano messo le prime foglie, cadevano di schianto. Ho pensato che sarebbero rimasti così, nudi e crudi e vergognosi, senza ombra né uccelli, fino all’anno prossimo.
L’anno prossimo per loro, naturalmente.
Invece ce l’hanno fatta. In pochi giorni erano già tutti coperti di gemme e promettevano ombra e uccelli già quest’estate. E quello che gli alberi promettono, lo fanno.
Z. ha scoperto, nel tronco più vicino alla finestra, una fessura lunga e stretta. È venuto a ispezionarla un merlo maschio: nero tirato a lucido, becco giallo d’ordinanza, occhio di rubino incastonato in un cerchio d’oro. Ha guardato dentro brevemente e se n’è volato via. Visto e approvato. Poi è arrivata la femmina ed è cominciato il lavoro vero.
Strana famiglia. Il maschio non s’è mai più rivisto. La femmina è aiutata da un’altra femmina (la cameriera? una coppia di fatto?) che si alterna a lei in brevi ma frequenti visite a quello che ormai s’è capito essere un nido. A ore fisse si chiamano e l’una o l’altra arriva (sono sicuramente due anche se identiche perché qualche volta si scontrano nella porticina stretta e si devono cedere il passo).
Si starebbe ore ad aspettare la piccola cerimonia. E Z. ci sta, sospendendo i pensieri neri, ammirando le danze delle grige creature come i viaggiatori stupiscono a quelle delle ballerine bambine di Bali.
Confesso: neanche quando ero incinta io, ho atteso con tanta curiosità una nascita. Dobbiamo esserci quasi perché il rito delle due madri avviene ormai spessissimo, frenetico.
Quanti saranno? Vedrò quei becchi sempre spalancati sulle gole rosa, bocche affamate, imbuti impazienti ma forzatamente pazienti, già pronti a ingurgitare il cibo che la madre porterà affannata? E i primi voli stentati e goffi, verso il loro elemento, l’aria, lasciando la terra a noi?
Niente da fare. Senza lirismi, senza tante storie, una mattina esce dalla fessura un solo piccolo merlo, grasso e tondo, si scrolla le ali e se ne va per sempre. Anche gli animali sono arrivati al figlio unico. Ben nutrito e irriconoscente.
Z., umilmente, ha ripiegato sui piccioni. Quelli, tranne i turisti a Venezia, non sono simpatici a nessuno. Mangiano, sporcano, tubano. I sindaci li fanno prendere con le reti per deportarli, la gente mette dei lunghi aghi tra le imposte per impedirgli di fare il nido sui davanzali.
Lei invece, quando fa buio, prepara un cartoccio di delizie: crackers, noccioline, briciole, uvetta. Le piace pensare che sia un piccione solo, sempre lo stesso, che viene a mangiarsi tutto ogni mattina all’alba. Non si conoscono, quindi. Come Ciajkovskij e la sua benefattrice. Lei mandava soldi e lui scriveva musica col patto di non vedersi mai. E mai si videro.
Tutti ad aspettare la Notte Bianca. La notte dei morti viventi, direi io. Gli zombi che non vanno in un museo neanche se li paghi, che non leggono un libro dalle elementari, che non li tiri fuori di casa la sera perché preferiscono addormentarsi davanti alla TV, come a un segnale misterioso, si riversano in massa nelle strade, fanno file lunghissime per vedere gli incomprensibili disegni del futuro restauro di un mosaico, assistere a uno spettacolo che danno già da mesi, ascoltare i canti occitani («Ma dov’è l’Occitania? Mah, sarà uno di quei nuovi paesi della Russia»).
Le mie sono notti bianche davvero: mi addormento alle cinque, alle sei, persino alle sette. Quando tento di spegnere la lampada, allo scattare della chiavetta mi si accende tutto un teatro negli occhi chiusi: mezze luci, palchetti, lampadario di cristallo, occhi di bue, cercauomo, riflettori.
La testa mi brulica come fosse piena di vermi. Che scambio per idee.
Figlia di un gentile agnostico che diceva di non avere proprio l’organo produttore della fede, moglie di un ateo arrabbiato che vorrebbe incontrare Dio per menargli, Z. assomiglia più a suo padre. Ciò può renderle qualche volta le cose più facili, sempre più malinconiche.
Ho letto qualcosa di curioso. Quando Matteo Ricci, il gesuita che tentò di evangelizzare la Cina, si mise a riscrivere il catechismo per gli auspicati nuovi fedeli, inciampò subito in una difficoltà: come rendere il nome di dio. Né il confucianesimo né il buddismo né il taoismo avevano niente di simile. Se la cavò infine con un modesto «Tian zhu» (‘Signore del cielo’). Personalmente, avrei lasciato perdere: in fondo quella era la più antica civiltà del mondo e se l’era cavata benissimo per tanti secoli trovando il divino nel tutto o nel nulla.
Ormai ai meteorologi, quasi scomparsi dagli schermi televisivi stufi di non azzeccarci mai, non bada più nessuno. Si guarda il cielo, come gli appestati manzoniani, augurandosi che piova a secchi a barili a cisterne. Tranne che nella Notte Bianca, naturalmente.
Mia grande amica, mia unica amica è La Gatta: tonda, timida tigre parlante mi ama di più da quando sono malata. Non, come gli umani, “nonostante” sia malata ma “perché” sono malata e sto sempre in casa e molto a letto. Quando dormiamo, non so più se la sua zampa stia sulla mia mano o la mia mano sulla sua zampa. Quando ha da fare, corre via in fretta non prima di voltare la testa un momento per salutare e rassicurarmi: «Torno subito».
Anche Stendhal, fra i bizzarri e infantili “privilegi” che chiedeva per sé, metteva all’articolo 7: «Miracolo. Quattro volte l’anno potrà trasformarsi nell’animale che vorrà, e ritrasformarsi poi in uomo».
Sì. La Natura è davvero un tempio ecc. ecc. anche se le sue colonne possono essere le zampe di un gatto e persino, miracolo, quelle esilissime di un ragno.
Che fortuna, che miracolo (è già il terzo in una sola pagina). Non pioverà sulla Notte Bianca.
Sono salvi gli zombi, gli eventi, le luci, gli strumenti, gli attori, i coristi, i ballerini, i saltimbanchi, i negozianti, gli straordinari per gli autisti degli autobus, i salsicciai, i bar, persino gli sciamani che sono riusciti certo loro ad allontanare la pioggia in un’estate che non ha mai visto una goccia d’acqua.
E così ci siamo arrivati. Pensa e ripensa, quando stamattina ho visto il sole luccicante come al solito, ho deciso cosa devo fare. Basta snobismi, solo piccole, doverose eccentricità. Avrò la mia Notte Bianca anch’io, con questa andatura sarò la regina degli zombi, la corona l’ho ben meritata, la mia corona di spine.
Solo che la mia sarà la Giornata Bianca. Voglio vederci bene e voglio che gli altri mi vedano. Gli altri, che mi fanno tanta paura. Gli altri, quelli che ho sfuggito per mesi, chiudendomi dentro casa, quelli che ti guardano pensando a come eri, a come sei, un lampo fuggevolissimo di compassione, una preghiera al loro dio perché gli eviti questa fine. I vicini.
Uscirò. Mi aiuterà il mio angelo incazzoso (ho capito finalmente che non esistono solo gli angeli affabili, loquaci); mi sosterrà per il braccio e speriamo di non cadere subito, la passeggiata deve essere trionfale.
Eccoli i vicini. So tutto di loro: quello che non ho visto dalla finestra me lo hanno raccontato gli alberi, la polvere, le ombre.
C’è l’ottantenne che “guida ancora la macchina” in attesa di una morte da giovane andando a sbattere alla prima curva; c’è l’ex bella, illusa che il tempo solo per lei non sia passato; c’è il generale che non ha mai visto una goccia di sangue vero in un vero campo di battaglia; c’è la coppia che crede di avere il copyright sull’amore; c’è il ragazzino obeso portato a spasso dal suo cane; ci sono i bambini attraverso i cui occhi troppo puliti passi come un fantasma in un vetro; c’è la zoppetta che fa finta di niente tanto niente si può fare; c’è la badante che invece di badare versa la sua nostalgia nel telefonino incistato nell’orecchio; c’è la gattara folle che alle due di notte ha un appuntamento fisso coi suoi protetti; c’è suo marito che la segue angosciato nascondendosi nei portoni perché lei non se ne accorga. Tutti colpevoli, tutti innocenti e, sì, tutti fratelli: come si fa ad aver paura di loro? Saluto, sorrido, faccio il giro del palazzo arrancando, rientro.
Sto meglio: solo qualche pensiero molesto, qualche verme nel formicolio del cervello.
Quanto ricorda un piccione? Quanto si immalinconisce una gatta? Quanti passi per Gerusalemme?